I sintomi del Covid-19 sui contratti di durata: le opzioni per il contraente debole

Articolo a cura della Dott.ssa Frisani Claudia

L’emergenza pandemica e la crisi da essa generata hanno svolto un ruolo centrale con riferimento alle problematiche connesse alla gestione della fase esecutiva dei contratti a prestazione sinallagmatiche, ossia contratti caratterizzati dal fatto che l’esecuzione delle prestazioni non si esaurisce istantaneamente ma si proietta nel tempo. Tali contratti, definiti anche con la locuzione di “contratti a lungo termine” e aventi ad oggetto la fornitura di beni mobili (energie, materie prime) a carattere continuativo (si pensi alla somministrazione di energia elettrica, gas, acqua) o periodico (somministrazione di materie prime), sono di per sè soggetti al rischio di sopravvenienze [1]. Queste consistono in fatti e circostanze esterni al contratto e alle parti contrattuali, successivi alla stipula del medesimo ma anteriori alla piena esecuzione delle prestazioni ivi previste, che perturbano e alterano patologicamente il sinallagma delle prestazioni medesime.

Energia

1. L’eccessiva onerosità sopravvenuta: dottrina e giurisprudenza a confronto

La materia delle sopravvenienze è attenzionata nel nostro ordinamento all’art. 1467 c.c., rubricato «Contratto con prestazioni corrispettive»[2], ove si colloca l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La disposizione normativa ponendosi come rimedio generale contro le sopravvenienze che comportino una alterazione delle prestazioni originariamente pattuite, prevede che nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta
eccessivamente onerosa per il verificarsi di accadimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale
prestazione può domandare, in apposito giudizio, la risoluzione del contratto, purché la sopravvenuta
onerosità non rientri nell’alea normale del contratto [3].
L’eccessiva onerosità della prestazione, in conformità alla lettera della norma, si sostanzierebbe in un aumento del costo originario della prestazione, percepibile al momento dell’adempimento, di entità superiore alla normale alea contrattuale e avrebbe riguardo all’oggettivo aggravio della posizione debitoria [4]. Sul punto parte della dottrina ha ritenuto che l’eccessiva onerosità sopravvenuta debba determinare una notevole alterazione del rapporto originario delle prestazioni, a fronte di una valutazione globale dell’economia del contratto [5], per cui sussisterebbe anche in caso di eccezionale diminuzione del valore reale della controprestazione dovuta, ad esempio, alla svalutazione monetaria [6]. La Cassazione ha identificato quale criterio rilevante per stabilire l’effettiva onerosità sopravvenuta la necessità di confrontare il valore delle prestazioni al momento in cui sono sorte con quello in cui devono eseguirsi [7], sancendo altresì che al fine della risoluzione del contratto può dirsi che la prestazione dovuta da una parte è divenuta eccessivamente onerosa solo nell’ipotesi in cui, per eventi straordinari e imprevedibili, essa sia divenuta troppo gravosa per il debitore, non quando in seguito al verificarsi di tali eventi la sua esecuzione sia suscettibile di procurare al creditore vantaggi originariamente insperati [8].
Dunque, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, si deve trattare di eventi a carattere tecnico, economico e politico normativo che siano straordinari sul piano oggettivo e imprevedibili sul piano soggettivo [9].
Il concetto di straordinarietà è stato inteso dalla giurisprudenza quale avvenimento che non si ripete con frequenza e regolarità nel tempo, da valutare altresì sulla base delle dimensioni e dell’intensità [10]; il concetto di imprevedibilità, invece, è stato inteso come evento estraneo a qualsiasi ragionevolezza previsionale o di cui non si conoscono gli effetti, secondo il criterio dell’uomo comune [11], oppure se prevedibile inevitabile: quale non è una semplice «congiuntura economica sfavorevole» [12] e in ogni caso eccedente la normale alea del contratto, la quale comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni contrattuali che traggono origine dalle «regolari e normali fluttuazioni del mercato» [13]. Sul piano pratico, dunque, la prestazione eccessivamente onerosa è dovuta alla parte creditrice ma il debitore si può liberare attivando il rimedio risolutorio. Si richiama a tal proposito il noto decisum arbitrale con cui si dispose che «Non dà luogo ad impossibilità sopravvenuta, ma ad eccessività onerosità della prestazione l’anormale rialzo dei prezzi sul mercato petrolifero determinato dall’imprevedibile e straordinario evento della chiusura del canale di Suez in connessione con l’improvviso scoppio delle ostilità arabo-israeliane nel giugno 1967» [14].

