Il bilanciamento tra il principio di pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali e la tutela dei dati personali. Il diritto all’anonimizzazione dei dati giudiziari

Articolo a cura dell’Avv. Anna Adele Giancristofaro

La questione oggetto del presente articolo verte tutta sul difficile bilanciamento tra la pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali, nella specie i decreti, le ordinanze e le sentenze ed il diritto alla riservatezza di ogni persona.
Come è ben noto, con l’avvento dell’era digitale, la sfera intima e privata di ogni essere umano è stata, sovente, violata e poco tutelata, poiché messa in pasto all’opinione pubblica. Al riguardo, dopo una breve analisi circa evoluzione normativa del trattamento dei dati personali nelle attività giurisdizionali si analizzeranno nel dettaglio gli artt. 51 e 52 del Codice privacy, alla luce del Regolamento UE 679/2016. Ci si soffermerà, in particolare, sullo strumento – nella specie il diritto all’anonimizzazione – che l’ordinamento giuridico mette a disposizione del soggetto interessato al fine di preservare i propri dati identificativi contenuti in un provvedimento giudiziario.
Si analizzeranno, infine, i rimedi esperibili avverso il mancato ottenimento dell’oscuramento dei dati personali.

Dati personali pubblicità

1. L’evoluzione normativa del trattamento dei dati personali nelle attività giurisdizionali fino all’emanazione del GDPR

La legge 31 dicembre 1996 n. 675 intitolata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” non conteneva una disciplina specifica riferita al trattamento dei dati personali in ambito giudiziario.
Infatti, ad una prima lettura degli articoli in essa contenuti si può notare che l’ art. 4 rubricato “Particolari trattamenti in ambito pubblico” affermava ai punti c) e d) che “la presente legge non si applicasse al trattamento di dati personali effettuato “nell’ambito del servizio del casellario giudiziale di cui al titolo IV del libro decimo del codice di procedura penale e al regio decreto 18 giugno 1931, n. 778, e successive modificazioni, o, in base alla legge, nell´ambito del servizio dei carichi pendenti nella materia penale ed in attuazione dell´articolo 371-bis, comma 3, del codice di procedura penale o, per ragioni di giustizia, nell’ambito di uffici giudiziari, del Consiglio superiore della magistratura e del Ministero di grazia e giustizia”.
Tuttavia, la locuzione contenuta in detta norma “per ragioni di giustizia”, era incerta e lacunosa nella sua definizione e, pertanto, lasciava il dubbio se la suddetta disciplina fosse applicabile anche ai trattamenti di dati effettuati dalla magistratura nell’esercizio della funzione giudiziaria.
Successivamente, il d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (c.d. Codice privacy) si è occupato della protezione dei dati personali nell’ambito del trattamento di dati effettuato per ragioni di giustizia agli artt. 46 e 47 e proprio all’ art. 47, 2° co.  ha dato una definizione della locuzione “per ragioni di giustizia”.
Infatti, secondo la lettera della norma, “si intendono effettuati per ragioni di giustizia i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie, o che, in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, hanno una diretta incidenza sulla funzione giurisdizionale, nonché le attività ispettive su uffici giudiziari. Le medesime ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi o strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla predetta trattazione”.
Tuttavia, l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati – avente diretta applicabilità negli Stati membri – ha reso necessario l’adeguamento del vigente Codice privacy.
A tal proposito, il legislatore nazionale, con il d.lgsl. 10 agosto 2018, n. 101, ha provveduto ad una complessiva riscrittura del Codice privacy, abrogando le disposizioni incompatibili e adeguando il restante testo al contenuto del regolamento, attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle previgenti.
Nella specie, si è assistiti all’abrogazione degli artt. 46 e 47 ed il relativo contenuto è stato trasposto nell’ art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, il quale stabilisce che in tale materia “i diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti”. Il 4° co. precisa, poi, che i trattamenti effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli “correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie”, nonché “i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti”.

