Con la pronuncia in parola, il Supremo Collegio è intervenuto in materia di peculato, annullando una c.d. doppia conforme del Tribunale di Bologna e della Corte Territoriale, che aveva condannato l’imputato per il delitto previsto e punito dall’art. 314 c.p. in relazione ad alcuni rimborsi da lui ottenuti – nella sua qualità di componente del Consiglio Regionale – a carico dei fondi del gruppo consiliare di appartenenza per spese risultate non rimborsabili secondo la normativa regionale applicabile.
La Corte di Cassazione sembra accordare rilevanza alla distinzione concettuale tra precedente e giurisprudenza, che, pur avendo un incisivo impatto pratico, era stata obliterata dai giudici di merito.
Essa evidenzia l’importanza argomentativa che i giudici di merito hanno attribuito alle sentenze citate nelle rispettive pronunce, comportandosi come se queste avessero tutte riguardato situazioni sovrapponibili a quella sottoposta al loro giudizio, laddove il richiamo ad esse investiva più genericamente i filoni giurisprudenziali formatisi sul diverso, e più ampio, tema dei soggetti istituzionali che abusano della loro posizione qualificata nella gestione di denaro pubblico al fine di trarne profitto.
Entrando in medias res, la sentenza di legittimità ha preliminarmente chiarito che, ai fini della possibile qualificazione della condotta come peculato o come altra ipotesi di reato ovvero come condotta penalmente irrilevante, è fondamentale individuare se vi sia la disponibilità diretta o meno del denaro da parte dei soggetti aventi diritto al rimborso che, in ipotesi, ne abusano, non revocando in dubbio la natura pubblicistica del gruppo consiliare e, quindi, il ruolo di pubblico ufficiale del ricorrente.
La Corte di Cassazione ha rilevato, come già la Corte costituzionale con la sentenza n. 187 del 1990 ebbe a chiarire, che “i gruppi consiliari sono organi del Consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell’ambito del Consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri. Essi pertanto contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, curando l’elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica e, quindi, il ruolo pubblicistico di chi ne gestisce i fondi destinati al funzionamento della istituzione”.
Ulteriore aspetto cruciale secondo i Giudici di Piazza Cavour, è che la fattispecie di peculato, nella parte in cui prevede che la appropriazione riguardi un bene che sia in possesso o comunque nella disponibilità del presunto reo per motivi di ufficio, fa riferimento alla possibilità di esercitare un potere giuridicamente rilevante sulla cosa.
Il perimetro all’interno del quale prende forma la questione, pertanto, è quello di una casistica particolare, trattandosi di richieste di rimborso, quindi non sovrapponibile a quella dell’utilizzo diretto del denaro già nella disponibilità del pubblico ufficiale, nel caso in esame il consigliere regionale.
Ed invero, secondo la decisione di legittimità in commento occorre chiarire che il peculato, nel prevedere he la appropriazione riguardi un bene che sia in possesso o comunque nella disponibilità dell’ agente per ragione del suo servizio o ufficio, fa riferimento alla possibilità di esercitare un potere giuridicamente rilevante sulla cosa. Dal che ne discende il precipitato logico secondo cui in difetto della previa disponibilità del bene, non potrà mai integrarsi una condotta appropriativa, in quanto viene a mancare proprio il presupposto del delitto previsto e punito dall’art. 314 c.p.
È proprio questo il profilo ritenuto erroneo dalla Suprema Corte, secondo la quale “la Corte di appello, con motivazione, che peraltro appare obiettivamente confusa, con tale ragionamento afferma che i consiglieri regionali avevano la disponibilità delle somme stanziate per il funzionamento di ciascun gruppo, poiché potevano ottenerle «semplicemente dichiarando di averne diritto». Questa, in definitiva, la situazione sulla quale la Corte basa la disponibilità giuridica del denaro, rilevante ex art. 314 cod. pen. in capo al ricorrente.”
È però del tutto evidente come l’assenza di disponibilità – a qualsiasi titolo – del bene su cui esercitare un’interversio possessioinis, non possa produrre alcuna condotta illecita.
Per quanto tale possa essere anche una relazione di fatto (magari neanche esercitata) nell’ambito di uno specifico e contingente incarico – quale può essere attribuzione della custodia da parte di altro soggetto avente la data qualità – è tuttavia imprescindibile, a monte, che il rapporto tra il pubblico ufficiale e la “cosa” consenta al primo, in autonomia, di attribuire alla stessa una data destinazione.
Così argomentando, potrà ritenersi avere detenzione per motivi di ufficio il soggetto che abbia una delega, ancorché di fatto, per la gestione del bene.