2. Covid-19 ed eccessiva onerosità sopravvenuta

Parallelamente, attualizzando il decisum, si potrebbe dire, come è stato fatto, lo stesso con riferimento alla pandemia: l’emergenza sanitaria, economica e sociale innescata dalla pandemia Covid-19 ha prodotto effetti negativi sul sistema produttivo italiano non riconducibili alle “regolari fluttuazioni del mercato” o alla “congiuntura sfavorevole”, a fronte della straordinarietà e imprevedibilità della pandemia stessa [15]. Tuttavia, si è altresì sostenuto che non tutti contratti a lungo termine in corso di esecuzione sono risolvibili giudizialmente per eccessiva onerosità sopravvenuta connessa alla pandemia, in quanto per orientamento costante «la questione dell’applicabilità ad un determinato contratto dell’intera disciplina dell’art. 1467 c.c. sulla onerosità sopravvenuta deve essere risolta dal giudice con specifico riferimento al caso concreto ed all’azione effettivamente proposta, dovendosi, a tal fine, considerare non solo la natura e la struttura del contratto sulla cui risoluzione si controverta ma anche le modalità ed i tempi di adempimento delle reciproche prestazioni connesse al contratto stesso; la decisione circa la sopravvenienza e la sussistenza dell’eccessiva onerosità esige, peraltro, la risoluzione della questione della proponibilità della domanda cui è legittimato quello dei contraenti la cui prestazione sia ancora dovuta, quando questa sia divenuta eccessivamente onerosa o quando la prestazione dallo stesso contraente attesa si sia eccessivamente svilita in modo da alterare l’equilibrio economico raggiunto dalle parti al momento della conclusione del contratto» [16].
Pertanto, con riferimento al singolo contratto commerciale a lungo termine, la pandemia potrebbe essere considera una sopravvenienza che, soddisfacendo i requisiti di straordinarietà ed imprevedibilità e sopravvenuta eccessiva onerosità, legittimerebbe la parte pregiudicata a richiedere la risoluzione giudiziale del contratto squilibrato. Tale scenario si manifesterebbe, a titolo esemplificativo, con riferimento a quei contratti a lungo termine aventi ad oggetto materie prime i cui prezzi hanno subito e stanno subendo a causa della pandemia discese o innalzamenti di carattere eccezionale (filiera produttiva dei settori dell’energia, degli alimentari, della sanità, del turismo, dei trasporti e dei mezzi di trasporto) [17]. Nonostante la centralità che assume, il rimedio risolutorio presenta un limite intrinseco, ossia l’essere finalizzato alla cancellazione, piuttosto che alla conservazione, del contratto squilibrato, il che risulta in contrasto con l’intensità della relazione che connota i contratti commerciali a lungo termine. Infatti, appare plausibile che la parte pregiudicata dall’aggravamento per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai giorni nostri determinata dalla pandemia, potrebbe avere interesse non a richiedere la risoluzione giudiziaria del contratto ma a riequilibrare le prestazioni contrattuali. La conservazione del contratto, tuttavia, viene garantita sul piano normativo al comma 3 dell’art. 1467 e, anche per orientamento costante della Suprema Corte, può essere invocata solo dalla parte avvantaggiata dall’eccessiva onerosità: «Nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite» [18].