2. Il bilanciamento tra il principio di pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali e la tutela dei dati personali in essa contenuti. L’anonimizzazione dei dati identificativi

Com’è ben noto, le sentenze sono pubbliche poiché “emesse nel nome del popolo” ed ai sensi dell’ art. 101 della Costituzione, nel nome del popolo è amministrata la giustizia.
Al riguardo, è opportuno ricordare che, in linea generale, vige il principio della libera conoscibilità dei provvedimenti giudiziari e, quindi, della loro pubblicità.
Tale pubblicità, però, va in conflitto con l’esigenza di tutela della vita personale, soprattutto quando vengono trattati temi molto sensibili come la famiglia, i minori, la vita sessuale, l’origine etnica e razziale e altro.
Bisogna prestare molta attenzione quando vengono in rilievo temi così delicati e, pertanto, risulta necessario effettuare un bilanciamento tra il principio di pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali e la tutela dei dati personali in essa contenuti.
Infatti, se da un lato, come afferma il Garante privacy nelle Linee Guida del 2 dicembre 2010, “la diffusione dei provvedimenti giurisdizionali costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini all’esercizio del potere giurisdizionale”, dall’altro tale diffusione non può danneggiare il diritto alla privacy dei soggetti coinvolti in quel provvedimento.
Pertanto, il necessario bilanciamento di cui sopra va effettuato alla luce degli artt. 51 e 52 del d.lgsl. 30 giugno 2003 n. 196 e s.m.i. che disciplinano la c.d. “informatica giuridica”, nelle versioni vigenti a seguito dell’entrata in vigore del GDPR ed all’esito delle modifiche introdotte dal d.lgsl. 101/2018.

Cominciamo con l’analizzare il contenuto dell’art. 51.
L’art. 51, che ha ad oggetto la diffusione dei provvedimenti giudiziari, al 2° co., afferma che “Le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo”(1).
Stando alla lettera della suddetta norma, dunque, le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso Internet, nel loro testo integrale, salvo quanto previsto dall’art. 52 commi da 1 a 6.
L’art. 52, infatti, si pone quale norma derogatoria rispetto alla disciplina generale in tema di libera conoscibilità dei provvedimenti giudiziari.
Tale articolo, nello specifico, definisce i casi nei quali i soggetti interessati possono richiedere l’oscuramento dei propri dati identificativi, garantendo loro, quindi il diritto all’anonimizzazione.
Il primo caso riguarda l’oscuramento dei dati disposto su istanza di parte o d’ufficio dal giudice.
Il 1° co., infatti, riconosce all’interessato (2) la facoltà di chiedere all’Autorità giudiziaria “per motivi legittimi (3) con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio”(4), che sia apposta sulla sentenza o sul provvedimento di cui trattasi, a cura della cancelleria, l’annotazione “volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento”.
Il 2° co. prevede, poi, che la competenza a decidere sulla richiesta di cui al 1° co. spetta all’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La decisione viene presa con decreto riportato in calce all’istanza e può essere adottata in tempi anche molto brevi, poiché la norma prevede che la decisione sia assunta “senza ulteriori formalità”. Inoltre, la medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al 1° co., a tutela dei diritti o della dignità degli interessati. In tale ultima ipotesi spetta, per l’appunto, al giudice disporre l’anonimizzazione dei provvedimenti sulla base di una sua attenta valutazione nella prospettiva di un’efficace tutela dei diritti e della dignità delle persone coinvolte nei procedimenti giudiziari.
Il 3° co., afferma, poi, che ove la richiesta dell’interessato venga accolta con il decreto, spetta alla cancelleria o segreteria darvi esecuzione, apponendo e sottoscrivendo sull’originale, all’atto del deposito da parte del magistrato, anche con timbro la seguente annotazione, recante l’indicazione degli estremi del presente articolo: “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di…”.
In caso di accoglimento della richiesta, il 4° co. prescrive di omettere l´indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell´interessato in caso di diffusione, per le descritte finalità, dei provvedimenti giurisdizionali che rechino detta annotazione.
Il secondo caso riguarda l’ipotesi in cui è la stessa legge a garantire il diritto all’anonimato per i minori coinvolti in qualunque tipo di procedimento giudiziario e le parti nei procedimenti giudiziari in materia di rapporti di famiglia e di stato civile delle persone.
Ciò viene esplicitato al 5° co., della suddetta norma, il quale afferma che “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 734 bis del codice penale relativamente alle persone offese da atti di violenza sessuale, chiunque (5) diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto ad omettere in ogni caso, anche in mancanza dell’annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone”.
L’obbligo di cui sopra opera “in ogni caso”, trattandosi, pertanto, di un divieto assoluto e, benché la norma non lo menzioni, si ritiene opportuno che l’autorità giudiziaria provveda comunque d’ufficio all’annotazione sull’originale del provvedimento dell’obbligo di anonimizzazione, al fine di evitare un’illecita divulgazione di dati personali.
L’art. 52, 6° co., estende, inoltre, l’iter procedurale sopra descritto a tutti i casi di “deposito del lodo ai sensi dell’articolo 825 del codice di procedura civile, con conseguente applicazione anche a tale tipologia della procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Il 7° co. dell’art. 52, infine, chiude affermando, che, “Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
In conclusione, gli artt. 51 e 52, consentono la diffusione integrale, in ogni forma, delle decisioni giudiziarie di ogni ordine e grado, salvi i casi in cui sia stata disposta l’anonimizzazione da parte dell’autorità giudiziaria oppure debba procedersi all’oscuramento dei dati in virtù di legge.

