1. I principi di prevedibilità e di irretroattività sfavorevole
Il principio di irretroattività sfavorevole trova il proprio fondamento normativo negli artt. 25 Cost., 1, 2 e 199 c.p. Quanto al principio di prevedibilità, invece, esso non troverebbe – quantomeno in via espressa – un presupposto normativo nell’ordinamento interno. Trattasi, infatti, di un corollario forgiato in senso alla giurisprudenza della Corte Edu e deducibile dall’art. 7 Cedu. Entrambi costituiscono espressione di un’impellente esigenza di giustizia e garanzia sostanziali; un bisogno imprescindibile in qualsivoglia ordinamento che riconosca a se stesso una qualificazione espressa in termini di civiltà giuridica. Un sistema informato dei suindicati principi deve garantire a ciascun individuo di prevedere e preventivare scientemente le conseguenze penali cui sarebbe soggetto, a seguito dell’adozione di certi comportamenti criminosi [1]. Tanto la giurisprudenza europea, con particolare riferimento all’attività pretoria della Corte Edu, quanto quella interna, oggi, intendono riferire le summenzionate garanzie, non solo all’attività squisitamente legislativa, ma, anche, alle elaborazioni giurisprudenziali. I principi di prevedibilità e di irretroattività sfavorevole, dunque, blindano sia la fonte legislativa – contenente il precetto normativo – sia la sentenza – nella quale si annovera il principio di diritto – con cui si addiviene alla risoluzione della vicenda processuale oggetto del contendere. Al tempo in cui l’agente compie il reato, dunque, deve avere piena consapevolezza, in primis, del disvalore penale della condotta messa in atto oltreché degli effetti penalmente rilevanti da essa discendenti; in secondo luogo, vengono in rilievo le soluzioni interpretative offerte, al tempus commissi delicti, dalla giurisprudenza. La posizione, ormai granitica, dei giudici nazionali e sovranazionali si orienta nel senso di estendere le garanzie discendenti dai principi summenzionati anche al fenomeno dell’overruling giurisprudenziale. Tale tesi è corroborata, invero, dal dato letterale dell’art. 7 Cedu: il termine “law” iviutilizzato va inteso sia come riferimento alla fonte legislativa, lo statutory law, sia in relazione al formante giurisprudenziale, il judicial law. Il nuovo orientamento giurisprudenziale, se produttivo di effetti in malam partem nei confronti del reo, non può applicarsi retroattivamente.
2. L’overruling giurisprudenziale nell’esperienza sovranazionale
Nel caso Del Rio Prada contro Spagna [2], la Grande Camera della Corte Edu scongiura l’applicazione di mutamenti giurisprudenziali in malam partem a fatti criminosi passati. Ciò anche quando, de facto, il fenomeno dell’overruling giurisprudenziale coinvolga la normativa sui benefici penitenziari, da cui dipenda un concreto e significativo prolungamento della detenzione a cui è sottoposto il condannato. Per la Corte Edu, l’applicazione retroattiva dell’overruling è ammissibile purché non si risolva in una violazione dell’art. 7 Cedu. Il giudice nazionale può e deve assecondare mutamenti giurisprudenziali sia in materia penale sia in materia extrapenale; invero, però, ciò deve sempre risolversi nell’applicazione retroattiva di un orientamento ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto. La medesima posizione viene assunta dalla Cgue la quale ripropone pedissequamente la posizione della Corte Edu: si riafferma eloquentemente il ruolo del principio di prevedibilità, quale baluardo in grado di negare tassativamente la retroattività di orientamenti giurisprudenziali sfavorevoli al reo, se non previsti o prevedibili al tempo in cui i fatti vengono in essere.
