1. L’eccessiva onerosità sopravvenuta: dottrina e giurisprudenza a confronto
La materia delle sopravvenienze è attenzionata nel nostro ordinamento all’art. 1467 c.c., rubricato «Contratto con prestazioni corrispettive»[2], ove si colloca l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La disposizione normativa ponendosi come rimedio generale contro le sopravvenienze che comportino una alterazione delle prestazioni originariamente pattuite, prevede che nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta
eccessivamente onerosa per il verificarsi di accadimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale
prestazione può domandare, in apposito giudizio, la risoluzione del contratto, purché la sopravvenuta
onerosità non rientri nell’alea normale del contratto [3].
L’eccessiva onerosità della prestazione, in conformità alla lettera della norma, si sostanzierebbe in un aumento del costo originario della prestazione, percepibile al momento dell’adempimento, di entità superiore alla normale alea contrattuale e avrebbe riguardo all’oggettivo aggravio della posizione debitoria [4]. Sul punto parte della dottrina ha ritenuto che l’eccessiva onerosità sopravvenuta debba determinare una notevole alterazione del rapporto originario delle prestazioni, a fronte di una valutazione globale dell’economia del contratto [5], per cui sussisterebbe anche in caso di eccezionale diminuzione del valore reale della controprestazione dovuta, ad esempio, alla svalutazione monetaria [6]. La Cassazione ha identificato quale criterio rilevante per stabilire l’effettiva onerosità sopravvenuta la necessità di confrontare il valore delle prestazioni al momento in cui sono sorte con quello in cui devono eseguirsi [7], sancendo altresì che al fine della risoluzione del contratto può dirsi che la prestazione dovuta da una parte è divenuta eccessivamente onerosa solo nell’ipotesi in cui, per eventi straordinari e imprevedibili, essa sia divenuta troppo gravosa per il debitore, non quando in seguito al verificarsi di tali eventi la sua esecuzione sia suscettibile di procurare al creditore vantaggi originariamente insperati [8].
Dunque, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, si deve trattare di eventi a carattere tecnico, economico e politico normativo che siano straordinari sul piano oggettivo e imprevedibili sul piano soggettivo [9].
Il concetto di straordinarietà è stato inteso dalla giurisprudenza quale avvenimento che non si ripete con frequenza e regolarità nel tempo, da valutare altresì sulla base delle dimensioni e dell’intensità [10]; il concetto di imprevedibilità, invece, è stato inteso come evento estraneo a qualsiasi ragionevolezza previsionale o di cui non si conoscono gli effetti, secondo il criterio dell’uomo comune [11], oppure se prevedibile inevitabile: quale non è una semplice «congiuntura economica sfavorevole» [12] e in ogni caso eccedente la normale alea del contratto, la quale comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni contrattuali che traggono origine dalle «regolari e normali fluttuazioni del mercato» [13]. Sul piano pratico, dunque, la prestazione eccessivamente onerosa è dovuta alla parte creditrice ma il debitore si può liberare attivando il rimedio risolutorio. Si richiama a tal proposito il noto decisum arbitrale con cui si dispose che «Non dà luogo ad impossibilità sopravvenuta, ma ad eccessività onerosità della prestazione l’anormale rialzo dei prezzi sul mercato petrolifero determinato dall’imprevedibile e straordinario evento della chiusura del canale di Suez in connessione con l’improvviso scoppio delle ostilità arabo-israeliane nel giugno 1967» [14].
2. Covid-19 ed eccessiva onerosità sopravvenuta
Parallelamente, attualizzando il decisum, si potrebbe dire, come è stato fatto, lo stesso con riferimento alla pandemia: l’emergenza sanitaria, economica e sociale innescata dalla pandemia Covid-19 ha prodotto effetti negativi sul sistema produttivo italiano non riconducibili alle “regolari fluttuazioni del mercato” o alla “congiuntura sfavorevole”, a fronte della straordinarietà e imprevedibilità della pandemia stessa [15]. Tuttavia, si è altresì sostenuto che non tutti contratti a lungo termine in corso di esecuzione sono risolvibili giudizialmente per eccessiva onerosità sopravvenuta connessa alla pandemia, in quanto per orientamento costante «la questione dell’applicabilità ad un determinato contratto dell’intera disciplina dell’art. 1467 c.c. sulla onerosità sopravvenuta deve essere risolta dal giudice con specifico riferimento al caso concreto ed all’azione effettivamente proposta, dovendosi, a tal fine, considerare non solo la natura e la struttura del contratto sulla cui risoluzione si controverta ma anche le modalità ed i tempi di adempimento delle reciproche prestazioni connesse al contratto stesso; la decisione circa la sopravvenienza e la sussistenza dell’eccessiva onerosità esige, peraltro, la risoluzione della questione della proponibilità della domanda cui è legittimato quello dei contraenti la cui prestazione sia ancora dovuta, quando questa sia divenuta eccessivamente onerosa o quando la prestazione dallo stesso contraente attesa si sia eccessivamente svilita in modo da alterare l’equilibrio economico raggiunto dalle parti al momento della conclusione del contratto» [16].