3. La Relazione n. 56/2020 della Suprema Corte

In tale contesto occorre richiamare la posizione assunta dalla Suprema Corte che con la Relazione n. 56/2020 ha qualificato la pandemia quale “sopravvenienza”, affermando che «nei più disparati settori, che vanno dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario, pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale dal Covid-19 stia germinando conseguenze che esondano dagli argini della congiuntura finanziaria sfavorevole; dette conseguenze finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. “eccessiva onerosità indiretta”)» [19]. La Cassazione prosegue nella Relazione sostenendo che l’art. 1467 c.c. contiene una norma dispositiva che, come tale, è derogabile, non solo dalla volontà delle parti, ma anche a monte dalle norme imperative nel cui novero si inserisce il precetto che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Secondo la Cassazione, «il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione. Impellenza, questa, che non si pone soltanto con riferimento a prestazioni concretamente inibite dalle misure di contenimento, ma anche con riguardo a scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di beni e servizi», con la conseguenza che «la risposta all’esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell’attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un’ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico». All’interno della relazione, inoltre, la Corte riconosce di essersi talvolta occupata del problema relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di modificare il contratto, senza tuttavia approdare ad una impostazione sistematica cristallizzata [20], aggiungendo altresì che l’esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune sue pronunce [21]. Tale esigenza di rinegoziazione è stata posta in luce nella giurisprudenza di merito precedente che, valorizzando il brocardo rebus sic stantibus, ha riconosciuto che le parti devono attenersi alle condizioni contrattuali dei contratti a lungo termine solo se ne restano intatti i presupposti e le condizioni di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula; con la conseguenza che, ove si ravvisi una sopravvenienza, la parte svantaggiata dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni originariamente pattuite, deve avere la possibilità di rinegoziare il contenuto del contratto, sulla scorta del dovere di buona fede oggettiva (art. 1375 c.c.) nella fase esecutiva del contratto [22]. A ciò si aggiunga che la precedente giurisprudenza di merito, recuperando l’orientamento dottrinale più sensibile all’esigenza della conservazione del contratto, sia pur modificato in ragione delle sopravvenienze, ha riconosciuto in capo al giudice, in caso di inadempimento dell’obbligo legale di rinegoziazione per buona fede del contratto squilibrato, la possibilità di «costituire con sentenza gli effetti del contratto modificativo che sarebbe risultato all’esito della rinegoziazione condotta secondo buona fede o, nell’ambito di un procedimento cautelare, condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione cui la parte sarebbe tenuta in forza della rinegoziazione, e corroborare la condanna mediante una penale giudiziale» [23]. Proseguendo secondo una trattazione analitica della giurisprudenza di merito in tema di rinegoziazione, occorre guardare alla recente pronuncia del Tribunale di Roma 27.08.2020 che ha sanzionato la violazione dell’obbligo di rinegoziazione, ordinando in via cautelare la riduzione dei canoni di locazione di un immobile adibito ad attività di ristorazione e la sospensione della fidejussione prestata a garanzia delle obbligazioni medesime, ritenendo la pandemia causa della crisi economica, qualificando la stessa quale “sopravvenienza” nel substrato giuridico che costituisce il presupposto del negozio.

4. Conclusioni

In sintesi e per concludere: posto che la pandemia Covid-19 è stata qualificata quale sopravvenienza e posta l’assenza di un effettivo obbligo normativo in materia di rinegoziazione [24], parrebbe riconoscersi l’applicazione del 1467 c.c. ai contratti di durata che hanno subito ripercussioni dall’emergenza pandemica in termini di onerosità nell’esecuzione prestazioni, seppur risulta preferibile procedere con la rinegoziazione, la cui rilevanza si sta recuperando in via interpretativa sulla base dei valori di solidarietà che muovono ogni ambito a seguito dall’emergenza sanitaria, come sostenuto dalla giurisprudenza di merito [25] e della stessa Corte di Cassazione [26]. Tuttavia, tale tematica risulta ancora controversa.