3. I rimedi esperibili in caso di mancato oscuramento dei provvedimenti giurisdizionali

Finora ci si è occupati di esaminare i casi nei quali i soggetti interessati possono richiedere l’oscuramento dei propri dati identificativi o quando è la stessa legga ad assicurarlo.
Tuttavia, ci si chiede quali siano i rimedi esperibili dall’interessato nel caso in cui venga diffuso un provvedimento giurisdizionale in relazione al quale è la stessa legge che ne impone l’oscuramento (art. 52 co.5, Codice privacy) oppure quando il giudice non abbia provveduto sulla richiesta di oscuramento o nel caso di denegata richiesta di oscuramento tempestivamente formulata dall’interessato.
Il primo rimedio esperibile è di carattere amministrativo. Il soggetto, infatti, può chiedere al responsabile del sito istituzionale di arrestare la diffusione dei dati attraverso la pubblicazione in rete, motivando tale richiesta con il divieto posto dalla legge alla divulgazione dei dati di cui trattasi.
Da qui il dubbio se l’amministrazione sia titolare di poteri autonomi rispetto al provvedimento di anonimizzazione del giudice destinati a operare a prescindere dal dato processuale (6).
Un altro rimedio esperibile è di carattere giurisdizionale. A tal proposito, al soggetto interessato è data la possibilità di depositare un’istanza rivolta al giudice che ha emesso il provvedimento per richiedere ex post l’oscuramento dei dati personali supposto come obbligatorio oppure al fine di ottenere una pronuncia sulla richiesta previamente depositata e non delibata o una pronuncia positiva sulla richiesta tempestivamente depositata e rigettata.
Nello specifico, la via percorribile sarebbe quella del procedimento di correzione dell’errore materiale, così come è stato affermato di recente dal Tar Lazio (7).
In ogni caso, la parte interessata può sempre intraprendere la strada della tutela risarcitoria azionabile innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria avverso l’amministrazione di riferimento o verso un terzo che abbia pubblicato il provvedimento giudiziario senza  averlo previamente oscurato. Ciò, in ottemperanza al principio secondo cui costituisce fatto illecito la diffusione, anche a meri scopi di informazione giuridica, di pronunce giurisdizionali in via integrale, laddove sia imposto per legge o dal giudice il relativo oscuramento.

