Cass. Pen. Sez. II, ordinanza n. 14080/2019 – “Il fatto non costituisce reato”: quale efficacia, per tale formula assolutoria, nel giudizio civile?

Aricolo a cura della Dott.ssa Sindi Manushi

Il presente elaborato trae spunto dalle diverse e spesso contrastanti interpretazioni che negli anni la giurisprudenza di legittimità ha saputo fornire all’art. 652 c.p.p., con particolare riferimento alle formule assolutorie a cui la medesima norma conferisce efficacia vincolante nel processo civile di valutazione e quantificazione dei danni derivanti da fatto illecito. Come meglio si vedrà nel prosieguo, si tratta di un dibattito giurisprudenziale soltanto apparentemente appianato, dal momento che – ad oggi – ancora non è pervenuta una risposta univoca, da parte delle Sezioni Unite, che ponga fine ai contrasti giurisprudenziali sopra richiamati. La quaestio giuridica sottesa al presente elaborato concerne, in particolar modo, l’eventuale efficacia vincolante, nel giudizio civile, della sentenza penale d’assoluzione con formula “il fatto non costituisce reato”, la quale – è risaputo implica l’accertamento dell’elemento oggettivo del reato e la carenza, per contro, dell’elemento psicologico in capo all’autore del medesimo reato.

Il fatto non costituisce reato

Come accennato, il predetto conflitto giurisprudenziale nasce da una interpretazione contrastante dell’art. 652 c.p.p., il quale, al comma 1, statuisce che <<la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’articolo 75 comma 2.>>.
Alla luce di una – seppur rapida – lettura della predetta norma, è possibile evincere come i presupposti di applicazione della medesima siano i seguenti:

  • la sentenza richiamata dalla norma poc’anzi citata dovrà essere irrevocabile, ossia coperta dal giudicato penale, ai sensi dell’art. 648 c.p.p.;
  • la sentenza de qua dovrà inoltre essere emessa ad esito del dibattimento, con ciò escludendo l’efficacia vincolante delle sentenze assolutorie giunte al termine di quei procedimenti speciali tesi ad ovviare il momento della formazione della prova all’interno del contraddittorio;
  • il danneggiato/ricorrente in sede civile dovrà, necessariamente e in via alternativa, essersi costituito parte civile nelle maglie del procedimento penale oppure dovrà avere esercitato l’azione civile nei termini e nei modi previsti dall’art. 75 c.p.p..