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1. L’eccessiva onerosità sopravvenuta: dottrina e giurisprudenza a confronto

La materia delle sopravvenienze è attenzionata nel nostro ordinamento all’art. 1467 c.c., rubricato «Contratto con prestazioni corrispettive»[2], ove si colloca l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La disposizione normativa ponendosi come rimedio generale contro le sopravvenienze che comportino una alterazione delle prestazioni originariamente pattuite, prevede che nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta
eccessivamente onerosa per il verificarsi di accadimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale
prestazione può domandare, in apposito giudizio, la risoluzione del contratto, purché la sopravvenuta
onerosità non rientri nell’alea normale del contratto [3].
L’eccessiva onerosità della prestazione, in conformità alla lettera della norma, si sostanzierebbe in un aumento del costo originario della prestazione, percepibile al momento dell’adempimento, di entità superiore alla normale alea contrattuale e avrebbe riguardo all’oggettivo aggravio della posizione debitoria [4]. Sul punto parte della dottrina ha ritenuto che l’eccessiva onerosità sopravvenuta debba determinare una notevole alterazione del rapporto originario delle prestazioni, a fronte di una valutazione globale dell’economia del contratto [5], per cui sussisterebbe anche in caso di eccezionale diminuzione del valore reale della controprestazione dovuta, ad esempio, alla svalutazione monetaria [6]. La Cassazione ha identificato quale criterio rilevante per stabilire l’effettiva onerosità sopravvenuta la necessità di confrontare il valore delle prestazioni al momento in cui sono sorte con quello in cui devono eseguirsi [7], sancendo altresì che al fine della risoluzione del contratto può dirsi che la prestazione dovuta da una parte è divenuta eccessivamente onerosa solo nell’ipotesi in cui, per eventi straordinari e imprevedibili, essa sia divenuta troppo gravosa per il debitore, non quando in seguito al verificarsi di tali eventi la sua esecuzione sia suscettibile di procurare al creditore vantaggi originariamente insperati [8].
Dunque, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, si deve trattare di eventi a carattere tecnico, economico e politico normativo che siano straordinari sul piano oggettivo e imprevedibili sul piano soggettivo [9].
Il concetto di straordinarietà è stato inteso dalla giurisprudenza quale avvenimento che non si ripete con frequenza e regolarità nel tempo, da valutare altresì sulla base delle dimensioni e dell’intensità [10]; il concetto di imprevedibilità, invece, è stato inteso come evento estraneo a qualsiasi ragionevolezza previsionale o di cui non si conoscono gli effetti, secondo il criterio dell’uomo comune [11], oppure se prevedibile inevitabile: quale non è una semplice «congiuntura economica sfavorevole» [12] e in ogni caso eccedente la normale alea del contratto, la quale comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni contrattuali che traggono origine dalle «regolari e normali fluttuazioni del mercato» [13]. Sul piano pratico, dunque, la prestazione eccessivamente onerosa è dovuta alla parte creditrice ma il debitore si può liberare attivando il rimedio risolutorio. Si richiama a tal proposito il noto decisum arbitrale con cui si dispose che «Non dà luogo ad impossibilità sopravvenuta, ma ad eccessività onerosità della prestazione l’anormale rialzo dei prezzi sul mercato petrolifero determinato dall’imprevedibile e straordinario evento della chiusura del canale di Suez in connessione con l’improvviso scoppio delle ostilità arabo-israeliane nel giugno 1967» [14].

