L’abuso di autorità nella violenza sessuale (art. 609 – bis, c. 1 c.p.) alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite (27326/2020)

Articolo a cura della Dott.ssa Marianna del Ponte

Violenza sessuale

Indice

1. Elemento oggettivo del reato: la nozione di “atti sessuali”
2. La consumazione del reato mediante “abuso di autorità”: orientamenti contrapposti
3. La decisione delle Sezioni Unite

1. Elemento oggettivo del reato: la nozione di “atti sessuali”

La L. n. 66/1996 ha portato ad una nuova collocazione dei “Delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale”: non più nel Titolo IX, posto a tutela “Dei delitti contro la morale pubblica e il buon costume”, bensì all’interno del Titolo XII, rubricato “Dei delitti contro la persona”, in particolare nella sezione II “Dei delitti contro la libertà personale”. Ne discende che la “violenza sessuale” ex art. 609 – bis c.p. ricomprende al suo interno gli atti di violenza carnale e gli atti di libidine violenta, disciplinati rispettivamente dagli abrogati artt. 519 e 521 c.p.
Nel tentativo di enucleare la nozione di atti sessuali, al fine di individuare l’area dei comportamenti penalmente rilevanti, si sono fronteggiati diversi orientamenti. Una prima teoria, soggettivistica, qualifica come atto sessuale, oltre alle forme di congiunzione carnale, qualsiasi atto idoneo a compromettere la libertà dell’individuo attraverso il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. Secondo un’altra teoria, oggettivistica, gli atti sessuali penalmente rilevanti sono esclusivamente quelle aggressioni che si traducono in un contatto fisico con le zone erogene del proprio o altrui corpo. Risulta del tutto irrilevante, pertanto, il fine di concupiscenza del soggetto agente.[1]
Tale ultimo orientamento è quello accolto dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui tra gli atti sessuali penalmente rilevanti vi rientrano, oltre al coito di qualsiasi natura, anche i toccamenti, i palpeggiamenti e gli sfregamenti sulle parti intime della vittima, rimanendo estranea, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e il soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Cass. pen., III, n. 32183/2018). Occorre evidenziare, tuttavia, che secondo la Cassazione è possibile rinvenire atti che, pur non coinvolgendo zone erogene possono essere qualificati come sessuali e, quindi, meritevoli di pena (Cass. pen., n. 964/2015). Sulla scia di tali considerazioni, è stata conferita rilevanza penale anche all’abbraccio che, in determinate situazioni, può mostrarsi persino più invasivo ed offensivo del bacio, potendo coinvolgere l’intero corpo della vittima.
Orbene, è evidente che la nozione di atti sessuali è un catalogo aperto e assai ampio. Spetta al giudice del merito, pertanto, valorizzare la condotta nel suo complesso, il contesto in cui l’azione si è svolta nonché il rapporto fra i soggetti coinvolti ed ogni altro elemento rivelatore della compromissione della libertà di autodeterminazione sessuale della vittima.

