Premessa:
Quando un contratto può dirsi concluso?
La risposta a siffatto interrogativo potrebbe apparire prima facie banale: il nostro Codice Civile dispone espressamente, all’art. 1326, comma 1, cod. civ, la regola generale per cui “il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte”.
Incontro tra proposta e accettazione, dunque. Pensando alle più comuni contrattazioni quotidiane, il meccanismo è intuitivo e non pone particolari problemi ermeneutici (ad esempio, l’acquisto di un giornale si perfeziona nel momento in cui l’edicolante acconsente alla richiesta in tal senso da parte dell’acquirente).
Quid iuris, tuttavia, nei casi in cui l’affare risulti particolarmente complesso, nella struttura e nel contenuto, sì da necessitare l’accordo delle parti su molteplici elementi? Si pensi alla compravendita di un bene immobile, o di partecipazioni societarie, in cui il fulcro dell’operazione consiste nel trasferimento della proprietà di detti beni a fronte della corresponsione di una certa somma di denaro, e in cui, tuttavia, l’accordo su tale “nucleo fondamentale” si accompagna a quello su una serie di altri elementi che gravitano attorno ad esso (ad esempio, le modalità di liberazione del bene da eventuali garanzie reali costituite a favore di terzi, i meccanismi di aggiustamento del prezzo, le modalità di corresponsione del prezzo medesimo).
In tali casi, l’interrogativo da cui si sono prese le mosse acquista pieno vigore: il contratto può dirsi concluso solo quando l’accordo sia intervenuto su tutti gli elementi propri del negozio? Oppure, è sufficiente il raggiungimento dell’intesa sul predetto “nucleo fondamentale”, salva la possibilità di integrare il contratto in un momento successivo?
Il tema è tutt’altro che irrilevante. Come è noto, il contratto costituisce una fonte delle obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 cod. civ., sì che la comprensione dei meccanismi che determinano l’insorgere dell’obbligazione stessa è di sicuro interesse per il contraente, che certamente vorrà evitare di ritrovarsi legato in un vincolo contrattuale senza aver maturato piena convinzione circa la convenienza dell’affare. Si pensi al caso del contratto di compravendita: se il contratto si perfezionasse a seguito del solo accordo sul bene oggetto di trasferimento e sul relativo prezzo, potrebbe frustrarsi la posizione del contraente per cui, in ipotesi, la modalità di versamento del prezzo fosse un elemento determinante del proprio consenso. La parte si ritroverebbe così legata in un vincolo contrattuale del quale non aveva valutato compiutamente l’opportunità, solo per aver manifestato il proprio consenso circa gli elementi essenziali del tipo negoziale (il bene da trasferirsi e l’ammontare del prezzo da corrispondersi).
D’altro lato, è intuitivo che non sarebbe ragionevole consentire ad un contraente di opporre all’altro l’assenza di accordo circa un qualsivoglia secondario elemento del negozio, al fine di sostenere il mancato perfezionamento del contratto (e di sottrarsi così all’adempimento delle relative obbligazioni). Ciò, anzi, contrasterebbe inevitabilmente con i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., immanenti al nostro Ordinamento giuridico.
La risposta al nostro interrogativo deve allora essere indagata alla luce dei diversi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che si sono formati sul tema, al fine di individuare una soluzione che possa portare risultati soddisfacenti quando applicati al caso concreto, e che fughi il rischio di eventuali condotte strumentali e contrarie ai predetti canoni di correttezza e buona fede.