2. Covid-19 ed eccessiva onerosità sopravvenuta

Parallelamente, attualizzando il decisum, si potrebbe dire, come è stato fatto, lo stesso con riferimento alla pandemia: l’emergenza sanitaria, economica e sociale innescata dalla pandemia Covid-19 ha prodotto effetti negativi sul sistema produttivo italiano non riconducibili alle “regolari fluttuazioni del mercato” o alla “congiuntura sfavorevole”, a fronte della straordinarietà e imprevedibilità della pandemia stessa [15]. Tuttavia, si è altresì sostenuto che non tutti contratti a lungo termine in corso di esecuzione sono risolvibili giudizialmente per eccessiva onerosità sopravvenuta connessa alla pandemia, in quanto per orientamento costante «la questione dell’applicabilità ad un determinato contratto dell’intera disciplina dell’art. 1467 c.c. sulla onerosità sopravvenuta deve essere risolta dal giudice con specifico riferimento al caso concreto ed all’azione effettivamente proposta, dovendosi, a tal fine, considerare non solo la natura e la struttura del contratto sulla cui risoluzione si controverta ma anche le modalità ed i tempi di adempimento delle reciproche prestazioni connesse al contratto stesso; la decisione circa la sopravvenienza e la sussistenza dell’eccessiva onerosità esige, peraltro, la risoluzione della questione della proponibilità della domanda cui è legittimato quello dei contraenti la cui prestazione sia ancora dovuta, quando questa sia divenuta eccessivamente onerosa o quando la prestazione dallo stesso contraente attesa si sia eccessivamente svilita in modo da alterare l’equilibrio economico raggiunto dalle parti al momento della conclusione del contratto» [16].
Pertanto, con riferimento al singolo contratto commerciale a lungo termine, la pandemia potrebbe essere considera una sopravvenienza che, soddisfacendo i requisiti di straordinarietà ed imprevedibilità e sopravvenuta eccessiva onerosità, legittimerebbe la parte pregiudicata a richiedere la risoluzione giudiziale del contratto squilibrato. Tale scenario si manifesterebbe, a titolo esemplificativo, con riferimento a quei contratti a lungo termine aventi ad oggetto materie prime i cui prezzi hanno subito e stanno subendo a causa della pandemia discese o innalzamenti di carattere eccezionale (filiera produttiva dei settori dell’energia, degli alimentari, della sanità, del turismo, dei trasporti e dei mezzi di trasporto) [17]. Nonostante la centralità che assume, il rimedio risolutorio presenta un limite intrinseco, ossia l’essere finalizzato alla cancellazione, piuttosto che alla conservazione, del contratto squilibrato, il che risulta in contrasto con l’intensità della relazione che connota i contratti commerciali a lungo termine. Infatti, appare plausibile che la parte pregiudicata dall’aggravamento per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai giorni nostri determinata dalla pandemia, potrebbe avere interesse non a richiedere la risoluzione giudiziaria del contratto ma a riequilibrare le prestazioni contrattuali. La conservazione del contratto, tuttavia, viene garantita sul piano normativo al comma 3 dell’art. 1467 e, anche per orientamento costante della Suprema Corte, può essere invocata solo dalla parte avvantaggiata dall’eccessiva onerosità: «Nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite» [18].

