L’espressione body shaming (rectius, derisione del corpo) indica l’atto di umiliazione, volto a discriminare una persona per il suo aspetto fisico, tendenzialmente poiché non ritenuto conforme agli standard mediatici di riferimento.
Se prima dell’avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa, tali pratiche di bullismo si estrinsecavano solo in contesti circoscritti, la velocità delle odierne forme di comunicazione ne ha esteso notevolmente la pericolosità, considerato il facilmente raggiungibile “teatro” in cui le stesse possono trovare spettatori. Difatti, il fenomeno del body shaming è attuale quanto preoccupante, poiché ha travalicato i confini del bullismo scolastico, invadendo in modo molto più pregnante la vita privata delle vittime. Sebbene sia evidente come l’azione denigratoria, che ha ad oggetto il corpo della persona, crei una frustrazione da cui derivano seri danni psicologici per il soggetto che la subisce, ci si è dovuti interrogare sulla possibilità che tale comportamento costituisca materialmente reato, con evidente risposta affermativa sul punto. Sulla scorta di tali considerazioni, al fine di dare una risposta sanzionatoria repressiva al fenomeno in parola, la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a valutare in che modo tali condotte possano degenerare in ipotesi di reato, considerate le notevoli ripercussioni psicologiche in capo alla persona offesa. Ebbene, i Giudici del Supremo Consesso hanno ritenuto sussumibili tali atti denigratori nell’alveo dei reati di diffamazione (595 c.p.) o stalking (612 bis c.p.), a seconda delle circostanze in cui essi si manifestano. In particolare, il body shaming potrà integrare il reato di diffamazione, nel caso in cui gli insulti dovessero essere perpetrati in pubblico, in modo da offendere la reputazione della vittima nell’ambito del contesto sociale nel quale la stessa è attiva. Nel caso in cui venga posta in essere a mezzo social network, la diffamazione si considererà aggravata ai sensi del comma 3 della medesima disposizione del codice penale (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, oppure con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro), attesa la più ampia cassa di risonanza dentro la quale le dichiarazioni offensive dell’onore e della reputazione sono state immesse. Tuttavia, identica condotta può assurgere all’ipotesi ben più grave di stalking (art. 612 bis c.p.) ogni qual volta l’atteggiamento offensivo venga reiterato nel tempo, ingenerando uno stato emotivo tale da indurla a modificare le proprie abitudini di vita. In ogni caso, questi reati vengono perseguiti a querela della parte offesa, con conseguente possibilità, una volta instaurato il processo, di costituirsi parte civile al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti. Da non tralasciare il fatto che, nei casi in cui il body shaming viene esercitato per mezzo di internet, può essere anche assimilato al cyberbullismo e, per l’effetto, è suscettibile di tutela mediante strumenti ad hoc previsti dalla legge (es. l’oscuramento del sito su cui avviene la denigrazione, il reclamo al Garante della Privacy o l’ammonimento del questore). Ne consegue che, anche qualora non si azioni il processo penale per mancanza degli elementi costitutivi del reato, il denigrato può tutelarsi mediante strumenti che l’ordinamento ha previsto per contrastare il cyberbullismo (Legge n. 71 del 29/05/2017). Poste tali premesse, appare doveroso menzionare un recentissimo arresto, con il quale l’organo nomofilattico ha annullato la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti di un soggetto, accusato del delitto di cui all’art. 595 comma 3 c.p., riqualificato dai giudici territoriali nell’abrogato 594 c.p. (ingiuria), con formula perché il fatto non costituisce reato. Nella vicenda in esame, si contestava all’imputato di avere offeso la reputazione del ricorrente, poiché esprimeva tramite social network “Facebook” opinioni riguardo i deficit visivi della parte civile, utilizzando, oltre specifiche propalazioni, emoticon simboleggianti risate. Avverso la pronuncia liberatoria, presentava ricorso la parte civile articolando le proprie censure in un unico motivo, con il quale deduceva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) del codice di rito, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale riqualificato il fatto alla luce dell’art. 594 cod. pen. Ed invero, le censure della difesa muovevano dal