4. Note conclusive

Il tema dell’oscuramento dei dati personali acquista sempre maggiore attualità in una società caratterizzata dal progresso tecnologico e da una rapida diffusione delle informazioni anche attraverso la rete, soprattutto a seguito del rilievo che hanno assunto indagini e processi penali nella vita politica italiana.
Si assiste, infatti, molto spesso a testate giornalistiche le quali divulgano provvedimenti con dati identificativi delle parti senza alcuno scrupolo, ma per il solo fine di fare cronaca e pubblicità.
La superficialità con cui si affrontano tali tematiche, spesso, è disarmante.
Viviamo in una società dove è più importante fare notizia che tutelare il diritto alla riservatezza di ogni individuo.
A ciò, fortunatamente, viene in soccorso la legge, la quale pone una più ampia tutela in materia di privacy nei confronti dei soggetti coinvolti in procedimenti giudiziari, soprattutto quando si tratta di minori, famiglia e stato civile delle persone.
Se è vero che la strada da percorrere è ancora molto lunga, notevoli passi avanti sono stati compiuti e ci si auspica un intervento riformatore ancora più stringente.

dati personali pubblicità

1. L’evoluzione normativa del trattamento dei dati personali nelle attività giurisdizionali fino all’emanazione del GDPR

La legge 31 dicembre 1996 n. 675 intitolata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” non conteneva una disciplina specifica riferita al trattamento dei dati personali in ambito giudiziario.
Infatti, ad una prima lettura degli articoli in essa contenuti si può notare che l’ art. 4 rubricato “Particolari trattamenti in ambito pubblico” affermava ai punti c) e d) che “la presente legge non si applicasse al trattamento di dati personali effettuato “nell’ambito del servizio del casellario giudiziale di cui al titolo IV del libro decimo del codice di procedura penale e al regio decreto 18 giugno 1931, n. 778, e successive modificazioni, o, in base alla legge, nell´ambito del servizio dei carichi pendenti nella materia penale ed in attuazione dell´articolo 371-bis, comma 3, del codice di procedura penale o, per ragioni di giustizia, nell’ambito di uffici giudiziari, del Consiglio superiore della magistratura e del Ministero di grazia e giustizia”.
Tuttavia, la locuzione contenuta in detta norma “per ragioni di giustizia”, era incerta e lacunosa nella sua definizione e, pertanto, lasciava il dubbio se la suddetta disciplina fosse applicabile anche ai trattamenti di dati effettuati dalla magistratura nell’esercizio della funzione giudiziaria.
Successivamente, il d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (c.d. Codice privacy) si è occupato della protezione dei dati personali nell’ambito del trattamento di dati effettuato per ragioni di giustizia agli artt. 46 e 47 e proprio all’ art. 47, 2° co.  ha dato una definizione della locuzione “per ragioni di giustizia”.
Infatti, secondo la lettera della norma, “si intendono effettuati per ragioni di giustizia i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie, o che, in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, hanno una diretta incidenza sulla funzione giurisdizionale, nonché le attività ispettive su uffici giudiziari. Le medesime ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi o strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla predetta trattazione”.
Tuttavia, l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati – avente diretta applicabilità negli Stati membri – ha reso necessario l’adeguamento del vigente Codice privacy.
A tal proposito, il legislatore nazionale, con il d.lgsl. 10 agosto 2018, n. 101, ha provveduto ad una complessiva riscrittura del Codice privacy, abrogando le disposizioni incompatibili e adeguando il restante testo al contenuto del regolamento, attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle previgenti.
Nella specie, si è assistiti all’abrogazione degli artt. 46 e 47 ed il relativo contenuto è stato trasposto nell’ art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, il quale stabilisce che in tale materia “i diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti”. Il 4° co. precisa, poi, che i trattamenti effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli “correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie”, nonché “i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti”.