3. La Relazione n. 56/2020 della Suprema Corte

In tale contesto occorre richiamare la posizione assunta dalla Suprema Corte che con la Relazione n. 56/2020 ha qualificato la pandemia quale “sopravvenienza”, affermando che «nei più disparati settori, che vanno dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario, pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale dal Covid-19 stia germinando conseguenze che esondano dagli argini della congiuntura finanziaria sfavorevole; dette conseguenze finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. “eccessiva onerosità indiretta”)» [19]. La Cassazione prosegue nella Relazione sostenendo che l’art. 1467 c.c. contiene una norma dispositiva che, come tale, è derogabile, non solo dalla volontà delle parti, ma anche a monte dalle norme imperative nel cui novero si inserisce il precetto che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Secondo la Cassazione, «il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione. Impellenza, questa, che non si pone soltanto con riferimento a prestazioni concretamente inibite dalle misure di contenimento, ma anche con riguardo a scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di beni e servizi», con la conseguenza che «la risposta all’esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell’attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un’ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico». All’interno della relazione, inoltre, la Corte riconosce di essersi talvolta occupata del problema relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di modificare il contratto, senza tuttavia approdare ad una impostazione sistematica cristallizzata [20], aggiungendo altresì che l’esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune sue pronunce [21]. Tale esigenza di rinegoziazione è stata posta in luce nella giurisprudenza di merito precedente che, valorizzando il brocardo rebus sic stantibus, ha riconosciuto che le parti devono attenersi alle condizioni contrattuali dei contratti a lungo termine solo se ne restano intatti i presupposti e le condizioni di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula; con la conseguenza che, ove si ravvisi una sopravvenienza, la parte svantaggiata dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni originariamente pattuite, deve avere la possibilità di rinegoziare il contenuto del contratto, sulla scorta del dovere di buona fede oggettiva (art. 1375 c.c.) nella fase esecutiva del contratto [22]. A ciò si aggiunga che la precedente giurisprudenza di merito, recuperando l’orientamento dottrinale più sensibile all’esigenza della conservazione del contratto, sia pur modificato in ragione delle sopravvenienze, ha riconosciuto in capo al giudice, in caso di inadempimento dell’obbligo legale di rinegoziazione per buona fede del contratto squilibrato, la possibilità di «costituire con sentenza gli effetti del contratto modificativo che sarebbe risultato all’esito della rinegoziazione condotta secondo buona fede o, nell’ambito di un procedimento cautelare, condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione cui la parte sarebbe tenuta in forza della rinegoziazione, e corroborare la condanna mediante una penale giudiziale» [23]. Proseguendo secondo una trattazione analitica della giurisprudenza di merito in tema di rinegoziazione, occorre guardare alla recente pronuncia del Tribunale di Roma 27.08.2020 che ha sanzionato la violazione dell’obbligo di rinegoziazione, ordinando in via cautelare la riduzione dei canoni di locazione di un immobile adibito ad attività di ristorazione e la sospensione della fidejussione prestata a garanzia delle obbligazioni medesime, ritenendo la pandemia causa della crisi economica, qualificando la stessa quale “sopravvenienza” nel substrato giuridico che costituisce il presupposto del negozio.

4. Conclusioni

In sintesi e per concludere: posto che la pandemia Covid-19 è stata qualificata quale sopravvenienza e posta l’assenza di un effettivo obbligo normativo in materia di rinegoziazione [24], parrebbe riconoscersi l’applicazione del 1467 c.c. ai contratti di durata che hanno subito ripercussioni dall’emergenza pandemica in termini di onerosità nell’esecuzione prestazioni, seppur risulta preferibile procedere con la rinegoziazione, la cui rilevanza si sta recuperando in via interpretativa sulla base dei valori di solidarietà che muovono ogni ambito a seguito dall’emergenza sanitaria, come sostenuto dalla giurisprudenza di merito [25] e della stessa Corte di Cassazione [26]. Tuttavia, tale tematica risulta ancora controversa.