presupposto della erronea affermazione della Corte meneghina, secondo la quale «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona», trascurando i precipui contenuti che caratterizzano la reputazione della stessa. Peraltro, la Corte d’Appello di Milano era giunta alla riqualificazione del fatto nella fattispecie dell’ingiuria, sulla base di un ulteriore presupposto erroneo, vale a dire la possibilità per la persona offesa di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat. Appare evidente come si fosse del tutto trascurato che i messaggi lesivi della reputazione avessero intanto raggiunto non soltanto quest’ultimo, ma anche una moltitudine indefinita di persone, a nulla rilevando, dunque, che il ricorrente avesse avuto – o meno – la possibilità d’interloquire con l’imputato in quel contesto comunicativo. Ebbene, nel dichiarare fondata l’impugnazione della parte civile, la Suprema Corte condivide l’eccezione difensiva, “dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016) integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; .. che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021.” Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, atteso che che le espressioni adoperate dall’imputato sottendono una inconcepibile deminutio della persona offesa, in quanto ipovedente. Nondimeno, se è vero, come assumeva il Giudice d’appello, che «la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat», è vero anche che tale possibilità si è manifestata soltanto in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network Facebook. Pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci, si è chiarito, infatti, che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso vale a configurare l’ipotesi dell’ingiuria (condotta oggi depenalizzata e “declassata” a mero illecito civile). Dunque, in difetto del requisito della contestualità – in alcun modo emersa nel corso della vicenda de qua (e che, in generale, va di volta in volta verificato, in relazione alle specificità dei singoli casi) – la persona offesa resta estranea alla comunicazione intercorsa con più persone, senza possibilità di interloquire con l’offensore, con conseguente configurabilità del reato di diffamazione. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha annullato e disposto l’annullamento della sentenza impugnata.
Se prima dell’avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa, tali pratiche di bullismo si estrinsecavano solo in contesti circoscritti, la velocità delle odierne forme di comunicazione ne ha esteso notevolmente la pericolosità, considerato il facilmente raggiungibile “teatro” in cui le stesse possono trovare spettatori. Difatti, il fenomeno del body shaming è attuale quanto preoccupante, poiché ha travalicato i confini del bullismo scolastico, invadendo in modo molto più pregnante la vita privata delle vittime. Sebbene sia evidente come l’azione denigratoria, che ha ad oggetto il corpo della persona, crei una frustrazione da cui derivano seri danni psicologici per il soggetto che la subisce, ci si è dovuti interrogare sulla possibilità che tale comportamento costituisca materialmente reato, con evidente risposta affermativa sul punto. Sulla scorta di tali considerazioni, al fine di dare una risposta sanzionatoria repressiva al fenomeno in parola, la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a valutare in che modo tali condotte possano degenerare in ipotesi di reato, considerate le notevoli ripercussioni psicologiche in capo alla persona offesa. Ebbene, i Giudici del Supremo Consesso hanno ritenuto sussumibili tali atti denigratori nell’alveo dei reati di diffamazione (595 c.p.) o stalking (612 bis c.p.), a seconda delle circostanze in cui essi si manifestano. In particolare, il body shaming potrà integrare il reato di diffamazione, nel caso in cui gli insulti dovessero essere perpetrati in pubblico, in modo da offendere la reputazione della vittima nell’ambito del contesto sociale nel quale la stessa è attiva. Nel caso in cui venga posta in essere a mezzo social network, la diffamazione si considererà aggravata ai sensi del comma 3 della medesima disposizione del codice penale (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, oppure con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro), attesa la più ampia cassa di risonanza dentro la quale le dichiarazioni offensive dell’onore e della reputazione sono state immesse. Tuttavia, identica condotta