Inoltre, come da lettera, l’art. 652 c.p.p. attribuisce espressamente efficacia di giudicato in sede civile alle sentenze di assoluzione riportanti le formule “il fatto non sussiste”, “l’imputato non lo ha commesso”, ovvero ancora “il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima”. Al contrario, la norma non attribuisce lo stesso potere vincolante alle altre formule assolutorie, tradizionalmente (e spesso in maniera inappropriata) considerate come “non pienamente assolutorie” del soggetto imputato, tra cui vi rientra “il fatto non costituisce reato”; se ne dovrebbe pertanto desumere, prima facie, che tale formula assolutoria non precluda al giudice civile di pronunciarsi, libero da qualsivoglia pregiudizio derivante dalla sentenza penale, in merito sia all’an della responsabilità civile derivante da fatto illecito, sia al quantum dell’eventuale risarcimento dei danni.
Tale orientamento si è fatto largo in particolare negli anni più recenti, in seno a quella giurisprudenza e a quella dottrina che non ritengono di estendere l’efficacia di cui all’art. 652 c.p.p. anche alla formula assolutoria qui esaminata, mediante interpretazione analogica; infatti, più recentemente la giurisprudenza di legittimità si è orientata proprio nel senso di restringere l’applicazione della norma che qui ci occupa alle sole ipotesi dalla medesima esplicitate, tra cui – come sopra accennato – non rientra “il fatto non costituisce reato”. Più precisamente, la Suprema Corte ha sostenuto che: <<è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per Cassazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, non avendo tale sentenza efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno”>> (Cass. pen. Sez. IV, sent. N. 42460/2018).
Di contro, in ossequio ad un secondo orientamento, sempre la Cassazione Penale ha asserito che <<sussiste l’interesse della parte civile ad impugnare, ai fini civili, la sentenza di assoluzione dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato” (per mancanza dell’elemento psicologico), in quanto, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., l’azione civile per il risarcimento del  danno da fatto illecito è preclusa, oltre che nei casi in cui l’imputato sia stato assolto per non avere commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, anche quando egli sia stato assolto perché il fatto non costituisce reato, data l’identità di natura e di intensità dell’elemento psicologico rilevante ai fini penali e a quelli civili, con la conseguenza che un’eventuale pronuncia del giudice civile che dovesse affermare la sussistenza di tale elemento, escluso o messo in dubbio dalla sentenza penale irrevocabile, si porrebbe in contrasto con il principio dell’unità della funzione giurisdizionale>> (Cass. pen. Sez. VI, sent. n. 6692/2014).
Ma vi è di più. Ai due indirizzi, fondamentalmente di segno opposto, sopra menzionati, ne sono seguiti altri, supportati da differenti percorsi argomentativi e spesso tra di loro contradditori, al punto da ritenere che – ad oggi – il contrasto giurisprudenziale risulti, sulla questione, insanabile.
Per tale ragione, recentemente, la seconda sezione del Supremo Consesso ha ritenuto di rimettere l’annosa questione alle Sezioni Unite, mediante ordinanza n. 14080/2019. Sul punto, a ben vedere, le Sezioni Unite si erano già in parte pronunciate con la sentenza n. 40049/2008, ma la questione era stata tuttavia esaminata da un differente angolo prospettico, strettamente correlato alla questione del ricorso immediato in Cassazione, avverso sentenza assolutoria con formula “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.”, al fine di veder cambiare la formula ne “il fatto non costituisce reato”. Nell’occasione poc’anzi menzionata, la Suprema Corte sembrava avere offerto il proprio sostegno a quell’indirizzo interpretativo che riconosce alla parte civile l’interesse ad impugnare la sentenza di proscioglimento sulla scorta della formula “il fatto non costituisce reato”, perché <<chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciare dall’inizio>>.
Tuttavia, nella stessa pronuncia, le Sezioni Unite avevano in realtà disatteso l’indirizzo secondo cui sussisterebbe l’interesse della parte civile a impugnare una qualsiasi sentenza di proscioglimento, disconoscendo – in via indiretta – l’efficacia preclusiva della sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Così argomentando, pertanto, il Supremo Collegio ha voluto porre l’accento, con riguardo all’eventuale sussistenza dell’effetto preclusivo della predetta formula assolutoria, sulla necessità di tenere conto – in sede civile – non tanto della formula assolutoria in sé, enunciata dal giudice penale, quanto piuttosto dell’accertamento concretamente effettuato da quest’ultimo in relazione al grado e alla intensità dell’elemento psicologico.
Ciò nonostante, il predetto intervento delle Sezioni Unite non ha fornito una risposta esaustiva in merito al quesito che qui ci occupa, e non ha quindi posto un freno al persistere di un panorama giurisprudenziale sempre più frammentato con riferimento al tema in oggetto.
Alla luce dei contrasti giurisprudenziali summenzionati e ad oggi ancora non sanati, con riferimento alla preclusività della formula assolutoria “il fatto non costituisce reato” alla proposizione della richiesta di risarcimento dei danni in ambito civile, la seconda sezione della Suprema Corte ha pertanto ritenuto, mediante l’ordinanza succitata, di richiedere un ulteriore intervento di natura nomofilattica, da parte delle Sezioni Unite, che ponga fine all’incertezza esegetica con riguardo all’art. 652 c.p.p. e che fornisca, pertanto, una risposta univoca al quesito rilevato dal presente elaborato.
Ad oggi, sebbene a distanza di più di un anno dall’emissione della predetta ordinanza e probabilmente anche a causa del rallentamento della giustizia in seguito alla pandemia da COVID- 19, le Sezioni Unite ancora non si sono pronunciate sulla vexata quaestio. L’auspicio di chi scrive è che le Sezioni Unite proseguano nel solco della precedente pronuncia n. 40049/2008 e che, quindi, non estendano gli effetti preclusivi di cui all’art. 652 cp.p. anche alla formula assolutoria “il fatto non costituisce reato”, rimettendosi pertanto, nella valutazione della sussistenza della responsabilità civile e della quantificazione degli eventuali danni, alla sola discrezionalità del giudice civile; infatti, ad avviso del presente candidato, sarebbe opportuno che la giurisprudenza, così come anche la dottrina, rinunciasse definitivamente al perseguimento del principio dell’unità della giurisdizione, che molto spesso si traduce nel principio di “prevalenza del giudizio penale a discapito di quello civile”, per seguire invece – in via sempre più definita e costituzionalmente orientata – il principio cardine del favor separationis, che vede i due procedimenti – quello civile ed il penale – come due rette distinte, indipendenti e parimenti degne, ognuna riportanti le proprie caratteristiche e peculiarità, anche in fatto di valutazione della prova, evitando – in conclusione – intersecazioni e accavallamenti inappropriati, che rievochino i binari ritratti nell’immagine allegata al presente elaborato.