2. Il bilanciamento tra il principio di pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali e la tutela dei dati personali in essa contenuti. L’anonimizzazione dei dati identificativi

Com’è ben noto, le sentenze sono pubbliche poiché “emesse nel nome del popolo” ed ai sensi dell’ art. 101 della Costituzione, nel nome del popolo è amministrata la giustizia.
Al riguardo, è opportuno ricordare che, in linea generale, vige il principio della libera conoscibilità dei provvedimenti giudiziari e, quindi, della loro pubblicità.
Tale pubblicità, però, va in conflitto con l’esigenza di tutela della vita personale, soprattutto quando vengono trattati temi molto sensibili come la famiglia, i minori, la vita sessuale, l’origine etnica e razziale e altro.
Bisogna prestare molta attenzione quando vengono in rilievo temi così delicati e, pertanto, risulta necessario effettuare un bilanciamento tra il principio di pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali e la tutela dei dati personali in essa contenuti.
Infatti, se da un lato, come afferma il Garante privacy nelle Linee Guida del 2 dicembre 2010, “la diffusione dei provvedimenti giurisdizionali costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini all’esercizio del potere giurisdizionale”, dall’altro tale diffusione non può danneggiare il diritto alla privacy dei soggetti coinvolti in quel provvedimento.
Pertanto, il necessario bilanciamento di cui sopra va effettuato alla luce degli artt. 51 e 52 del d.lgsl. 30 giugno 2003 n. 196 e s.m.i. che disciplinano la c.d. “informatica giuridica”, nelle versioni vigenti a seguito dell’entrata in vigore del GDPR ed all’esito delle modifiche introdotte dal d.lgsl. 101/2018.

Cominciamo con l’analizzare il contenuto dell’art. 51.
L’art. 51, che ha ad oggetto la diffusione dei provvedimenti giudiziari, al 2° co., afferma che “Le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo”(1).
Stando alla lettera della suddetta norma, dunque, le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso Internet, nel loro testo integrale, salvo quanto previsto dall’art. 52 commi da 1 a 6.
L’art. 52, infatti, si pone quale norma derogatoria rispetto alla disciplina generale in tema di libera conoscibilità dei provvedimenti giudiziari.
Tale articolo, nello specifico, definisce i casi nei quali i soggetti interessati possono richiedere l’oscuramento dei propri dati identificativi, garantendo loro, quindi il diritto all’anonimizzazione.
Il primo caso riguarda l’oscuramento dei dati disposto su istanza di parte o d’ufficio dal giudice.
Il 1° co., infatti, riconosce all’interessato (2) la facoltà di chiedere all’Autorità giudiziaria “per motivi legittimi (3) con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio”(4), che sia apposta sulla sentenza o sul provvedimento di cui trattasi, a cura della cancelleria, l’annotazione “volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento”.
Il 2° co. prevede, poi, che la competenza a decidere sulla richiesta di cui al 1° co. spetta all’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La decisione viene presa con decreto riportato in calce all’istanza e può essere adottata in tempi anche molto brevi, poiché la norma prevede che la decisione sia assunta “senza ulteriori formalità”. Inoltre, la medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al 1° co., a tutela dei diritti o della dignità degli interessati. In tale ultima ipotesi spetta, per l’appunto, al giudice disporre l’anonimizzazione dei provvedimenti sulla base di una sua attenta valutazione nella prospettiva di un’efficace tutela dei diritti e della dignità delle persone coinvolte nei procedimenti giudiziari.
Il 3° co., afferma, poi, che ove la richiesta dell’interessato venga accolta con il decreto, spetta alla cancelleria o segreteria darvi esecuzione, apponendo e sottoscrivendo sull’originale, all’atto del deposito da parte del magistrato, anche con timbro la seguente annotazione, recante l’indicazione degli estremi del presente articolo: “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di…”.
In caso di accoglimento della richiesta, il 4° co. prescrive di omettere l´indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell´interessato in caso di diffusione, per le descritte finalità, dei provvedimenti giurisdizionali che rechino detta annotazione.
Il secondo caso riguarda l’ipotesi in cui è la stessa legge a garantire il diritto all’anonimato per i minori coinvolti in qualunque tipo di procedimento giudiziario e le parti nei procedimenti giudiziari in materia di rapporti di famiglia e di stato civile delle persone.
Ciò viene esplicitato al 5° co., della suddetta norma, il quale afferma che “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 734 bis del codice penale relativamente alle persone offese da atti di violenza sessuale, chiunque (5) diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto ad omettere in ogni caso, anche in mancanza dell’annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone”.
L’obbligo di cui sopra opera “in ogni caso”, trattandosi, pertanto, di un divieto assoluto e, benché la norma non lo menzioni, si ritiene opportuno che l’autorità giudiziaria provveda comunque d’ufficio all’annotazione sull’originale del provvedimento dell’obbligo di anonimizzazione, al fine di evitare un’illecita divulgazione di dati personali.
L’art. 52, 6° co., estende, inoltre, l’iter procedurale sopra descritto a tutti i casi di “deposito del lodo ai sensi dell’articolo 825 del codice di procedura civile, con conseguente applicazione anche a tale tipologia della procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Il 7° co. dell’art. 52, infine, chiude affermando, che, “Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
In conclusione, gli artt. 51 e 52, consentono la diffusione integrale, in ogni forma, delle decisioni giudiziarie di ogni ordine e grado, salvi i casi in cui sia stata disposta l’anonimizzazione da parte dell’autorità giudiziaria oppure debba procedersi all’oscuramento dei dati in virtù di legge.