può assurgere all’ipotesi ben più grave di stalking (art. 612 bis c.p.) ogni qual volta l’atteggiamento offensivo venga reiterato nel tempo, ingenerando uno stato emotivo tale da indurla a modificare le proprie abitudini di vita. In ogni caso, questi reati vengono perseguiti a querela della parte offesa, con conseguente possibilità, una volta instaurato il processo, di costituirsi parte civile al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti. Da non tralasciare il fatto che, nei casi in cui il body shaming viene esercitato per mezzo di internet, può essere anche assimilato al cyberbullismo e, per l’effetto, è suscettibile di tutela mediante strumenti ad hoc previsti dalla legge (es. l’oscuramento del sito su cui avviene la denigrazione, il reclamo al Garante della Privacy o l’ammonimento del questore). Ne consegue che, anche qualora non si azioni il processo penale per mancanza degli elementi costitutivi del reato, il denigrato può tutelarsi mediante strumenti che l’ordinamento ha previsto per contrastare il cyberbullismo (Legge n. 71 del 29/05/2017). Poste tali premesse, appare doveroso menzionare un recentissimo arresto, con il quale l’organo nomofilattico ha annullato la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti di un soggetto, accusato del delitto di cui all’art. 595 comma 3 c.p., riqualificato dai giudici territoriali nell’abrogato 594 c.p. (ingiuria), con formula perché il fatto non costituisce reato. Nella vicenda in esame, si contestava all’imputato di avere offeso la reputazione del ricorrente, poiché esprimeva tramite social network “Facebook” opinioni riguardo i deficit visivi della parte civile, utilizzando, oltre specifiche propalazioni, emoticon simboleggianti risate. Avverso la pronuncia liberatoria, presentava ricorso la parte civile articolando le proprie censure in un unico motivo, con il quale deduceva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) del codice di rito, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale riqualificato il fatto alla luce dell’art. 594 cod. pen. Ed invero, le censure della difesa muovevano dal presupposto della erronea affermazione della Corte meneghina, secondo la quale «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona», trascurando i precipui contenuti che caratterizzano la reputazione della stessa. Peraltro, la Corte d’Appello di Milano era giunta alla riqualificazione del fatto nella fattispecie dell’ingiuria, sulla base di un ulteriore presupposto erroneo, vale a dire la possibilità per la persona offesa di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat. Appare evidente come si fosse del tutto trascurato che i messaggi lesivi della reputazione avessero intanto raggiunto non soltanto quest’ultimo, ma anche una moltitudine indefinita di persone, a nulla rilevando, dunque, che il ricorrente avesse avuto – o meno – la possibilità d’interloquire con l’imputato in quel contesto comunicativo. Ebbene, nel dichiarare fondata l’impugnazione della parte civile, la Suprema Corte condivide l’eccezione difensiva, “dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016) integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; .. che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021.” Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, atteso che che le espressioni adoperate dall’imputato sottendono una inconcepibile deminutio della persona offesa, in quanto ipovedente. Nondimeno, se è vero, come assumeva il Giudice d’appello, che «la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat», è vero anche che tale possibilità si è manifestata soltanto in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network Facebook. Pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci, si è chiarito, infatti, che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso vale a configurare l’ipotesi dell’ingiuria (condotta oggi depenalizzata e “declassata” a mero illecito civile). Dunque, in difetto del requisito della contestualità – in alcun modo emersa nel corso della vicenda de qua (e che, in generale, va di volta in volta verificato, in relazione alle specificità dei singoli casi) – la persona offesa resta estranea alla comunicazione intercorsa con più persone, senza possibilità di interloquire con l’offensore, con conseguente configurabilità del reato di diffamazione. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha annullato e disposto l’annullamento della sentenza impugnata.