il fatto non costituisce reato

Come accennato, il predetto conflitto giurisprudenziale nasce da una interpretazione contrastante dell’art. 652 c.p.p., il quale, al comma 1, statuisce che <<la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’articolo 75 comma 2.>>.
Alla luce di una – seppur rapida – lettura della predetta norma, è possibile evincere come i presupposti di applicazione della medesima siano i seguenti:

  • la sentenza richiamata dalla norma poc’anzi citata dovrà essere irrevocabile, ossia coperta dal giudicato penale, ai sensi dell’art. 648 c.p.p.;
  • la sentenza de qua dovrà inoltre essere emessa ad esito del dibattimento, con ciò escludendo l’efficacia vincolante delle sentenze assolutorie giunte al termine di quei procedimenti speciali tesi ad ovviare il momento della formazione della prova all’interno del contraddittorio;
  • il danneggiato/ricorrente in sede civile dovrà, necessariamente e in via alternativa, essersi costituito parte civile nelle maglie del procedimento penale oppure dovrà avere esercitato l’azione civile nei termini e nei modi previsti dall’art. 75 c.p.p..

Inoltre, come da lettera, l’art. 652 c.p.p. attribuisce espressamente efficacia di giudicato in sede civile alle sentenze di assoluzione riportanti le formule “il fatto non sussiste”, “l’imputato non lo ha commesso”, ovvero ancora “il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima”. Al contrario, la norma non attribuisce lo stesso potere vincolante alle altre formule assolutorie, tradizionalmente (e spesso in maniera inappropriata) considerate come “non pienamente assolutorie” del soggetto imputato, tra cui vi rientra “il fatto non costituisce reato”; se ne dovrebbe pertanto desumere, prima facie, che tale formula assolutoria non precluda al giudice civile di pronunciarsi, libero da qualsivoglia pregiudizio derivante dalla sentenza penale, in merito sia all’an della responsabilità civile derivante da fatto illecito, sia al quantum dell’eventuale risarcimento dei danni.
Tale orientamento si è fatto largo in particolare negli anni più recenti, in seno a quella giurisprudenza e a quella dottrina che non ritengono di estendere l’efficacia di cui all’art. 652 c.p.p. anche alla formula assolutoria qui esaminata, mediante interpretazione analogica; infatti, più recentemente la giurisprudenza di legittimità si è orientata proprio nel senso di restringere l’applicazione della norma che qui ci occupa alle sole ipotesi dalla medesima esplicitate, tra cui – come sopra accennato – non rientra “il fatto non costituisce reato”. Più precisamente, la Suprema Corte ha sostenuto che: <<è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per Cassazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, non avendo tale sentenza efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno”>> (Cass. pen. Sez. IV, sent. N. 42460/2018).
Di contro, in ossequio ad un secondo orientamento, sempre la Cassazione Penale ha asserito che <<sussiste l’interesse della parte civile ad impugnare, ai fini civili, la sentenza di assoluzione dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato” (per mancanza dell’elemento psicologico), in quanto, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., l’azione civile per il risarcimento del  danno da fatto illecito è preclusa, oltre che nei casi in cui l’imputato sia stato assolto per non avere commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, anche quando egli sia stato assolto perché il fatto non costituisce reato, data l’identità di natura e di intensità dell’elemento psicologico rilevante ai fini penali e a quelli civili, con la conseguenza che un’eventuale pronuncia del giudice civile che dovesse affermare la sussistenza di tale elemento, escluso o messo in dubbio dalla sentenza penale irrevocabile, si porrebbe in contrasto con il principio dell’unità della funzione giurisdizionale>> (Cass. pen. Sez. VI, sent. n. 6692/2014).
Ma vi è di più. Ai due indirizzi, fondamentalmente di segno opposto, sopra menzionati, ne sono seguiti altri, supportati da differenti percorsi argomentativi e spesso tra di loro contradditori, al punto da ritenere che – ad oggi – il contrasto giurisprudenziale risulti, sulla questione, insanabile.