L’importanza della prevedibilità [3] e dell’irretroattività sfavorevole [4], in materia penale, viene sottolineata nella sentenza della Corte Edu sul complesso caso Contrada[5]. In occasione della risoluzione della vicenda in parola, la Corte Edu interiorizza un’accezione prettamente oggettiva del principio di prevedibilità; nella pronuncia, difatti, diviene irrilevante una ponderazione del soggetto agente, registrandosi l’assenza di una qualsivoglia valutazione soggettiva incentrata sulla di lui diligenza e sul suo patrimonio conoscitivo. I giudici sovranazionali concludono che: le condotte considerate penalmente rilevanti risalgono ad un arco temporale ben specifico – gli anni 1979-1988 – in cui, ancora, la figura del concorso esterno in associazione mafiosa non ha ottenuto una puntuale elaborazione e definizione, anche solo giurisprudenziale; la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa viene originariamente ideata nel 1987, ma immediatamente sconfessata dalle successive sentenze della Suprema Corte di Cassazione; il reato in parola si colora di contenuti sufficientemente dettagliati solo nel 1992, con la sentenza Demitry delle Sezioni Unite [6]. Ergo, la condanna nei confronti dell’imputato si pone in netto contrasto con i principi di prevedibilità e di irretroattività sfavorevole. Per la Corte Edu – persuasa che la fattispecie del concorso esterno sia un istituto di origine meramente giurisprudenziale – è indubbio che: al momento dei fatti, l’agente sia nell’impossibilità di orientare scientemente la propria condotta posto che, al tempo in cui agiva, non era espressamente tipizzata la fattispecie del concorso esterno; inoltre, l’orientamento, da cui discende la criminalizzazione della figura del concorso esterno in associazione mafiosa, non è in quel momento storico sufficientemente definito nel panorama giurisprudenziale; in conclusione, dunque, la fattispecie non è prevedibile dal soggetto agente, quando lo stesso estrinseca i comportamenti oggetto di contestazione penale. Non è un mistero che, al tempo dei fatti, l’ordinamento interno non annoverasse una norma che, in modo chiaro e preciso, si riferisse al concorso esterno; norma tutt’oggi inesistente, in quanto tale fattispecie sorge dal combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p.
Alla stregua di quanto testé specificato, però, merita di essere precisato che, al momento della commissione del reato, la giurisprudenza ha già elaborato la tesi pretoria con cui si oggettivizza ontologicamente il concorso esterno in associazione mafiosa. In ragione di ciò, dunque, le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione potrebbero considerarsi del tutto in linea con il principio di prevedibilità [7]. Del resto, la stessa Corte Edu riconosce ad esso, oltre ad un’accezione oggettiva, una significazione soggettiva: tale in quanto vengono in rilievo i connotati personali, soggettivi e professionali dell’agente, ai fini della valutazione dell’effettiva capacità di prevedere le conseguenze penali della propria condotta. Ergo, preferendo questo specifico angolo prospettico per la disamina della vicenda Contrada, non è escluso che le conclusioni raggiunte possano essere capovolte: in tal caso, i giudici sovranazionali avrebbero dovuto interiorizzare dati empirici e soggettivi rilevanti, avendo riguardo della peculiare esperienza professionale del reo. Una lettura soggettivizzata dei fatti può ben condurre ad affermare che l’agente [8] sia consapevole del disvalore penale oltreché della rimproverabilità della di lui condotta; e, inoltre, sembra indubbia l’esistenza – al tempo dei fatti contestati – di un conflitto giurisprudenziale incentrato sull’istituto in parola e sulla sua possibile configurazione nell’ordinamento interno.
