Cannabis: è reato?

Con il recente deposito della sentenza 51/2022, la Corte Costituzionale ha motivato l’inammissibilità del referendum sulla legalizzazione della cannabis legale.

Cannabis

L’obiettivo del referendum era quello di depenalizzare la coltivazione della cannabis ed eliminare le pene detentive per le condotte illecite legate alla cannabis e ai suoi derivati, escluso il caso del traffico illecito.
In questo articolo cerchiamo di capire quali sono le motivazioni per cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sulla depenalizzazione della coltivazione della cannabis e vediamo insieme se e quale margine esiste, per la normativa e la giurisprudenza attuale, per poter coltivare la canapa senza incorrere in un reato.

Le motivazioni della Corte Costituzionale

Il quesito presentato alla Corte intendeva eliminare il verbo “coltiva” e la conseguente pena detentiva prevista per gli illeciti connessi alla cannabis ai sensi del comma 1 dell’articolo 73 del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309). Fermo restando che sarebbe rimasto punibile chiunque “produce, fabbrica, estrae, raffina”.
I giudici, per dichiarare l’inammissibilità del referendum, hanno richiamato le Convenzioni internazionali di Vienna e di New York e la normativa UE in materia di stupefacenti, quali obblighi internazionali da rispettare. Infatti, il quesito, per come formulato, non si sarebbe limitato a legalizzare la produzione “domestica” ma avrebbe permesso la coltivazione “massiva” della canapa così come quella di droghe cosiddette “pesanti”, come ad esempio la coca e l’oppio.
Nelle motivazioni, la Corte Costituzionale ha evidenziato come:

“Non vi è dubbio che, alla stregua delle Convenzioni internazionali di Vienna e di New York, nonché della richiamata normativa europea, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti, la cui coltivazione e detenzione deve essere qualificata come reato e che solo la loro destinazione al consumo personale rende possibile l’adozione delle misure amministrative riabilitative e di reinserimento sociale diverse dalla sanzione penale”.

In definitiva, mentre per quella che è stata la dichiarata intenzione del Comitato promotore del referendum, il quesito era inteso a depenalizzare soltanto la coltivazione, non agricola ma domestica “rudimentale” (o minimale), della canapa indiana, in realtà esso, per quello che è il suo contenuto oggettivo, per un verso avrebbe prodotto un risultato ben più esteso, andando a coprire in maniera diretta ogni coltivazione delle piante per estrarre sostanze stupefacenti cosiddette “pesanti” (papavero sonnifero e foglie di coca) e, anche, indirettamente la coltivazione, della pianta di canapa, sia domestica che agricola. Tale risultato complessivo risulta appunto precluso dai vincoli internazionali richiamati che non consentono l’ammissibilità di un referendum di questa portata.

La coltivazione della cannabis a “scopo terapeutico”

Non è reato coltivare due piantine di cannabis a scopo terapeutico in quanto trattasi di una mera attività domestica che porta ad ottenere un modesto quantitativo di sostanza per un uso prettamente personale.
Questo è quanto emerge dalla recente sentenza del 20 gennaio scorso, n. 2388/2022 della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva coinvolto un uomo, che è stato assolto dal reato di “detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente di tipo marijuana”, di cui al citato articolo 73, comma 5, del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, nonché per il reato di coltivazione. La sentenza ha dichiarato che il fatto non è punibile per particolare tenuità secondo la scriminante prevista dall’articolo 131 bis del codice penale.
Con ricorso per Cassazione l’imputato deduceva violazione di legge e vizi della motivazione in ordine alla configurabilità del reato di coltivazione, che la sentenza impugnata riteneva integrato, senza tenere conto del fatto che si trattava non di una coltivazione tecnico-agraria, ma domestica, rivolta ad un uso personale e quindi priva del requisito della tipicità.
Gli avvocati dell’imputato denunciavano inoltre l’errore dei giudici nell’escludere la scriminante dello stato di necessità che avrebbe dovuto essergli riconosciuta per l’uso terapeutico che l’imputato faceva della cannabis, ovvero per curare una patologia che gli affliggeva gli occhi.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, non integra quindi il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, presenta un nesso oggettivo e immediato con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modesto quantitativo di prodotto.
Nella fattispecie, trattandosi di attività non abituale di coltivazione, intrapresa in forme rudimentali e per fini personali servendosi di due soli vasi collocati sul balcone della propria abitazione, con un numero davvero esiguo di piante ed un modesto quantitativo di principio attivo complessivamente ricavabile, la Cassazione ha ritenuto che, anche in ragione della totale assenza di elementi che indicassero l’inserimento dell’imputato in un mercato illegale, la condotta debba essere inquadrata nell’ambito di una attività svolta in forma meramente domestica e, come tale, penalmente irrilevante.
Se quindi rimane illegale la coltivazione massiva della canapa, appare ragionevole, sulla base della valutazione delle circostanze del caso specifico, valutare come lecita la coltivazione domestica a uso personale della cannabis.

cannabis

L’obiettivo del referendum era quello di depenalizzare la coltivazione della cannabis ed eliminare le pene detentive per le condotte illecite legate alla cannabis e ai suoi derivati, escluso il caso del traffico illecito.
In questo articolo cerchiamo di capire quali sono le motivazioni per cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sulla depenalizzazione della coltivazione della cannabis e vediamo insieme se e quale margine esiste, per la normativa e la giurisprudenza attuale, per poter coltivare la canapa senza incorrere in un reato.