3. I rimedi esperibili in caso di mancato oscuramento dei provvedimenti giurisdizionali

Finora ci si è occupati di esaminare i casi nei quali i soggetti interessati possono richiedere l’oscuramento dei propri dati identificativi o quando è la stessa legga ad assicurarlo.
Tuttavia, ci si chiede quali siano i rimedi esperibili dall’interessato nel caso in cui venga diffuso un provvedimento giurisdizionale in relazione al quale è la stessa legge che ne impone l’oscuramento (art. 52 co.5, Codice privacy) oppure quando il giudice non abbia provveduto sulla richiesta di oscuramento o nel caso di denegata richiesta di oscuramento tempestivamente formulata dall’interessato.
Il primo rimedio esperibile è di carattere amministrativo. Il soggetto, infatti, può chiedere al responsabile del sito istituzionale di arrestare la diffusione dei dati attraverso la pubblicazione in rete, motivando tale richiesta con il divieto posto dalla legge alla divulgazione dei dati di cui trattasi.
Da qui il dubbio se l’amministrazione sia titolare di poteri autonomi rispetto al provvedimento di anonimizzazione del giudice destinati a operare a prescindere dal dato processuale (6).
Un altro rimedio esperibile è di carattere giurisdizionale. A tal proposito, al soggetto interessato è data la possibilità di depositare un’istanza rivolta al giudice che ha emesso il provvedimento per richiedere ex post l’oscuramento dei dati personali supposto come obbligatorio oppure al fine di ottenere una pronuncia sulla richiesta previamente depositata e non delibata o una pronuncia positiva sulla richiesta tempestivamente depositata e rigettata.
Nello specifico, la via percorribile sarebbe quella del procedimento di correzione dell’errore materiale, così come è stato affermato di recente dal Tar Lazio (7).
In ogni caso, la parte interessata può sempre intraprendere la strada della tutela risarcitoria azionabile innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria avverso l’amministrazione di riferimento o verso un terzo che abbia pubblicato il provvedimento giudiziario senza  averlo previamente oscurato. Ciò, in ottemperanza al principio secondo cui costituisce fatto illecito la diffusione, anche a meri scopi di informazione giuridica, di pronunce giurisdizionali in via integrale, laddove sia imposto per legge o dal giudice il relativo oscuramento.

4. Note conclusive

Il tema dell’oscuramento dei dati personali acquista sempre maggiore attualità in una società caratterizzata dal progresso tecnologico e da una rapida diffusione delle informazioni anche attraverso la rete, soprattutto a seguito del rilievo che hanno assunto indagini e processi penali nella vita politica italiana.
Si assiste, infatti, molto spesso a testate giornalistiche le quali divulgano provvedimenti con dati identificativi delle parti senza alcuno scrupolo, ma per il solo fine di fare cronaca e pubblicità.
La superficialità con cui si affrontano tali tematiche, spesso, è disarmante.
Viviamo in una società dove è più importante fare notizia che tutelare il diritto alla riservatezza di ogni individuo.
A ciò, fortunatamente, viene in soccorso la legge, la quale pone una più ampia tutela in materia di privacy nei confronti dei soggetti coinvolti in procedimenti giudiziari, soprattutto quando si tratta di minori, famiglia e stato civile delle persone.
Se è vero che la strada da percorrere è ancora molto lunga, notevoli passi avanti sono stati compiuti e ci si auspica un intervento riformatore ancora più stringente.