Note

1 Sui temi giuridici sollevati durante la fase pandemica in materia di contratti si veda MACARIO, Sopravvenienze e rimedi al tempo del “coronavirus”: interesse individuale e solidarietà, in Contratti, 2020, 129 ss.
2 La norma così dispone: «Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto».
3 Art. 1467 co. 2 c.c.
4 GAMBINO, Eccessiva onerosità della prestazione, in RDCo, 1960, I, 425.
5 VESSICHELLI, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, in Giur. Sist. Bigiavi, Torino, 1991, 972).
6 Sacco – De Nova, Il Contratto, II, Torino, 1993, 998.
7 Cass. 5302/1998.
8 Cass. 12235/2007; Cass. 3296/2002; Cass. 1559\1995. In dottrina nel medesimo senso BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Miano, 2012, 415-416.
9 Cass. 22396/2006: «L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell’art. 1467 cod. civ., la risoluzione del contratto richiede la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, dall’altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza. L’accertamento del giudice di merito circa la sussistenza dei caratteri evidenziati è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi». Nello stesso senso Cass. 12235/2007; Cass. 2661/2001.
10 Trib. Roma 10 gennaio 2012.
11  Trib. Bologna 13 ottobre 2010.
12  Trib. Roma 13 dicembre 2011.
13 Trib. Firenze 26 ottobre 2016; Cass, 9263/2011; Cass. 11200/2003.
14 Coll. arb. 26 gennaio 1971. Il decisum è stato richiamato in dottrina, attualizzandolo e rapportandolo all’era del Covid, con riferimento all’anormale ribasso del prezzo del petrolio e dei prodotti petroliferi, e dunque si potrebbe dire il rialzo delle altre materie. Sul punto si veda DI COSIMO – DI BITONTO, cit., 361 ss.
15 Ibidem.
16 Cass. 1197/2003; App. Roma 28 giugno 2010.
17 DI COSIMO – DI BITONTO, I contratti commerciali resilienti nell’era Covid-19: tra codice civile e clausole di gestione delle “sopravvenienze”, in Contratti, 2020, 3, 361.
18 Cass. 2047/2018.
19 Cass., Ufficio Massimario, Rel n. 56/2020.
20 La Cassazione provvede in nota a citare pronunce di merito tra loro contrastanto Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano 9 gennaio 1997, in Riv. arbitrato, 1999, 67, esclude la possibilità per il giudice di adeguare le prestazioni; Trib. Pescara 24 gennaio 1997, in Foro it., 1998, I, 613, esclude l’obbligo in capo a una banca di ricondurre i mutui alle condizioni originarie; Trib. Roma 6 giugno 2005, in Dir. prat. soc., 2005, 75, anch’essa in tema di rinegoziazione di mutui bancari; Trib. Bari, ord., 14 giugno 2011, in Contratti, 2012, 571, sanziona il “rifiuto di adeguare il contratto” e fa riferimento all’”esecuzione coattiva dell’obbligo di adeguamento”; Trib. Bari, ord., 31 luglio 2012, in Nuova giur. civ. Comm., 2013, 117.
21 Cass. n. 3775/1994; Cass. 2855/2005.
22 Trib. Bari 31 luglio 2012; DI COSIMO – DI BITONTO, cit., 361 ss.
23 Trib. Bari 14 giugno 2011.
24 Sul punto occorre richiamare il d.d.l. Senato n. 1151, recante la Delega al Governo per la revisione del codice civile: il disegno prevederebbe l’attribuzione all’Esecutivo del potere di integrare e modificare il codice civile positivizzando il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in mancanza, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti. Per una completa e critica panoramica si veda tra gli altri MONTI, Il Covid e il revival dell’obbligo di rinegoziazione, in Danno e resp., 2020, 5, 587 ss.
25 Trib. Milano 8 aprile 2020, n. 2319: «Violazione dell’obbligo di rinegoziazione del contratto. Per quanto attiene a tale profilo, deve precisarsi che l’obbligo di rinegoziazione di un contratto già stipulato sorge qualora le condizioni originariamente esistenti siano improvvisamente mutate e che tale mutamento abbia determinato una sproporzione che renda più onerosa l’esecuzione della prestazione. Tale obbligo, laddove non sia stato previsto dalle parti, deriva dal generale precetto di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), inteso come fonte di obblighi autonomi e strumentali alla corretta esecuzione dell’accordo negoziale, l’inadempimento dei quali determina responsabilità contrattuale»; Trib. Roma, ord., 27 agosto 2020: «si ritiene che, pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell’antico brocardo rebus sic stantibus, debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.)».
26 Relazione tematica n. 56 dell’8 luglio 2020, cit., che come detto ha ravvisato nella buona fede la fonte dell’obbligo legale di rinegoziazione, ha esplicitato il contenuto di tale obbligo e, a determinate condizioni, ne ha ammessa anche la coercibilità ex art. 2932 c.c.