2. La consumazione del reato mediante “abuso di autorità”: orientamenti contrapposti

Con l’espressione abuso di autorità si intende la strumentalizzazione, da parte del soggetto agente, della propria posizione di supremazia, al fine di coartare la volontà della vittima nel compimento di atti sessuali.
Dopo una prima pronuncia delle Sezioni Unite (31 maggio 2000, n.13), l’abuso di autorità di cui all’art. 609 – bis c.p. è stato inteso in senso formale e pubblicistico, quale derivante da un rapporto di tipo formale autoritativo tra autore e vittima che il soggetto agente, in ragione del pubblico ufficio ricoperto, sfrutta per costringere il privato a compiere atti sessuali.
In tale pronuncia la Corte aveva escluso la configurabilità dell’abuso di autorità in capo ad un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore infrasedicenne, ritenendo corretta la qualificazione del fatto, operata dal primo Giudice, in “atti sessuali con minorenne” ex art. 609 – quater c.p.
La sentenza riteneva rilevante, ai fini della decisione prospettata, la circostanza per cui l’art. 609 – bis c.p., avendo sostituito ed inglobato al suo interno le vecchie fattispecie di cui agli artt. 519, 520 e 521 c.p., facesse riferimento all’abuso di autorità esercitato dal pubblico ufficiale ex art. 520 c.p.
Quale ulteriore conforto alla concezione pubblicistica dell’abuso di autorità, la giurisprudenza successiva ha valorizzato un argomento sistematico: laddove si considerasse l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la distinzione con la figura di reato di cui all’art. 609 – quater c.p., con evidente contrasto con il principio di conservazione.
Un diverso orientamento, conformemente alla prevalente dottrina, ha offerto una lettura più ampia dell’abuso di autorità, estendendolo ad ogni relazione, anche di natura privata, in cui il soggetto agente riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della vittima (Cass. pen., III, n. 2119/2008).
In aderenza a tale indirizzo, la convivenza dell’imputato con la madre del minore così come lo stato di soggezione procurato dall’imputato sulla cognata sono stati ritenuti validi presupposti dell’abuso di autorità (Cass. pen., III, n. 23873/2009; n. 19419/2012).
Sulla scia di questo nuovo filone interpretativo, nelle successive pronunce viene posta l’attenzione sul contenuto dell’art. 61, n. 11, c.p., evidenziando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto una lettura ampia, riferibile tanto all’autorità pubblica quanto a quella privata. Tale aggravante comune, infatti, si riferisce indistintamente all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, di relazioni d’ufficio, di coabitazione o di ospitalità.
Diversamente, quando il Legislatore ha inteso qualificare una determinata posizione autoritativa in senso pubblicistico, lo ha indicato espressamente come nel caso dell’art. 608 c.p. in relazione all’abuso di autorità contro arrestati o detenuti esercitato dal pubblico ufficiale.
A fronte dei suindicati orientamenti, con ordinanza n. 2888 del 2020 è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione circa la natura dell’abuso di autorità di cui all’art. 609 – bis c.p.
Alla Suprema Corte è stata posta la seguente questione di diritto: «se l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis comma primo c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o se, invece, si riferisca anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».
Nel caso di specie, l’imputato, in qualità di insegnante, era stato condannato per violenza sessuale con abuso di autorità, ex art. 609 – bis c.p., per aver costretto due alunne di età inferiore agli anni 14, alle quali impartiva lezioni private, a subire e compiere su di lui atti sessuali.

3. La decisione delle Sezioni Unite

Chiamate ad offrire una univoca interpretazione della nozione di «abuso di autorità» nella violenza sessuale, le Sezioni Unite hanno in primo luogo evidenziato che detta locuzione è inserita all’interno del primo comma dell’art. 609 – bis c.p., il quale disciplina la c.d. violenza sessuale costrittiva, a voler intendere una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa, la cui capacità di autodeterminazione viene annullata o fortemente limitata.
Inoltre, la Corte ha affermato che la collocazione del delitto di violenza sessuale e la sua natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del Legislatore di ampliare l’ambito di operatività dell’art. 609 – bis c.p. e svincolarlo del tutto dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p.
Per ciò che attiene al confronto con la fattispecie di cui all’art. 609 – quater c.p., la Corte primariamente evidenzia come quest’ultima faccia riferimento all’abuso di poteri, e non all’abuso di autorità, e il bene giuridico tutelato non è la libertà di autodeterminazione del minore, non potendo egli esprimere un valido consenso, ma l’integrità fisio – psichica del medesimo nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte sottolinea che la qualificazione dell’autorità in termini esclusivamente pubblicistici si pone in evidente contrasto con la finalità primaria della L. n. 66/1996 di assicurare la più ampia tutela a quei soggetti che vengono indotti o costretti a subire atti sessuali, dal momento che vi rimarrebbero escluse varie situazioni, quali risultanti da fonti di natura privatistica o di mero fatto.
Pertanto, esclusa la natura formale e pubblicistica dell’autorità ex art. 609 – bis c.p., la Suprema Corte chiarisce che l’autorità privata non è solo quella di fonte legale, bensì anche quella derivante da rapporti di mero fatto poiché ciò che rileva è la coartazione della vittima a seguito dell’abuso di una posizione di preminenza, restando del tutto indifferente la qualifica soggettiva del soggetto agente.
Alla luce delle considerazioni suesposte, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: “l’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis, comma 1, c.p. presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.
Così chiarita la natura del rapporto autoritativo, la Corte sottolinea che deve esserne provata la sussistenza mediante un’analisi concreta della dinamica dei fatti, così come deve essere dimostrato l’uso arbitrario del potere, tenendo conto soprattutto delle conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa.


