La fuga come condotta violenta: un’ipotesi di analogia “mascherata”?

Articolo a cura dell’Avv.ssa Silvia Schenatti

1. Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale: una violenza “a maglie larghe”

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale, previsto all’art. 337 c.p., punisce la condotta violenta o minacciosa posta in essere dal soggetto al fine di opporsi al compimento di un atto d’ufficio o di servizio, svolto da un pubblico ufficiale ovvero da un incaricato di un pubblico servizio.
Ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame, punita a titolo di dolo specifico, è dunque necessario che l’azione sia connotata dal requisito della violenza o della minaccia, le quali devono essere idonee a impedire, o quantomeno ostacolare, l’adempimento di un ufficio o di un servizio pubblico, secondo il giudizio di c.d. “occasionalità necessaria”.
Secondo dottrina[1] e giurisprudenza[2], il delitto di resistenza ex art. 337 c.p. integra un reato di pericolo concreto, per la cui configurazione è, quindi, doverosa la valutazione, da svolgersi nel caso di specie, circa l’idoneità (e l’univocità) della condotta violenta, o minacciosa, a offendere il bene giuridico tutelato dalla norma e individuato nel buon andamento della P.A. Va, tuttavia, evidenziato che altre pronunce considerano la fattispecie in esame un c.d. reato plurioffensivo, ove, oltre al corretto svolgimento dell’attività pubblica, viene preservata l’incolumità dei pubblici agenti[3].
Negli ultimi anni, si è assistito a una sempre maggior, ed eccessiva, dilatazione del concetto di violenza, quale modalità di condotta rilevante ai fini del reato di cui all’art. 337 c.p. Infatti, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, tende a ricondurre in questa definizione, come si approfondirà in questo elaborato, anche comportamenti completamente scevri da qualsiasi connotato aggressivo e coercitivo, quali, ad esempio, la fuga e il mero divincolarsi. Tale ampliamento potrebbe comportare un pericoloso scivolamento su quel crinale, percorso dal c.d. “decreto Sicurezza Bis 2019”[4], che ha comportato l’inapplicabilità dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. alla fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale[5]: infatti, la ratio accomunante le due scelte (l’una giurisprudenziale e l’altra legislativa) sarebbe da rinvenirsi nella volontà di agevolare e tutelare il lavoro delle Forze dell’Ordine, anche a patto di provocare rischiose “deformazioni” del diritto e dei principi costituzionali[6].
Infatti, questa (pericolosa) tendenza “dilatatoria” del concetto di violenza, integrante la fattispecie ex art. 337 c.p., pone serie problematiche legate alla legittimità costituzionale della norma, o, meglio, della sua interpretazione, con particolare riferimento ai principi di legalità e di tassatività (e conseguente divieto di analogia), riconosciuti e tutelati dall’art. 25 Cost.

2. Casi pratici

Al fine di meglio comprendere il trend giurisprudenziale volto a estendere i confini del concetto di violenza, ricomprendendovi atteggiamenti privi di qualsiasi elemento di aggressività e di forza coercitiva, appare opportuno descrivere qualche caso pratico in cui sia i giudici di merito che di legittimità hanno registrato la presenza di una condotta violenta, come tale rilevante ai sensi dell’integrazione del delitto di resistenza a pubblico ufficiale. In particolare, ci si concentrerà sull’analisi dell’ipotesi in cui l’elemento tipico della condotta violenta è riconosciuto nella fuga del soggetto attivo.
Nel corrente paragrafo, ci si limiterà a riportare, semplicemente, la cronaca dei fatti, riservandosi ogni riflessione per il proseguo dell’articolo.
In particolare, il Tribunale di Ascoli Piceno, con una sentenza risalente allo scorso anno[7], ha ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 337 c.p., affermando quindi la sussistenza di una condotta violenta, un ragazzo che, al fine di sfuggire all’alt delle Forze dell’Ordine, ha continuato a guidare per il centro cittadino con svolte e cambi di direzione repentini, per poi finire la sua corsa rovinando a terra contro un paletto. Secondo il giudice di primo grado, tale comportamento rientrerebbe nei confini della “violenza”, per il sol fatto che il soggetto agente ha messo in pericolo l’incolumità dei pubblici ufficiali e degli avventori della strada (i quali, va ricordato, non costituiscono soggetto passivo del reato).
Sulla stessa lunghezza d’onda, la Corte di Cassazione[8] ha confermato la sussistenza della fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale nel caso di un soggetto che si era sottratto all’identificazione degli operanti attraverso una complessa manovra di guida nel corso della quale, alla simulazione di resa, era seguita una proditoria fuga dal parcheggio di un centro commerciale, con concreta esposizione a rischi per le persone, conclusasi, solo con l’impatto dell’auto sulla barriera di un casello autostradale.