Si pensi all’ipotesi di un dirigente di un servizio di tesoreria che deleghi un impiegato affinché questi – anche se al di fuori delle sue proprie funzioni – gestisca il conto corrente dell’ente e provveda direttamente a pagamenti: l’impiegato delegato ha sicuramente una disponibilità “qualificata” nell’orbita del reato di peculato – o di appropriazione indebita se è in questione una organizzazione privata – anche nel caso in cui operi al di fuori della assegnazione degli specifici compiti, quale tesoriere di fatto.
Diversamente, invece, non ricorre una disponibilità – nei termini richiesti dall’art. 314 c.p. – se nell’ente lo stesso impiegato si appropri di denaro lasciato incustodito nell’ufficio del medesimo dirigente: in tal caso, invero, non vi è disponibilità giuridicamente rilevante (si pensi al tesoriere che lascia aperta la cassa pubblica).
Nella prospettiva del Supremo Consesso, è fondamentale sottolineare come non debba confondere l’interpretazione della norma lì dove si distingue tra una disponibilità materiale ed una giuridica al fine di delimitare il perimetro operativo del delitto di peculato.
È una osservazione quasi pleonastica che la disponibilità del denaro sia quasi sempre una disponibilità “giuridica” e non materiale, in quanto la moneta circola quale registrazione informatica presso le banche (del tutto residuale, di fatto, l’ipotesi di gestione di contanti).
Nel momento in cui, dunque, si discute di una disponibilità “virtuale” non si deve confondere tra le varie attività formali che valgono a comportare la movimentazione (informatica) del denaro.
Nella prospettiva della sentenza in commento, la disponibilità qualificata ai fini del peculato spetta soltanto a chi ha un “potere di firma” e non si estende a chi si limita ad inserire nel procedimento dati necessari per giustificare il trasferimento del denaro stesso.
Nel decisum in questione, non diventa partecipe della disponibilità giuridica colui che inserisce nel procedimento di pagamento la richiesta rispetto alla quale verrà disposta l’assegnazione dei fondi.
Secondo la Cassazione, la Corte di Appello di Bologna è incorsa in errore avendo anticipato il momento della appropriazione nella richiesta di rimborso, ritenendola manifestazione della disponibilità giuridica dei fondi valorizzando il dato che il soggetto pagatore versava quanto richiesto senza alcun controllo.
In altri termini, conclude la Cassazione, sembra che, prescindendo dalla considerazione delle regole applicabili nel caso concreto (in particolare quelle, contenute nella citata legge regionale, che impongono un maggiore o minore dettaglio della giustificazione della richiesta di rimborso), si sia fatta una complessiva confusione tra responsabilità contabile, responsabilità contrattuale in generale e responsabilità penale per reati che comportino la appropriazione di denaro altrui (si tratti di peculato, di truffa o del reato di cui all’art. 316-ter cod. pen.).
La Corte di Cassazione, pertanto, ha confermato un’interpretazione strettamente letterale dell’art. 314 c.p.: la norma non riguarda qualsiasi forma di appropriazione realizzata dal pubblico ufficiale ma solo quella che abbia ad oggetto cose che possano definirsi quali già possedute dall’agente.
Ed infatti, nonostante il processo abbia escluso che l’imputato avesse dolosamente distratto i fondi a beneficio dei consiglieri, ha confermato la qualificazione giuridica di peculato, non facendo riferimento al corretto schema del reato, bensì reinterpretando l’art. 314 c.p. quale norma sanzionatoria dell’indebito arricchimento dell’amministratore.
Invece, la condotta dell’imputato – consistente nel presentare documentazione giustificativa falsa per ottenere rimborsi non spettanti – può essere qualificata in astratto quale truffa aggravata (o ex art. 316 ter c.p.), ma non quale peculato, mancando proprio l’elemento costitutivo principe del reato, cioè “il possesso o, comunque, la disponibilità” dei fondi.
In definitiva, la pronuncia di legittimità ha riformato la precedente condanna, mandando assolto l’imputato, in quanto non vi era la diretta assegnazione dei fondi al singolo consigliere né è stato provato che vi fosse l’inserimento “di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento”.
La pronuncia in parola si lascia apprezzare per aver letteralmente sgretolato il ragionamento dei giudici di merito, risultato viziato a monte ed a valle delle rispettive motivazioni, avendo superato l’assenza del presupposto del reato – id est la previa disponibilità del denaro pubblico – con mere congetture.
Al netto degli approdi interpretativi raggiunti, tuttavia, è il rigoroso metodo logico-argomentativo utilizzato dai giudici di legittimità a dover essere evidenziato.
Ed invero, la vicenda si accinge a svolgere un ruolo di leading case della valorizzazione di tecniche interpretative tassativizzanti, nel rispetto dei principi di determinatezza e di legalità, come scolpiti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed interpretati dalla sua costante giurisprudenza.
Occorre, invero, transitare da una prospettiva interpretativa/creativa del diritto, – quasi in violazione dl principio di riserva di legge – ad una, decisamente più garantista, fedele al tenore letterale delle fattispecie incriminatrici, in osservanza del criterio di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale.