Il procedimento disciplinare nel D. Lgs. 165/2001 ed il rapporto con il giudicato penale

Il potere disciplinare concesso al datore di lavoro si esplica principalmente nella sanzione massima comminata al lavoratore: il licenziamento. Parlando di licenziamenti si fa riferimento a diversi profili a carattere formale, procedurale e sostanziale. Proprio su quest’ultimo aspetto ci si trova di fronte ad una dicotomia rappresentata dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per giusta causa. In considerazione dello spazio a disposizione, non sarà possibile darne un’accurata e completa analisi ma ci si limita a concentrare la trattazione sul licenziamento per giusta causa.

1. Il procedimento disciplinare

Questa tipologia di licenziamento è prevista dall’art. 2119 c.c. ed è definita come “causa che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto lavorativo” che, tradotto in termini generali, corrisponde al più noto “licenziamento in tronco”, ossia senza obbligo di preavviso.
La previsione normativa è estremamente generica e, a tal riguardo, sia dottrina che giurisprudenza ragionano sul punto identificandolo come un comportamento, diverso dall’inadempimento, ma tale per cui il rapporto lavorativo viene minato nel suo aspetto fiduciario. Sul punto occorre una breve ma lapidaria precisazione: il concetto di fiduciarietà non può essere un grimaldello a cui ci si appiglia per legittimare un licenziamento “arbitrario” ma deve necessariamente essere inerente al rapporto di lavoro, inficiandolo irrimediabilmente.
In ossequio al dettato normativo dell’art. 55 d.lgs. 165/2001, nel settore pubblico, quando si ha notizia di un comportamento illegittimo, sia questo genericamente considerato o concernente un illecito di natura penale, si avvia la contestazione disciplinare tramite l’invio della c.d. lettera di contestazione, ad esito delle quali l’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD) decide in merito al licenziamento del lavoratore.
Pur nella privatizzazione dell’impiego pubblico, il procedimento disciplinare presenta caratteri peculiari anche alla luce delle modifiche, intervenute con il d.lgs. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) prima e il d.lgs. 75/2017 (decreto attuativo della L. 124/2015 c.d. Riforma Madia) poi, che hanno novellato gli articoli 55-quater e 55-quinques, introducendo una serie di fattispecie in cui il legislatore impone il licenziamento.
La differenza più sostanziale è l’obbligatorietà dell’azione disciplinare nel settore pubblico che, invece, rimane una mera facoltà nel privato. Le nuove formule di legge fino all’art. 55-octies, in forza dell’art. 55 comma 1 d.lgs. 165/2001, costituiscono norme imperative ai sensi e per effetti degli articoli 1339 e 1419 c.c. che superano, derogandole, anche le previsioni dei contratti collettivi prevedendone l’automatica sostituzione in caso di difformità.

2. L’UPD e la responsabilità dei dirigenti

Tale obbligatorietà dell’azione disciplinare, così come prevista dall’art. 55-sexies d. lgs. 165/2001, fa sì che scaturisca una responsabilità del dirigente che ometta la segnalazione o che ne faccia una valutazione errata.
Nell’apparato pubblico occorre rimarcare che il potere disciplinare non viene esercitato dal datore di lavoro in sé ma dal dirigente. L’esercizio dell’ascritto potere costituisce, per i soggetti con incarichi o funzioni dirigenziali, parametro che deve essere considerato anche ai fini della valutazione sulla responsabilità dirigenziale.
I dirigenti sono responsabili, ai fini sanzionatori, solo per i comportamenti punibili con il rimprovero verbale, mentre per tutte le altre ipotesi la sanzione può essere irrogata esclusivamente dall’UPD, in composizione collegiale o unipersonale.
La presenza dell’UPD è obbligatoria presso tutte le amministrazioni[1] con pedissequa individuazione sia della titolarità che della responsabilità per le azioni. In virtù della competenza esclusiva attribuita all’UPD, il procedimento così disciplinato vieta l’ingerenza di soggetti esterni.
L’UPD ha l’onere di inviare la lettera di contestazione entro trenta giorni[2] dal ricevimento della segnalazione o da quando ne sia effettivamente venuto a conoscenza piena. La conclusione del procedimento dovrà avvenire necessariamente entro 120 giorni dalla contestazione.
È bene ricordare che la disciplina generale, come detto mutuata principalmente dal diritto privato, ha subito con il d.lgs. 150/2009 e il d.lgs. 75/2017 diversi interventi di modifica al fine di evitare la nullità del procedimento. Anche i previsti termini seguono, per quanto compatibili, i principi di immediatezza e piena notizia dei fatti. L’immediatezza, tuttavia, non può in alcun modo sovrastare il principio di piena conoscenza poiché si potrebbe creare un vulnus procedimentale imputabile all’UPD o al dirigente, per un possibile uso erroneo, anche eventualmente a fini strumentali, del potere disciplinare, ed incorrendo così in sanzioni connesse sia alla responsabilità civile che amministrativa.
Infatti, ai sensi dell’art. 55-quater, deve altresì sussistere proporzionalità fra l’infrazione e la successiva sanzione e ciò risulta ovviamente connesso ad una completa conoscenza dei fatti. La ratio legislativa è come sempre basata sul principio del buon andamento della pubblica amministrazione, al cui fine è dedicato l’esercizio del potere disciplinare.