I. La proposta contrattuale
Prima di tutto, però, occorre affrontare brevemente una questione preliminare, afferente alla proposta contrattuale e al suo contenuto. Se è vero, come si è visto, che l’accordo è normalmente raggiunto tramite accettazione di una proposta, bisogna allora in primo luogo interrogarsi su quale sia il contenuto di una valida proposta contrattuale, che sia suscettibile di essere accettata dall’altro contraente e dar luce al vincolo negoziale.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, concordemente con autorevole dottrina, ha costantemente affermato che la proposta deve innanzitutto essere completa, nel senso che deve includere tutti gli elementi essenziali del tipo contrattuale cui si riferisce (1). In secondo luogo, la Suprema Corte ha precisato che la proposta deve in ogni caso esprimere la volontà univoca del contraente di impegnarsi contrattualmente alle condizioni ivi indicate (2), sì che la proposta medesima “non deve essere accompagnata da riserve sul suo carattere attualmente impegnativo” (3).
Ove rispetti tali condizioni, dunque, la proposta contrattuale sarà idonea ad essere “puramente e semplicemente” accettata, così soddisfacendo la precondizione necessaria alla conclusione del contratto.
II. La formazione progressiva del contratto
Sgomberato il campo d’indagine dalla questione preliminare brevemente esaminata, è possibile affrontare compiutamente il nostro interrogativo fondamentale: quando un contratto può dirsi concluso?
Come anticipato in premessa, il quesito è di non immediata soluzione nel caso di trattative complesse. Come osservato da alcuna dottrina, infatti, nonostante il citato art. 1326 cod. civ. canonizzi un accordo formatosi in via istantanea (4), spesso accade che la formazione del contratto sia invece progressiva, ossia si realizzi “attraverso un’interazione continua delle parti, fatta di discussioni e ipotesi, richieste e offerte, concessioni e rifiuti sui diversi punti del contratto in itinere: una serie più o meno lunga di passaggi che le parti percorrono insieme prima di arrivare alla conclusione del contratto. La formazione progressiva del contratto è caratterizzata dal determinarsi, man mano che la trattativa procede, di accordi su alcuni punti del contratto, mentre su altri punti l’accordo non c’è ancora” (5).
Se così è, il nostro interrogativo diviene più specifico: si tratta di comprendere, nell’ambito della formazione progressiva di un contratto e a fronte di una serie di accordi parziali e successivi, quando si raggiunga l’accordo “necessario e sufficiente” per poter ritenere il contratto finalmente concluso e vincolante.
In proposito, è ad ogni modo pacifico che, ove il suddetto accordo “necessario e sufficiente” non possa ritenersi raggiunto, il documento eventualmente predisposto dalle parti incorporante gli accordi raggiunti su alcuni degli elementi del contratto in via di formazione costituirà (non la formalizzazione di un contratto, ma) una mera c.d. “minuta” (o “puntuazione”), la quale non ha valore vincolante e può rilevare, al più, ai soli fini probatori di una eventuale responsabilità pre-contrattuale ai sensi dell’art. 1337 cod. civ. (6).
Ciò precisato, come anticipato in premessa, la questione è annosa e non scevra da incertezze. In particolare, si registrano in proposito tre diversi orientamenti. Segnatamente:
(i) Secondo un primo (e più risalente) orientamento, il contratto dovrebbe ritenersi concluso allorquando sia intervenuto l’accordo sul “contenuto minimo (ossia, sugli elementi essenziali)” dello stesso (7). Secondo i fautori di questo orientamento, gli elementi secondari non oggetto di accordo istantaneo potrebbero essere individuati attraverso criteri di integrazione extra-convenzionali, ovvero essere successivamente discussi tra le parti (8). Tuttavia, siffatta impostazione è stata criticata proprio perché, da un lato, “non sempre è possibile sopperire alle lacune regolamentari facendo riferimento a fonti esterne” (9) e, d’altro lato, la distinzione tra elementi essenziali e accessori del contratto (10) “può risultare, nel caso concreto, poco aderente alla realtà: un aspetto apparentemente secondario potrebbe, infatti, assumere una rilevanza primaria per quei contraenti” (11).