[1] ROCCO GALLI, Nuovo corso di diritto penale, CEDAM, 2017, p. 121

violenza sessuale

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1. Elemento oggettivo del reato: la nozione di “atti sessuali”
2. La consumazione del reato mediante “abuso di autorità”: orientamenti contrapposti
3. La decisione delle Sezioni Unite

1. Elemento oggettivo del reato: la nozione di “atti sessuali”

La L. n. 66/1996 ha portato ad una nuova collocazione dei “Delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale”: non più nel Titolo IX, posto a tutela “Dei delitti contro la morale pubblica e il buon costume”, bensì all’interno del Titolo XII, rubricato “Dei delitti contro la persona”, in particolare nella sezione II “Dei delitti contro la libertà personale”. Ne discende che la “violenza sessuale” ex art. 609 – bis c.p. ricomprende al suo interno gli atti di violenza carnale e gli atti di libidine violenta, disciplinati rispettivamente dagli abrogati artt. 519 e 521 c.p.
Nel tentativo di enucleare la nozione di atti sessuali, al fine di individuare l’area dei comportamenti penalmente rilevanti, si sono fronteggiati diversi orientamenti. Una prima teoria, soggettivistica, qualifica come atto sessuale, oltre alle forme di congiunzione carnale, qualsiasi atto idoneo a compromettere la libertà dell’individuo attraverso il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. Secondo un’altra teoria, oggettivistica, gli atti sessuali penalmente rilevanti sono esclusivamente quelle aggressioni che si traducono in un contatto fisico con le zone erogene del proprio o altrui corpo. Risulta del tutto irrilevante, pertanto, il fine di concupiscenza del soggetto agente.[1]
Tale ultimo orientamento è quello accolto dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui tra gli atti sessuali penalmente rilevanti vi rientrano, oltre al coito di qualsiasi natura, anche i toccamenti, i palpeggiamenti e gli sfregamenti sulle parti intime della vittima, rimanendo estranea, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e il soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Cass. pen., III, n. 32183/2018). Occorre evidenziare, tuttavia, che secondo la Cassazione è possibile rinvenire atti che, pur non coinvolgendo zone erogene possono essere qualificati come sessuali e, quindi, meritevoli di pena (Cass. pen., n. 964/2015). Sulla scia di tali considerazioni, è stata conferita rilevanza penale anche all’abbraccio che, in determinate situazioni, può mostrarsi persino più invasivo ed offensivo del bacio, potendo coinvolgere l’intero corpo della vittima.
Orbene, è evidente che la nozione di atti sessuali è un catalogo aperto e assai ampio. Spetta al giudice del merito, pertanto, valorizzare la condotta nel suo complesso, il contesto in cui l’azione si è svolta nonché il rapporto fra i soggetti coinvolti ed ogni altro elemento rivelatore della compromissione della libertà di autodeterminazione sessuale della vittima.