Le motivazioni della Corte Costituzionale

Il quesito presentato alla Corte intendeva eliminare il verbo “coltiva” e la conseguente pena detentiva prevista per gli illeciti connessi alla cannabis ai sensi del comma 1 dell’articolo 73 del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309). Fermo restando che sarebbe rimasto punibile chiunque “produce, fabbrica, estrae, raffina”.
I giudici, per dichiarare l’inammissibilità del referendum, hanno richiamato le Convenzioni internazionali di Vienna e di New York e la normativa UE in materia di stupefacenti, quali obblighi internazionali da rispettare. Infatti, il quesito, per come formulato, non si sarebbe limitato a legalizzare la produzione “domestica” ma avrebbe permesso la coltivazione “massiva” della canapa così come quella di droghe cosiddette “pesanti”, come ad esempio la coca e l’oppio.
Nelle motivazioni, la Corte Costituzionale ha evidenziato come:

“Non vi è dubbio che, alla stregua delle Convenzioni internazionali di Vienna e di New York, nonché della richiamata normativa europea, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti, la cui coltivazione e detenzione deve essere qualificata come reato e che solo la loro destinazione al consumo personale rende possibile l’adozione delle misure amministrative riabilitative e di reinserimento sociale diverse dalla sanzione penale”.

In definitiva, mentre per quella che è stata la dichiarata intenzione del Comitato promotore del referendum, il quesito era inteso a depenalizzare soltanto la coltivazione, non agricola ma domestica “rudimentale” (o minimale), della canapa indiana, in realtà esso, per quello che è il suo contenuto oggettivo, per un verso avrebbe prodotto un risultato ben più esteso, andando a coprire in maniera diretta ogni coltivazione delle piante per estrarre sostanze stupefacenti cosiddette “pesanti” (papavero sonnifero e foglie di coca) e, anche, indirettamente la coltivazione, della pianta di canapa, sia domestica che agricola. Tale risultato complessivo risulta appunto precluso dai vincoli internazionali richiamati che non consentono l’ammissibilità di un referendum di questa portata.

La coltivazione della cannabis a “scopo terapeutico”

Non è reato coltivare due piantine di cannabis a scopo terapeutico in quanto trattasi di una mera attività domestica che porta ad ottenere un modesto quantitativo di sostanza per un uso prettamente personale.
Questo è quanto emerge dalla recente sentenza del 20 gennaio scorso, n. 2388/2022 della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva coinvolto un uomo, che è stato assolto dal reato di “detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente di tipo marijuana”, di cui al citato articolo 73, comma 5, del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, nonché per il reato di coltivazione. La sentenza ha dichiarato che il fatto non è punibile per particolare tenuità secondo la scriminante prevista dall’articolo 131 bis del codice penale.
Con ricorso per Cassazione l’imputato deduceva violazione di legge e vizi della motivazione in ordine alla configurabilità del reato di coltivazione, che la sentenza impugnata riteneva integrato, senza tenere conto del fatto che si trattava non di una coltivazione tecnico-agraria, ma domestica, rivolta ad un uso personale e quindi priva del requisito della tipicità.
Gli avvocati dell’imputato denunciavano inoltre l’errore dei giudici nell’escludere la scriminante dello stato di necessità che avrebbe dovuto essergli riconosciuta per l’uso terapeutico che l’imputato faceva della cannabis, ovvero per curare una patologia che gli affliggeva gli occhi.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, non integra quindi il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, presenta un nesso oggettivo e immediato con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modesto quantitativo di prodotto.
Nella fattispecie, trattandosi di attività non abituale di coltivazione, intrapresa in forme rudimentali e per fini personali servendosi di due soli vasi collocati sul balcone della propria abitazione, con un numero davvero esiguo di piante ed un modesto quantitativo di principio attivo complessivamente ricavabile, la Cassazione ha ritenuto che, anche in ragione della totale assenza di elementi che indicassero l’inserimento dell’imputato in un mercato illegale, la condotta debba essere inquadrata nell’ambito di una attività svolta in forma meramente domestica e, come tale, penalmente irrilevante.
Se quindi rimane illegale la coltivazione massiva della canapa, appare ragionevole, sulla base della valutazione delle circostanze del caso specifico, valutare come lecita la coltivazione domestica a uso personale della cannabis.