3. Il significato di “violenza” nel sistema penale

Nel linguaggio comune, il termine “violenza” viene descritto come una “azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà”; o, ancora, come “accentuata aggressività[9].
Tali definizioni, l’una più estensiva e l’altra più restrittiva, sono state riprese e adattate al diritto penale, ove la violenza costituisce elemento tipico di alcuni reati, in particolare di quelli contro la persona (cfr. artt. 609 bis, 609 octies, 610, 611, 613 bis c.p.) o contro il patrimonio (cfr. artt. 628, 629, 634, 635 c.p.).
Specificamente, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria aderiscono e fanno proprio un concetto di “condotta violenta” in senso lato, inteso come qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione[10]. A tal proposito, si suole distinguere tra “violenza propria”, esprimente l’energia fisica usata per incidere sull’altrui libero discernimento, e “violenza impropria”, richiamante comportamenti subdoli comunque caratterizzati dall’effetto psicologico della coazione della volontà del soggetto passivo[11].
Per ragioni di completezza, occorre dar conto di quell’orientamento dottrinale minoritario secondo il quale, intendendo stricto sensu il termine “violenza”, esso starebbe a significare una mera aggressione fisica, comportante la morte o un danno all’integrità fisica della persona[12].
In definitiva, dunque, aderendo alla tesi maggiormente accreditata in dottrina e giurisprudenza, una condotta può definirsi “violenta” allorché, prescindendo dal mezzo impiegato, sia idonea a escludere, o perlomeno limitare, la libertà di autodeterminazione altrui.

4. Il principio di tassatività e le regole interpretative

Come già sopra accennato, l’art. 25 co. II Cost. prevede e tutela il principio di legalità, il quale, fra i suoi corollari, presenta il dovere di tassatività (oltre a quelli di riserva di legge e di irretroattività della legge penale in malam partem).
Il principio di tassatività è da intendersi in due diverse accezioni. Anzitutto, determina l’obbligo per il Legislatore di addivenire a una chiara determinazione della fattispecie legale, utilizzando termini precisi per l’elaborazione normativa. In secondo luogo, rivolgendosi all’autorità giudiziaria e, in particolare alla sua funzione interpretativa, fa divieto di applicazione analogica della norma penale, la quale, quindi, deve (e può) regolare soltanto le situazioni in essa direttamente riconducibili (secondo alcuni, in questi casi, si deve parlare di “determinatezza”)[13].
Per motivi di completezza ed esaustività, giova puntualizzare che parte della dottrina e della giurisprudenza sono solite distinguere concettualmente il termine “tassatività”, come sopra definito, da quelli di “determinatezza” e di “precisione”, che starebbero a indicare, rispettivamente, la rispondenza dei fatti alla realtà fenomenica (i quali devono poter essere oggetto di prova empirica) e la descrizione intellegibile, e quindi comprensibile, della fattispecie astratta[14].
Orbene, le regole interpretative, di cui il giudice deve servirsi nel caso concreto per poter ottemperare al principio di tassatività, sono dettagliate all’art. 12 prel. c.c.
In primo luogo, la norma appena richiamata prevede la necessità di analizzare i termini che compongono la disposizione attraverso la c.d. interpretazione letterale, ossia indagando il significato (o i significati) delle singole parole. In secondo luogo, è doveroso procedere alla c.d. interpretazione logico-sistematica, considerando i termini nel loro insieme. Infine, è prevista la c.d. interpretazione teleologica, per cui il giudice deve tenere conto della ratio che ha spinto il Legislatore a introdurre quella fattispecie o, più in generale, quella specifica norma.
Tuttavia, è bene precisare che le regole interpretative ora analizzate sono destinate a compenetrarsi: per cui è ormai superato quell’indirizzo giurisprudenziale affermante che, qualora il significato dei singoli termini fosse chiaro e palese, sarebbe superfluo ricorrere all’interpretazione sistematica e teleologica.

