Art. 13 – Statuto dei lavoratori

(L. 20 maggio 1970, n. 300 - Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà  sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)

Mansioni del lavoratore

Art. 13 - statuto dei lavoratori

1. L’ art. 2103 c. c. è sostituito dal seguente:
“Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo”.

Art. 13 - Statuto dei lavoratori

1. L’ art. 2103 c. c. è sostituito dal seguente:
“Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo”.

Massime

In tema di mansioni, il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa. A tal fine, il giudice deve tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. Cassazione Civile, Sez. VI, ordinanza n. 7963 del 18 maggio 2012 (cass. civ. n. 7963/2012)

In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello “ius variandi” introdotte dall’art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all’art. 13 della legge n. 300 del 1970, sono dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui – secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato – il mutamento di mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un’esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l’abbia invece subita. Cassazione Civile, Sez. Lav., sentenza n. 17095 del 8 agosto 2011 (cass. civ. n. 17095/2011)

Il lavoratore – cui l’art. 2103 cod. civ. (nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300), con norma applicabile anche ai dirigenti, riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte – ha “a fortiori” il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’indampimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. (Sulla base dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto immune da censura la decisione del giudice del merito, che aveva escluso la responsabilità risarcitoria sul rilievo che il demansionamento e la privazione delle funzioni patiti nella specie dal dirigente aziendale erano dipesi da fattori oggettivi estranei alla volontà del datore di lavoro e legati alla generale contrazione delle attività imprenditoriali). Cassazione Civile, Sez. I., sentenza n. 17564 del 2 agosto 2006 (cass. civ. n. 17564/2006)

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