Pertanto, con riferimento al singolo contratto commerciale a lungo termine, la pandemia potrebbe essere considera una sopravvenienza che, soddisfacendo i requisiti di straordinarietà ed imprevedibilità e sopravvenuta eccessiva onerosità, legittimerebbe la parte pregiudicata a richiedere la risoluzione giudiziale del contratto squilibrato. Tale scenario si manifesterebbe, a titolo esemplificativo, con riferimento a quei contratti a lungo termine aventi ad oggetto materie prime i cui prezzi hanno subito e stanno subendo a causa della pandemia discese o innalzamenti di carattere eccezionale (filiera produttiva dei settori dell’energia, degli alimentari, della sanità, del turismo, dei trasporti e dei mezzi di trasporto) [17]. Nonostante la centralità che assume, il rimedio risolutorio presenta un limite intrinseco, ossia l’essere finalizzato alla cancellazione, piuttosto che alla conservazione, del contratto squilibrato, il che risulta in contrasto con l’intensità della relazione che connota i contratti commerciali a lungo termine. Infatti, appare plausibile che la parte pregiudicata dall’aggravamento per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai giorni nostri determinata dalla pandemia, potrebbe avere interesse non a richiedere la risoluzione giudiziaria del contratto ma a riequilibrare le prestazioni contrattuali. La conservazione del contratto, tuttavia, viene garantita sul piano normativo al comma 3 dell’art. 1467 e, anche per orientamento costante della Suprema Corte, può essere invocata solo dalla parte avvantaggiata dall’eccessiva onerosità: «Nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite» [18].
3. La Relazione n. 56/2020 della Suprema Corte
In tale contesto occorre richiamare la posizione assunta dalla Suprema Corte che con la Relazione n. 56/2020 ha qualificato la pandemia quale “sopravvenienza”, affermando che «nei più disparati settori, che vanno dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario, pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale dal Covid-19 stia germinando conseguenze che esondano dagli argini della congiuntura finanziaria sfavorevole; dette conseguenze finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. “eccessiva onerosità indiretta”)» [19]. La Cassazione prosegue nella Relazione sostenendo che l’art. 1467 c.c. contiene una norma dispositiva che, come tale, è derogabile, non solo dalla volontà delle parti, ma anche a monte dalle norme imperative nel cui novero si inserisce il precetto che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Secondo la Cassazione, «il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione. Impellenza, questa, che non si pone soltanto con riferimento a prestazioni concretamente inibite dalle misure di contenimento, ma anche con riguardo a scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di beni e servizi», con la conseguenza che «la risposta all’esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell’attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un’ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico». All’interno della relazione, inoltre, la Corte riconosce di essersi talvolta occupata del problema relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di modificare il contratto, senza tuttavia approdare ad una impostazione sistematica cristallizzata [20], aggiungendo altresì che l’esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune sue pronunce [21]. Tale esigenza di rinegoziazione è stata posta in luce nella giurisprudenza di merito precedente che, valorizzando il brocardo rebus sic stantibus, ha riconosciuto che le parti devono attenersi alle condizioni contrattuali dei contratti a lungo termine solo se ne restano intatti i presupposti e le condizioni di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula; con la conseguenza che, ove si ravvisi una sopravvenienza, la parte svantaggiata dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni originariamente pattuite, deve avere la possibilità di rinegoziare il contenuto del contratto, sulla scorta del dovere di buona fede oggettiva (art. 1375 c.c.) nella fase esecutiva del contratto [22]. A ciò si aggiunga che la precedente giurisprudenza di merito, recuperando l’orientamento dottrinale più sensibile all’esigenza della conservazione del contratto, sia pur modificato in ragione delle sopravvenienze, ha riconosciuto in capo al giudice, in caso di inadempimento dell’obbligo legale di rinegoziazione per buona fede del contratto squilibrato, la possibilità di «costituire con sentenza gli effetti del contratto modificativo che sarebbe risultato all’esito della rinegoziazione condotta secondo buona fede o, nell’ambito di un procedimento cautelare, condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione cui la parte sarebbe tenuta in forza della rinegoziazione, e corroborare la condanna mediante una penale giudiziale» [23]. Proseguendo secondo una trattazione analitica della giurisprudenza di merito in tema di rinegoziazione, occorre guardare alla recente pronuncia del Tribunale di Roma 27.08.2020 che ha sanzionato la violazione dell’obbligo di rinegoziazione, ordinando in via cautelare la riduzione dei canoni di locazione di un immobile adibito ad attività di ristorazione e la sospensione della fidejussione prestata a garanzia delle obbligazioni medesime, ritenendo la pandemia causa della crisi economica, qualificando la stessa quale “sopravvenienza” nel substrato giuridico che costituisce il presupposto del negozio.
4. Conclusioni
In sintesi e per concludere: posto che la pandemia Covid-19 è stata qualificata quale sopravvenienza e posta l’assenza di un effettivo obbligo normativo in materia di rinegoziazione [24], parrebbe riconoscersi l’applicazione del 1467 c.c. ai contratti di durata che hanno subito ripercussioni dall’emergenza pandemica in termini di onerosità nell’esecuzione prestazioni, seppur risulta preferibile procedere con la rinegoziazione, la cui rilevanza si sta recuperando in via interpretativa sulla base dei valori di solidarietà che muovono ogni ambito a seguito dall’emergenza sanitaria, come sostenuto dalla giurisprudenza di merito [25] e della stessa Corte di Cassazione [26]. Tuttavia, tale tematica risulta ancora controversa.