Note

(1) Tale deve intendersi il riferimento alle cautele previste dal capo in esame, relative ai casi di oscuramento obbligatorio (previsto ex lege) o eventuale (su istanza di parte o disposto d’ufficio dal giudice). Alle cautele previste dal Codice rinvia anche l’art. 56, comma 2, del d. lg. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale) che, con riferimento alle “sentenze e alle altre decisioni del giudice amministrativo e contabile, rese pubbliche mediante deposito in segreteria”, ne prevede la pubblicazione anche sul sito istituzionale della rete Internet “osservando le cautele previste dalla normativa in materia di tutela dei dati personali”. Il comma 2-bis della medesima disposizione aggiunge che “i dati identificativi delle questioni pendenti, le sentenze e le altre decisioni depositate in cancelleria o segreteria dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono, comunque, rese accessibili ai sensi dell’articolo 51 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo n. 196 del 2003”.
(2) Qualsiasi persona fisica identificata o identificabile (art. 4 n. 1 GDPR). Rientrano nella nozione di soggetto interessato, non soltanto le parti di un giudizio civile o l’imputato in un processo penale, bensì anche qualsiasi altro soggetto – come ad es. un consulente tecnico d’ufficio o un testimone – reso comunque identificabile nel provvedimento giudiziario attraverso l’indicazione delle generalità o di altri dati identificativi.
(3) Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Pen. I, n. 47126/2021, tale concetto, per la sua genericità, necessita di una interpretazione che la stessa ha più volte effettuato, affermando che l’espressione “motivi legittimi” deve essere intesa come sinonimo di “motivi opportuni”: donde la particolare ampiezza, a ragion veduta non predeterminata dal legislatore all’interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono essere addotte a sostegno della richiesta di oscuramento dei dati, fermo restando che l’accoglimento della richiesta medesima potrà intervenire ogniqualvolta l’Autorità Giudiziaria ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un necessitato corollario del principio costituzionale dell’amministrazione della giustizia, esercitata nel nome del popolo italiano. (cfr. Sez. 6, sentenza n. 11959 del 15 febbraio 2017, Rv. 269402 – 01). Per conseguire tale bilanciamento, si traggono indicazioni dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 2 dicembre 2010, “in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica”, in cui, con specifico riferimento alla c.d. “procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali”, si indicano possibili “motivi legittimi”, in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre l’Autorità giudiziaria a provvedere d’ufficio), nella “particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)”, ovvero nella “delicatezza della vicenda oggetto del giudizio”.
(4) Un’istanza proposta dopo la definizione del giudizio (ad esempio, dopo l´emissione della sentenza) resterebbe priva di effetto.
(5) Con l’espressione “chiunque”, la norma del Codice privacy intende riferirsi a qualunque soggetto che effettua trattamenti di dati personali a fini di informazione giuridica.
(6) Secondo il Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica del 2 dicembre 2010, all’indirizzo url: https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1774813, “[s]petta a chi riceve la copia provvedere all’omissione dei dati ove intenda riprodurla e diffonderla per finalità di informazione giuridica”, di modo che non emergono ulteriori incombenti a carico degli uffici giudiziari oltre all’obbligo di apporre sull’originale del provvedimento, all’atto del deposito da parte del magistrato, anche con un timbro, un’annotazione che riporti l’indicazione dell’art. 52 del Codice e la dizione: “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di …”. Secondo il Garante, tale “indicazione dell’art. 52 ha lo scopo di escludere che il divieto possa essere esteso a ipotesi di diffusione diverse rispetto a quella della riproduzione del provvedimento per finalità di informazione giuridica”.
(7) Cfr. ordinanza del Tar Lazio, sez. prima-ter, 9 novembre 2017, n. 11160.