5. Il sottile e fondamentale discrimen tra interpretazione estensiva e analogia

Com’è noto, l’art. 14 prel. c.c. pone il divieto di analogia con riferimento alle norme penali (oltre che a quelle eccezionali), stabilendo che esse non debbano applicarsi oltre i casi previsti dalla legge. Giova sin d’ora precisare che, secondo la dottrina maggioritaria, tale divieto è da riferirsi esclusivamente alle cc.dd. norme penali in malam partem, trovando il suo fondamento nel principio del favor rei[15].
L’ordinamento giuridico richiede, ai fini dell’applicazione analogica, che, da un lato, vi sia un vulnus normativo e, dall’altro, l’eadem ratio tra il caso concreto e la norma scritta nella quale, mediante il procedimento analogico, il primo verrà ricondotto.
L’art. 12 co. II prel. c.c. contempla due diverse tipologie di analogia. L’analogia legis ricorre qualora venga estesa, alla situazione di specie, una disposizione normativa regolante casi simili o materie analoghe; diversamente, si ha analogia iuris allorché la controversia venga risolta e decisa sulla base dei (soli) principi generali previsti dal diritto nazionale. Dunque, può dirsi che tale ultima operazione è ulteriormente subordinata all’impossibilità di risolvere e superare il vulnus giuridico mediante ricorso alla c.d. analogia legis.
Orbene, se, come già anticipato, è impossibile addivenire a una applicazione analogica in materia penale, sulla base dei principi costituzionali di tassatività e del favor rei (cfr. artt. 25 e 27 Cost.), ciò non escludere la possibilità per il giudice di procedere a un’interpretazione estensiva della norma sfavorevole (di parte generale o speciale), rimanendo in tal modo nel perimetro della litteram della disposizione di legge.
Alla luce di ciò, è, quindi, fondamentale delineare la (sottile) linea di demarcazione fra interpretazione estensiva e analogia, la prima ammessa e la seconda vietata nel diritto penale.
Nel caso dell’interpretazione estensiva, il significato di un termine viene ampliato oltre il senso più immediato e apparente, rimanendo pur sempre all’interno dei “confini” letterali della disposizione. Viceversa, si è in presenza di applicazione analogica allorché si travalichino tutti i possibili significati letterali della norma, anche se interpretata nella sua massima estensione[16].
Con il procedimento analogico, dunque, si esula dalla mera attività interpretativa, finendo per svolgere una vera e propria integrazione del testo normativo; funzione questa che non rientra nei compiti istituzionali dell’autorità giudiziaria, essendo di esclusivo appannaggio del Legislatore a fronte del principio costituzionale di riserva di legge (cfr. art. 25 Cost.).

6. Il concetto di “violenza” nel reato ex art. 337 c.p.: interpretazione estensiva o analogia?

Chiariti gli istituti di interpretazione estensiva e analogia, e analizzate le intercorrenti differenze, occorre ora ragionare sul recente orientamento giurisprudenziale volto ad allargare sempre di più “le maglie” del concetto di “violenza” in relazione al delitto di resistenza a pubblico ufficiale. In particolare, è necessario valutare se l’ampia accezione riconosciuta a tale termine (v. par. 1) possa, comunque, rientrare fra i suoi significati letterali, dando luogo a un caso di interpretazione estensiva, ovvero se esuli dai suoi più ampi “confini”, configurando così un’ipotesi di applicazione analogica, vietata in materia penale ai sensi dell’art. 14 prel. c.c.
Va ricordato (v. par. 3) che, secondo la teoria dottrinale e giurisprudenziale maggioritaria, elaborata in merito ai reati contro la persona o il patrimonio sopra citati, il termine “violenza” indica “qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione[17].
È quindi, necessario valutare se, nel caso di specie, si sia effettivamente manifestata, quale effetto (psichico) della condotta, una eliminazione, o quantomeno una compressione, della facoltà di scelta e comportamento del soggetto passivo. In altre parole, dunque, affinché un’azione possa definirsi “violenta”, secondo il suo significato più estensivo, è necessario che la persona offesa non abbia alcuna alternativa se non quella di subire passivamente l’atteggiamento altrui, con proprio pericolo.
Alla luce di ciò, appare opportuno chiedersi se, con riferimento al delitto ex art. 337 c.p., la mera fuga, effettuata spesso al sol fine di sottrarsi all’arresto, possa rientrare nel concetto di “violenza”, estensivamente interpretato.
A ben vedere, è arduo immaginare che il soggetto attivo, fuggendo, possa privare coattivamente l’offeso della libertà di autodeterminazione, per il semplice fatto che, allontanandosi, egli non può influenzare o comandare il pensiero e le azioni altrui. In altri termini, i pubblici ufficiali non si trovano nella posizione di dover subire, senza altra possibilità, il comportamento altrui; infatti, astrattamente, essi potrebbero liberamente decidere di seguire o meno il fuggitivo. Al contrario, il loro obbligo di “inseguimento” è da inquadrare come adempimento della funzione pubblica, non come conseguenza della condotta prevaricatrice del soggetto agente.
Ciò posto, quindi, appare difficile riscontrare nella mera fuga i connotati della “violenza”, intesa secondo un’interpretazione letterale e sistematica, come azione volta a costringere coattivamente taluno a fare o non fare qualcosa, riducendo la sua capacità di discernimento. Difatti, lo ripetiamo, il dovere di inseguire e catturare il fuggiasco non è frutto di una costrizione di quest’ultimo, ma conseguenza della funzione di pubblica sicurezza che il pubblico ufficiale ricopre.
Alla luce delle considerazioni svolte, sembrerebbe che la mera fuga, differentemente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza, non presenti i requisiti minimi per poter rientrare nel concetto di “violenza”, lato sensu intesa, non comportando alcuna privazione coattiva e diretta della libertà di autodeterminazione del pubblico ufficiale. Non rientrando nel novero dei possibili significati secondo un’interpretazione estensiva del termine, vi è il (concreto) rischio di dar vita a un’ipotesi “mascherata” di applicazione analogica, come tale vietata dall’art. 14 prel. c.c.