Body shaming: le offese sui social integrano il reato di diffamazione
(nota a Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 2251 / 2023)
L’espressione body shaming (rectius, derisione del corpo) indica l’atto di umiliazione, volto a discriminare una persona per il suo aspetto fisico, tendenzialmente poiché non ritenuto conforme agli standard mediatici di riferimento.
Se prima dell’avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa, tali pratiche di bullismo si estrinsecavano solo in contesti circoscritti, la velocità delle odierne forme di comunicazione ne ha esteso notevolmente la pericolosità, considerato il facilmente raggiungibile “teatro” in cui le stesse possono trovare spettatori.
Difatti, il fenomeno del body shaming è attuale quanto preoccupante, poiché ha travalicato i confini del bullismo scolastico, invadendo in modo molto più pregnante la vita privata delle vittime.
Sebbene sia evidente come l’azione denigratoria, che ha ad oggetto il corpo della persona, crei una frustrazione da cui derivano seri danni psicologici per il soggetto che la subisce, ci si è dovuti interrogare sulla possibilità che tale comportamento costituisca materialmente reato, con evidente risposta affermativa sul punto.
Sulla scorta di tali considerazioni, al fine di dare una risposta sanzionatoria repressiva al fenomeno in parola, la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a valutare in che modo tali condotte possano degenerare in ipotesi di reato, considerate le notevoli ripercussioni psicologiche in capo alla persona offesa.
Ebbene, i Giudici del Supremo Consesso hanno ritenuto sussumibili tali atti denigratori nell’alveo dei reati di diffamazione (595 c.p.) o stalking (612 bis c.p.), a seconda delle circostanze in cui essi si manifestano.
In particolare, il body shaming potrà integrare il reato di diffamazione, nel caso in cui gli insulti dovessero essere perpetrati in pubblico, in modo da offendere la reputazione della vittima nell’ambito del contesto sociale nel quale la stessa è attiva. Nel caso in cui venga posta in essere a mezzo social network, la diffamazione si considererà aggravata ai sensi del comma 3 della medesima disposizione del codice penale (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, oppure con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro), attesa la più ampia cassa di risonanza dentro la quale le dichiarazioni offensive dell’onore e della reputazione sono state immesse.
Tuttavia, identica condotta può assurgere all’ipotesi ben più grave di stalking (art. 612 bis c.p.) ogni qual volta l’atteggiamento offensivo venga reiterato nel tempo, ingenerando uno stato emotivo tale da indurla a modificare le proprie abitudini di vita. In ogni caso, questi reati vengono perseguiti a querela della parte offesa, con conseguente possibilità, una volta instaurato il processo, di costituirsi parte civile al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti.
Da non tralasciare il fatto che, nei casi in cui il body shaming viene esercitato per mezzo di internet, può essere anche assimilato al cyberbullismo e, per l’effetto, è suscettibile di tutela mediante strumenti ad hoc previsti dalla legge (es. l’oscuramento del sito su cui avviene la denigrazione, il reclamo al Garante della Privacy o l’ammonimento del questore).
Ne consegue che, anche qualora non si azioni il processo penale per mancanza degli elementi costitutivi del reato, il denigrato può tutelarsi mediante strumenti che l’ordinamento ha previsto per contrastare il cyberbullismo (Legge n. 71 del 29/05/2017).
Poste tali premesse, appare doveroso menzionare un recentissimo arresto, con il quale l’organo nomofilattico ha annullato la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti di un soggetto, accusato del delitto di cui all’art. 595 comma 3 c.p., riqualificato dai giudici territoriali nell’abrogato 594 c.p. (ingiuria), con formula perché il fatto non costituisce reato.
Nella vicenda in esame, si contestava all’imputato di avere offeso la reputazione del ricorrente, poiché esprimeva tramite social network “Facebook” opinioni riguardo i deficit visivi della parte civile, utilizzando, oltre specifiche propalazioni, emoticon simboleggianti risate.