2. La consumazione del reato mediante “abuso di autorità”: orientamenti contrapposti

Con l’espressione abuso di autorità si intende la strumentalizzazione, da parte del soggetto agente, della propria posizione di supremazia, al fine di coartare la volontà della vittima nel compimento di atti sessuali.
Dopo una prima pronuncia delle Sezioni Unite (31 maggio 2000, n.13), l’abuso di autorità di cui all’art. 609 – bis c.p. è stato inteso in senso formale e pubblicistico, quale derivante da un rapporto di tipo formale autoritativo tra autore e vittima che il soggetto agente, in ragione del pubblico ufficio ricoperto, sfrutta per costringere il privato a compiere atti sessuali.
In tale pronuncia la Corte aveva escluso la configurabilità dell’abuso di autorità in capo ad un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore infrasedicenne, ritenendo corretta la qualificazione del fatto, operata dal primo Giudice, in “atti sessuali con minorenne” ex art. 609 – quater c.p.
La sentenza riteneva rilevante, ai fini della decisione prospettata, la circostanza per cui l’art. 609 – bis c.p., avendo sostituito ed inglobato al suo interno le vecchie fattispecie di cui agli artt. 519, 520 e 521 c.p., facesse riferimento all’abuso di autorità esercitato dal pubblico ufficiale ex art. 520 c.p.
Quale ulteriore conforto alla concezione pubblicistica dell’abuso di autorità, la giurisprudenza successiva ha valorizzato un argomento sistematico: laddove si considerasse l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la distinzione con la figura di reato di cui all’art. 609 – quater c.p., con evidente contrasto con il principio di conservazione.
Un diverso orientamento, conformemente alla prevalente dottrina, ha offerto una lettura più ampia dell’abuso di autorità, estendendolo ad ogni relazione, anche di natura privata, in cui il soggetto agente riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della vittima (Cass. pen., III, n. 2119/2008).
In aderenza a tale indirizzo, la convivenza dell’imputato con la madre del minore così come lo stato di soggezione procurato dall’imputato sulla cognata sono stati ritenuti validi presupposti dell’abuso di autorità (Cass. pen., III, n. 23873/2009; n. 19419/2012).
Sulla scia di questo nuovo filone interpretativo, nelle successive pronunce viene posta l’attenzione sul contenuto dell’art. 61, n. 11, c.p., evidenziando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto una lettura ampia, riferibile tanto all’autorità pubblica quanto a quella privata. Tale aggravante comune, infatti, si riferisce indistintamente all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, di relazioni d’ufficio, di coabitazione o di ospitalità.
Diversamente, quando il Legislatore ha inteso qualificare una determinata posizione autoritativa in senso pubblicistico, lo ha indicato espressamente come nel caso dell’art. 608 c.p. in relazione all’abuso di autorità contro arrestati o detenuti esercitato dal pubblico ufficiale.
A fronte dei suindicati orientamenti, con ordinanza n. 2888 del 2020 è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione circa la natura dell’abuso di autorità di cui all’art. 609 – bis c.p.
Alla Suprema Corte è stata posta la seguente questione di diritto: «se l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis comma primo c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o se, invece, si riferisca anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».
Nel caso di specie, l’imputato, in qualità di insegnante, era stato condannato per violenza sessuale con abuso di autorità, ex art. 609 – bis c.p., per aver costretto due alunne di età inferiore agli anni 14, alle quali impartiva lezioni private, a subire e compiere su di lui atti sessuali.

3. La decisione delle Sezioni Unite

Chiamate ad offrire una univoca interpretazione della nozione di «abuso di autorità» nella violenza sessuale, le Sezioni Unite hanno in primo luogo evidenziato che detta locuzione è inserita all’interno del primo comma dell’art. 609 – bis c.p., il quale disciplina la c.d. violenza sessuale costrittiva, a voler intendere una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa, la cui capacità di autodeterminazione viene annullata o fortemente limitata.
Inoltre, la Corte ha affermato che la collocazione del delitto di violenza sessuale e la sua natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del Legislatore di ampliare l’ambito di operatività dell’art. 609 – bis c.p. e svincolarlo del tutto dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p.
Per ciò che attiene al confronto con la fattispecie di cui all’art. 609 – quater c.p., la Corte primariamente evidenzia come quest’ultima faccia riferimento all’abuso di poteri, e non all’abuso di autorità, e il bene giuridico tutelato non è la libertà di autodeterminazione del minore, non potendo egli esprimere un valido consenso, ma l’integrità fisio – psichica del medesimo nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte sottolinea che la qualificazione dell’autorità in termini esclusivamente pubblicistici si pone in evidente contrasto con la finalità primaria della L. n. 66/1996 di assicurare la più ampia tutela a quei soggetti che vengono indotti o costretti a subire atti sessuali, dal momento che vi rimarrebbero escluse varie situazioni, quali risultanti da fonti di natura privatistica o di mero fatto.
Pertanto, esclusa la natura formale e pubblicistica dell’autorità ex art. 609 – bis c.p., la Suprema Corte chiarisce che l’autorità privata non è solo quella di fonte legale, bensì anche quella derivante da rapporti di mero fatto poiché ciò che rileva è la coartazione della vittima a seguito dell’abuso di una posizione di preminenza, restando del tutto indifferente la qualifica soggettiva del soggetto agente.
Alla luce delle considerazioni suesposte, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: “l’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis, comma 1, c.p. presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.
Così chiarita la natura del rapporto autoritativo, la Corte sottolinea che deve esserne provata la sussistenza mediante un’analisi concreta della dinamica dei fatti, così come deve essere dimostrato l’uso arbitrario del potere, tenendo conto soprattutto delle conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa.


[1] ROCCO GALLI, Nuovo corso di diritto penale, CEDAM, 2017, p. 121