(ii) Secondo altro orientamento, che si colloca agli antipodi rispetto al primo, il contratto dovrebbe ritenersi concluso solamente in seguito al raggiungimento dell’accordo su tutti gli elementi del contratto medesimo, senza che dunque possa o debba operarsi alcuna distinzione tra elementi essenziali o principali ed elementi accessori o secondari (12). Le critiche mosse a questo orientamento sono state nel senso di considerarlo eccessivamente formalistico: “in alcuni casi, invero, potrebbe risultare esageratamente rigoroso richiedere, ai fini della conclusione del contratto, la sussistenza di tutti i suoi elementi (anche di quelli scarsamente rilevanti), ben potendo ricorrere l’eventualità che le parti abbiano inteso comunque vincolarsi, pur non avendo disciplinato tutte le circostanze del futuro rapporto, ma solo quelle che ritengono indispensabili” (13).
(iii) Infine, secondo un terzo orientamento (che vuole rappresentare il contemperamento tra i due estremi), “ai fini della conclusione del contratto, occorre che l’accordo sia totale, cioè che le parti abbiano raggiunto un’intesa su tutti i suoi elementi, ad eccezione del caso in cui le stesse abbiano espressamente manifestato la volontà di costituire il vincolo e, quindi, di impegnarsi, rimandando ad un momento successivo la definizione dei punti ancora controversi” (14). Un orientamento che dunque fa leva sulla necessità di accertare, caso per caso, l’effettiva volontà delle parti, e che appare oggi maggioritario, in quanto condiviso da autorevole dottrina (15) e da recente giurisprudenza di legittimità (16).
III. Considerazioni conclusive
All’esito della rassegna effettuata, pare a chi scrive che l’orientamento più condivisibile sia quello da ultimo richiamato, e ciò non solo perché condiviso dalla dottrina e dalla giurisprudenza più recenti, ma, ancor prima, per la correttezza dell’impostazione di indagine seguita dai fautori dell’orientamento medesimo.
Questo, infatti, differisce dai primi due in ciò, che i precedenti fanno dipendere la conclusione del contratto dall’elemento contenutistico (i.e. dal raggiungimento dell’accordo sui soli elementi essenziali, ovvero su tutti gli elementi del contratto), mentre l’orientamento da ultimo considerato conferisce rilievo determinante, per contro, all’animus contrahendi delle parti. Il criterio fondamentale per valutare la perfezione del contratto è quindi individuato nella effettiva volontà dei paciscenti – i quali, dunque, ben potrebbero manifestare la volontà di ritenere concluso un contratto non definito in tutti i suoi elementi – la quale dovrà essere indagata e accertata caso per caso.
L’impostazione di indagine così adottata consente di abolire un criterio meramente formale (l’elemento contenutistico), che porta con sé il rischio di un risultato insoddisfacente nel caso concreto, e di rimettere la risposta al nostro interrogativo direttamente a coloro che il contratto hanno (forse) stipulato: le parti. L’indagine sulla volontà dalle stesse effettivamente manifestata permette infatti di effettuare una valutazione aderente al caso concreto e, al contempo, pienamente rispondente a diritto, poiché, per ricostruire la volontà manifestata dai paciscenti, sarà doveroso attenersi ai criteri ermeneutici previsti dal nostro Ordinamento agli artt. 1362 e ss. cod. civ. (17).
D’altronde, la primaria rilevanza dell’effettiva volontà dei contraenti era già emersa quando si è brevemente discusso (cfr. par. I) il contenuto necessario della proposta contrattuale (dalla quale, si è visto, deve emergere univocamente la volontà del proponente di impegnarsi contrattualmente alle condizioni indicate nella proposta medesima).
In conclusione, la risposta più corretta al nostro interrogativo (quando un contratto può dirsi concluso?) pare essere: quando le parti hanno voluto concluderlo. Lungi dal costituire tautologia (come pur potrebbe apparire), infatti, tale risposta soddisfa quella che è “la vera ratio decidendi” risolutiva del nostro interrogativo, ossia il “rispetto della volontà comune delle parti” (18), da ricostruirsi alla luce dei canoni ermeneutici previsti dal nostro Ordinamento.