3. La mutata disciplina della pregiudizialità penale nei procedimenti disciplinari

Peculiare espressione di ciò di cui si è trattato finora è rappresentata dalla questione della pregiudizialità del giudicato penale nei procedimenti disciplinari.
La fiduciarietà di cui si discuteva poc’anzi, pur essendo intesa in una formulazione generica, non può non far riferimento alla commissione di illeciti di natura penale, sempre in connessione con il ruolo e la funzione ricoperta dal lavoratore. Si comprende dunque, come i due procedimenti, disciplinare e penale, siano accomunati da un unico comune denominatore ossia la cognizione sui medesimi fatti. Non è inusuale l’eventualità per cui un medesimo fatto può assumere rilevanza sia disciplinare che penale. Da ciò ben si può desumere una connessione fra i due accertamenti e una consequenzialità logica degli stessi.
La questione dei due procedimenti e, quindi, della pregiudizialità del giudicato penale sulla decisione sanzionatoria disciplinare è stata riformata dal d.lgs. 150/2009 che, di fatto, ha mutato la previgente previsione dell’art. 117 D.P.R. 3/1957. Tale articolo imponeva la regola della c.d. pregiudizialità penale, obbligando la Pubblica Amministrazione a sospendere il procedimento eventualmente già attivato o inibendone l’instaurazione fino alla definizione di quello aperto in sede penale. La disciplina antecedente alla c.d. “Riforma Brunetta” disponeva quindi un “rinvio” delle sanzioni disciplinari una volta concluso l’accertamento penale. La contrattazione collettiva, inoltre, aveva disposto che la sospensione del procedimento disciplinare operasse addirittura dalla Comunicazione di Notizia di Reato (CNR) non già dal rinvio a giudizio come stabilito dal dato letterale del citato art. 117. Ciò veniva giustificato per evitare un contrasto di decisioni assunte in via definitiva tramite, rispettivamente, la sanzione disciplinare e la sentenza del giudice penale, che latamente potevano addivenire ad accertamenti fra loro difformi. Peraltro, i poteri conferiti al datore di lavoro per l’istruttoria del procedimento sono molto più limitati rispetto a quelli conferiti ex lege all’accertamento penale e, a parere della scrivente, anche le c.d. “velocità” dei due procedimenti sono evidentemente molto diverse fra di loro.
L’art. 55-ter è stato introdotto proprio al fine di contemperare una situazione che, di fatto, era normativamente carente, determinando un’assoluta rottura con il passato e rendendo la sospensione del procedimento non più obbligatoria ma facoltativa. È evidente che la “Riforma Brunetta”, confermata anche dalla successiva “Riforma Madia”, ha voluto superare la questione di interconnessione procedimentale determinando una quasi totale autonomia dell’illecito disciplinare da quello penale.
Proprio con riferimento al d.lgs. 75/2017, il quale, a sua volta, interviene sul dettato dell’art. 55-ter, è bene rilevare che, anche in questa occasione, il legislatore si assesta sulla tendenza autonomistica dei due procedimenti prevedendo, nel caso di riapertura del procedimento sospeso, che ciò possa avvenire anche nel caso in cui non vi sia una sentenza definitiva. È sufficiente che intervengano nuovi elementi in grado di definire il procedimento disciplinare.
Da ultimo, si rendono necessarie due brevi precisazioni per completezza espositiva del quadro appena illustrato.
La prima concerne la questione di diritto intertemporale. Infatti le previsioni appena descritte assumono valore per tutti quei fatti costituenti illeciti disciplinari la cui notizia sia stata assunta a partire dal 16 novembre 2009. Non rileva quindi la stipula del contratto ma viene presa a riferimento una datazione specifica[3].
La seconda riguarda la particolarità rappresentata dal giudizio c.d. “patteggiato”, disciplinato dall’art. 444 e seguenti c.p.p. Detto rito si compone di una istruttoria pressoché assente ed, in sostanza, l’imputato non nega la propria responsabilità ma, rinunciando a provare la propria estraneità, di fatto esonera l’accusa dall’onere probatorio. Ne discende che in una siffatta impostazione l’accertamento penale pare non essere d’aiuto all’accertamento in sede disciplinare, disponendo di un accertamento sicuramente ridotto rispetto ad altre tipologie di rito codicisticamente ammesse. Di conseguenza, in sede disciplinare il lavoratore potrà far valere elementi contrari alla decisione assunta in sede penale, al fine di mitigare o addirittura evitare la sanzione irrogata dall’organo competente[4].

Note

[1] All’art. 55-bis è prevista altresì la “gestione unificata delle funzioni” concernente gli uffici per i procedimenti disciplinari. Pur essendo una previsione alquanto vaga si presume riferibile alla possibilità per le amministrazioni di istituire, mediante convenzione, un ufficio comune che potrebbe portare alla conseguenza che un lavoratore possa essere sanzionato da chi detiene il potere disciplinare ma appartenente ad un diverso ente pubblico.
[2] Il termine è perentorio. Il diverso termine di 10 giorni nel procedimento disciplinare avanti al dirigente risulta invece ordinatorio.
[3] Prassi non nuova al diritto del lavoro, si pensi alla data del 30.06.1998 assunta quale passaggio di giurisdizione da Giudice Amministrativo a Giudice del Lavoro.
[4] Esemplificativamente, sul punto, la recente giurisprudenza della Cassazione, Sez. Lavoro, n. 5313/2017.