7. Conclusioni

In considerazione delle riflessioni contenute nei precedenti parametri, è evidente come la giurisprudenza, con riferimento al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, abbia eccessivamente dilatato il concetto di “violenza”, facendovi rientrare anche la condotta di fuga, andando oltre l’interpretazione estensiva del termine.
Infatti, da alcune sentenze, emerge la tendenza a confondere la condotta violenta con il pericolo causato all’incolumità dei pubblici agenti. Tuttavia, essi esprimono concetti totalmente diversi, operanti su altrettanti diversi piani: infatti, la “violenza” connota la modalità, l’essenza, dell’azione; viceversa, il pericolo si riferisce all’evento giuridico del fatto tipico, il quale deve essere accertato solamente ex post, ossia dopo aver costatato l’effettiva sussistenza di una condotta caratterizzata da violenza.
In altri termini, è ben possibile riscontrare casi concreti di fuga (per la verità, costituenti la maggioranza di quelli sottoposti al vaglio processuale) in cui sussiste sì il pericolo per i pubblici ufficiali, ma la condotta pericolosa è priva di qualsiasi connotato di violenza (poiché non costrittiva). In tali ipotesi, dunque, difettando un elemento costitutivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, il soggetto non dovrebbe rispondere della fattispecie di cui all’art. 337 c.p., ma, sussistendone i presupposti, dovrebbe essere accusato dei reati previsti dal codice stradale.
In conclusione, a fronte di questo trend giurisprudenziale, si auspica un riallineamento da parte dei giudici al più ristretto significato attribuito al termine “violenza” nei delitti contro la persona o contro il patrimonio dei quali costituisce elemento tipico, in attesa di un eventuale (e opportuno) intervento della Corte costituzionale mediante sentenza interpretativa.

Note

[1] R. PASELLA, Codice penale commentato. Tomo II, E. DOLCINI – G. MARINUCCI (fondato e diretto da), Wolters-Kluwer, Milanofiori Assago (MI), 2015, ed. IV, p. 797.
[2] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 7 novembre 2017, n. 57222.
[3] Cass. Pen., Sez. VI, 22 marzo 2006, n. 25247: “il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) si configura come reato plurioffensivo che lede non soltanto l’attività della p.a., ma anche la sicurezza e la libertà di azione dello specifico pubblico ufficiale – che rappresenta l’Amministrazione – contro fatti di opposizione violenta o minacciosa”.
[4] D.L. 14 giugno 2019, n. 53, conv. L. 8 agosto 2019, n. 77.
[5] Si segnala che, sulla questione, è già stata interpellata, più volte, la Corte costituzionale al fine del pronunciamento della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma modificante l’art. 131 bis co. II c.p. Al momento, i giudici delle leggi hanno sempre ritenuto infondata la questione: cfr. Corte cost. sent. 5 marzo 2021, n. 30 e ord. 31 marzo 2022, n. 82.
[6] Così ancheL’impossibile tenuità”, in Questione giustizia, 3 marzo 2020.
[7] Cfr. Trib. Ascoli Piceno, 6 marzo 2021, n. 65.
[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 8 giugno 2020, n. 19368.
[9] Devoto-Oli 2017: G. Devoto, G.C. Oli, Il Devoto-Oli, Il vocabolario dell’italiano contemporaneo, a cura di L. Serianni, M. Trifone, Milano, Le Monnier, 2017, p. 2457.
[10] Corte App. di Lecce, 3 settembre 2021, n. 983.
[11] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, Wolters-Kluwer, Milano, 2018, ed. VI, pp. 271 e seg.
[12] Cfr. A. M. MAUGERI, Diritto penale. Parte speciale vol. I. Tutela penale della persona, D. PULITANÒ (a cura di), Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp. 233 e 234.
[13] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Wolters-Kluwer, Milano, 2017, ed. X, p. 61.
[14] Corte cost. 8 giugno 1981, n. 96, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 c.p., abolendo dunque il delitto di plagio.
[15] Cfr. D. PULITANÒ, Diritto penale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, ed. IV, p. 142.
[16] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 73.
[17] Corte App. di Lecce, 3 settembre 2021, n. 983, cit.