Avverso la pronuncia liberatoria, presentava ricorso la parte civile articolando le proprie censure in un unico motivo, con il quale deduceva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) del codice di rito, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale riqualificato il fatto alla luce dell’art. 594 cod. pen.
Ed invero, le censure della difesa muovevano dal presupposto della erronea affermazione della Corte meneghina, secondo la quale «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona», trascurando i precipui contenuti che caratterizzano la reputazione della stessa.
Peraltro, la Corte d’Appello di Milano era giunta alla riqualificazione del fatto nella fattispecie dell’ingiuria, sulla base di un ulteriore presupposto erroneo, vale a dire la possibilità per la persona offesa di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat.
Appare evidente come si fosse del tutto trascurato che i messaggi lesivi della reputazione avessero intanto raggiunto non soltanto quest’ultimo, ma anche una moltitudine indefinita di persone, a nulla rilevando, dunque, che il ricorrente avesse avuto – o meno – la possibilità d’interloquire con l’imputato in quel contesto comunicativo.
Ebbene, nel dichiarare fondata l’impugnazione della parte civile, la Suprema Corte condivide l’eccezione difensiva, “dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016) integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; .. che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor
proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021.”
Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, atteso che che le espressioni adoperate dall’imputato sottendono una inconcepibile deminutio della persona offesa, in quanto ipovedente.
Nondimeno, se è vero, come assumeva il Giudice d’appello, che «la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat», è vero anche che tale possibilità si è manifestata soltanto in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network Facebook.
Pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci, si è chiarito, infatti, che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso vale a configurare l’ipotesi dell’ingiuria (condotta oggi depenalizzata e “declassata” a mero illecito civile). Dunque, in difetto del requisito della contestualità – in alcun modo emersa nel corso della vicenda de qua (e che, in generale, va di volta in volta verificato, in relazione alle specificità dei singoli casi) – la persona offesa resta estranea alla comunicazione intercorsa con più persone, senza possibilità di interloquire con l’offensore, con conseguente configurabilità del reato di diffamazione. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha annullato e disposto l’annullamento della sentenza impugnata.
Se prima dell’avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa, tali pratiche di bullismo si estrinsecavano solo in contesti circoscritti, la velocità delle odierne forme di comunicazione ne ha esteso notevolmente la pericolosità, considerato il facilmente raggiungibile “teatro” in cui le stesse possono trovare spettatori.
Difatti, il fenomeno del body shaming è attuale quanto preoccupante, poiché ha travalicato i confini del bullismo scolastico, invadendo in modo molto più pregnante la vita privata delle vittime.
Sebbene sia evidente come l’azione denigratoria, che ha ad oggetto il corpo della persona, crei una frustrazione da cui derivano seri danni psicologici per il soggetto che la subisce, ci si è dovuti interrogare sulla possibilità che tale comportamento costituisca materialmente reato, con evidente risposta affermativa sul punto.
Sulla scorta di tali considerazioni, al fine di dare una risposta sanzionatoria repressiva al fenomeno in parola, la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a valutare in che modo tali condotte possano degenerare in ipotesi di reato, considerate le notevoli ripercussioni psicologiche in capo alla persona offesa.
Ebbene, i Giudici del Supremo Consesso hanno ritenuto sussumibili tali atti denigratori nell’alveo dei reati di diffamazione (595 c.p.) o stalking (612 bis c.p.), a seconda delle circostanze in cui essi si manifestano.
In particolare, il body shaming potrà integrare il reato di diffamazione, nel caso in cui gli insulti dovessero essere perpetrati in pubblico, in modo da offendere la reputazione della vittima nell’ambito del contesto sociale nel quale la stessa è attiva. Nel caso in cui venga posta in essere a mezzo social network, la diffamazione si considererà aggravata ai sensi del comma 3 della medesima disposizione del codice penale (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, oppure con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro), attesa la più ampia cassa di risonanza dentro la quale le dichiarazioni offensive dell’onore e della reputazione sono state immesse.