Per tale ragione, recentemente, la seconda sezione del Supremo Consesso ha ritenuto di rimettere l’annosa questione alle Sezioni Unite, mediante ordinanza n. 14080/2019. Sul punto, a ben vedere, le Sezioni Unite si erano già in parte pronunciate con la sentenza n. 40049/2008, ma la questione era stata tuttavia esaminata da un differente angolo prospettico, strettamente correlato alla questione del ricorso immediato in Cassazione, avverso sentenza assolutoria con formula “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.”, al fine di veder cambiare la formula ne “il fatto non costituisce reato”. Nell’occasione poc’anzi menzionata, la Suprema Corte sembrava avere offerto il proprio sostegno a quell’indirizzo interpretativo che riconosce alla parte civile l’interesse ad impugnare la sentenza di proscioglimento sulla scorta della formula “il fatto non costituisce reato”, perché <<chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciare dall’inizio>>.
Tuttavia, nella stessa pronuncia, le Sezioni Unite avevano in realtà disatteso l’indirizzo secondo cui sussisterebbe l’interesse della parte civile a impugnare una qualsiasi sentenza di proscioglimento, disconoscendo – in via indiretta – l’efficacia preclusiva della sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Così argomentando, pertanto, il Supremo Collegio ha voluto porre l’accento, con riguardo all’eventuale sussistenza dell’effetto preclusivo della predetta formula assolutoria, sulla necessità di tenere conto – in sede civile – non tanto della formula assolutoria in sé, enunciata dal giudice penale, quanto piuttosto dell’accertamento concretamente effettuato da quest’ultimo in relazione al grado e alla intensità dell’elemento psicologico.
Ciò nonostante, il predetto intervento delle Sezioni Unite non ha fornito una risposta esaustiva in merito al quesito che qui ci occupa, e non ha quindi posto un freno al persistere di un panorama giurisprudenziale sempre più frammentato con riferimento al tema in oggetto.
Alla luce dei contrasti giurisprudenziali summenzionati e ad oggi ancora non sanati, con riferimento alla preclusività della formula assolutoria “il fatto non costituisce reato” alla proposizione della richiesta di risarcimento dei danni in ambito civile, la seconda sezione della Suprema Corte ha pertanto ritenuto, mediante l’ordinanza succitata, di richiedere un ulteriore intervento di natura nomofilattica, da parte delle Sezioni Unite, che ponga fine all’incertezza esegetica con riguardo all’art. 652 c.p.p. e che fornisca, pertanto, una risposta univoca al quesito rilevato dal presente elaborato.
Ad oggi, sebbene a distanza di più di un anno dall’emissione della predetta ordinanza e probabilmente anche a causa del rallentamento della giustizia in seguito alla pandemia da COVID- 19, le Sezioni Unite ancora non si sono pronunciate sulla vexata quaestio. L’auspicio di chi scrive è che le Sezioni Unite proseguano nel solco della precedente pronuncia n. 40049/2008 e che, quindi, non estendano gli effetti preclusivi di cui all’art. 652 cp.p. anche alla formula assolutoria “il fatto non costituisce reato”, rimettendosi pertanto, nella valutazione della sussistenza della responsabilità civile e della quantificazione degli eventuali danni, alla sola discrezionalità del giudice civile; infatti, ad avviso del presente candidato, sarebbe opportuno che la giurisprudenza, così come anche la dottrina, rinunciasse definitivamente al perseguimento del principio dell’unità della giurisdizione, che molto spesso si traduce nel principio di “prevalenza del giudizio penale a discapito di quello civile”, per seguire invece – in via sempre più definita e costituzionalmente orientata – il principio cardine del favor separationis, che vede i due procedimenti – quello civile ed il penale – come due rette distinte, indipendenti e parimenti degne, ognuna riportanti le proprie caratteristiche e peculiarità, anche in fatto di valutazione della prova, evitando – in conclusione – intersecazioni e accavallamenti inappropriati, che rievochino i binari ritratti nell’immagine allegata al presente elaborato.