Tuttavia, identica condotta può assurgere all’ipotesi ben più grave di stalking (art. 612 bis c.p.) ogni qual volta l’atteggiamento offensivo venga reiterato nel tempo, ingenerando uno stato emotivo tale da indurla a modificare le proprie abitudini di vita. In ogni caso, questi reati vengono perseguiti a querela della parte offesa, con conseguente possibilità, una volta instaurato il processo, di costituirsi parte civile al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti.
Da non tralasciare il fatto che, nei casi in cui il body shaming viene esercitato per mezzo di internet, può essere anche assimilato al cyberbullismo e, per l’effetto, è suscettibile di tutela mediante strumenti ad hoc previsti dalla legge (es. l’oscuramento del sito su cui avviene la denigrazione, il reclamo al Garante della Privacy o l’ammonimento del questore).
Ne consegue che, anche qualora non si azioni il processo penale per mancanza degli elementi costitutivi del reato, il denigrato può tutelarsi mediante strumenti che l’ordinamento ha previsto per contrastare il cyberbullismo (Legge n. 71 del 29/05/2017).
Poste tali premesse, appare doveroso menzionare un recentissimo arresto, con il quale l’organo nomofilattico ha annullato la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti di un soggetto, accusato del delitto di cui all’art. 595 comma 3 c.p., riqualificato dai giudici territoriali nell’abrogato 594 c.p. (ingiuria), con formula perché il fatto non costituisce reato.
Nella vicenda in esame, si contestava all’imputato di avere offeso la reputazione del ricorrente, poiché esprimeva tramite social network “Facebook” opinioni riguardo i deficit visivi della parte civile, utilizzando, oltre specifiche propalazioni, emoticon simboleggianti risate.
Avverso la pronuncia liberatoria, presentava ricorso la parte civile articolando le proprie censure in un unico motivo, con il quale deduceva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) del codice di rito, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale riqualificato il fatto alla luce dell’art. 594 cod. pen.
Ed invero, le censure della difesa muovevano dal presupposto della erronea affermazione della Corte meneghina, secondo la quale «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona», trascurando i precipui contenuti che caratterizzano la reputazione della stessa.
Peraltro, la Corte d’Appello di Milano era giunta alla riqualificazione del fatto nella fattispecie dell’ingiuria, sulla base di un ulteriore presupposto erroneo, vale a dire la possibilità per la persona offesa di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat.
Appare evidente come si fosse del tutto trascurato che i messaggi lesivi della reputazione avessero intanto raggiunto non soltanto quest’ultimo, ma anche una moltitudine indefinita di persone, a nulla rilevando, dunque, che il ricorrente avesse avuto – o meno – la possibilità d’interloquire con l’imputato in quel contesto comunicativo.
Ebbene, nel dichiarare fondata l’impugnazione della parte civile, la Suprema Corte condivide l’eccezione difensiva, “dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016) integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; .. che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor
proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021.”
Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, atteso che che le espressioni adoperate dall’imputato sottendono una inconcepibile deminutio della persona offesa, in quanto ipovedente.
Nondimeno, se è vero, come assumeva il Giudice d’appello, che «la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat», è vero anche che tale possibilità si è manifestata soltanto in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network Facebook.
Pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci, si è chiarito, infatti, che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso vale a configurare l’ipotesi dell’ingiuria (condotta oggi depenalizzata e “declassata” a mero illecito civile). Dunque, in difetto del requisito della contestualità – in alcun modo emersa nel corso della vicenda de qua (e che, in generale, va di volta in volta verificato, in relazione alle specificità dei singoli casi) – la persona offesa resta estranea alla comunicazione intercorsa con più persone, senza possibilità di interloquire con l’offensore, con conseguente configurabilità del reato di diffamazione. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha annullato e disposto l’annullamento della sentenza impugnata.
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