3. La posizione della giurisprudenza italiana: il “NO” al revirement giurisprudenziale in peius
La Corte di Cassazione si è posta, senza soluzioni di continuità, nel solco delle posizioni assunte dai giudizi sovranazionali. In una recente sentenza [9], i giudici di legittimità affrontano il problema de quo, mutuando le soluzioni offerte dalle Sezioni Unite civili [10], in una pronuncia che ha ormai acquisito la dignità di sentenza guida. Così i giudici: “il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d. overruling), che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera – laddove il suo significato non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale – come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale ‘ora per allora’, nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente. Infatti, il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del giudice”. Ordunque, la connaturata retroattività dell’interpretazione giurisprudenziale può di fatto trovare applicazione, alla presenza di pedisseque condizioni. In primis, deve trattarsi di norme processuali e non anche sostanziali. Il mutamento giurisprudenziale, inoltre, deve essere prevedibile al momento della commissione del fatto criminoso; in caso contrario, si giungerebbe all’irrogazione di una sanzione penale ai danni di un soggetto che, al tempo dei fatti, non ha la possibilità di fare affidamento, anche solo ipoteticamente, sulla soluzione ermeneutico-interpretativa rivelatasi, successivamente, prevalente. L’overruling è prevedibile se, al tempo di commissione del reato, sia in atto un conflitto giurisprudenziale che metta in gioco diverse tesi – tra cui quella a posteriori applicata – sebbene, all’inizio, essa abbia un impatto minoritario. Sul punto, i giudici di legittimità aggiungono: “l’overruling non consentito, perché non prevedibile per l’imputato, sia ravvisabile nei soli casi di radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre debba essere esclusa qualora la soluzione offerta si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile pur nel contrasto di opinioni, che di per sé rende l’esito conseguito comunque presente e possibile, anche se non accolto dall’indirizzo maggioritario”.
La Corte di Cassazione risolve l’annoso conflitto giurisprudenziale vertente sulla portata applicativa dell’art. 442, comma 3 c.p.p., ribadendo in modo draconiano tale posizione, di cui mutua quasi integralmente i precipitati fin qui espressi [11]. Prima della riforma del 2014 [12] – intervenuta sull’istituto dell’assenza nel processo penale – all’imputato assente, nel giudizio abbreviato, si riconosceva il diritto alla notifica dell’estratto della sentenza, alla stregua del combinato disposto degli artt. 442 c.p.p., comma 3 e 134 disp.att. c.p.p. All’indomani della novella, sorge ex se il problema relativo alla sussistenza o meno di una tacita abrogazione delle norme in esame. Un primo orientamento ritiene che queste siano state implicitamente abrogate; altra posizione, invece, specifica che, in assenza di abrogazione esplicita, esse si considerino vigenti. Aderendo alla prima tesi, il termine per proporre appello decorre, come per il processo ordinario, dalla scadenza del termine di legge o di quello eventualmente stabilito dall’art. 544, comma 3 c.p.p.; nel secondo caso, i termini iniziano a decorrere dalla notifica dell’avviso di deposito della sentenza. L’orientamento maggioritario aderiva a questa seconda tesi. Pur tuttavia, successivamente, la giurisprudenza di legittimità cambia la propria posizione e, ancorandosi al primo orientamento ivi prospettato, dichiara l’inammissibilità dell’impugnazione proposta dagli imputati, dovuta alla tardività nella proposizione del gravame (il dies a quo decorreva dal deposito della sentenza e non anche dalla data di notifica dell’estratto). I giudici di legittima ritengono che, nell’ipotesi in parola, non si configuri un overruling giurisprudenziale oggetto di applicazione retroattiva sfavorevole; ciò in quanto si tratta di una tesi già presente in un corposo filone giurisprudenziale seguito dalle Sezioni semplici. La congenita portata retroattiva dell’interpretazione giudiziale rimane integra: il nuovo orientamento retroagisce purché non si risolva in una violazione dei principi che governano il diritto penale. I principi di prevedibilità e di irretroattività in malam partem non vengono menomati da un’interpretazione già conosciuta o, comunque, conoscibile al momento della commissione dei fatti ed espressa dal difensore nella strategia difensiva adottata; analoghe considerazioni valgono nei casi di conflitto giurisprudenziale. Dunque, nell’ipotesi testé descritta, si registra un fenomeno di overruling assolutamente prevedibile [13] e, per tale ragione, suscettivo di applicazione retroattiva. La retroattività va tassativamente esclusa – in ossequio anche al principio del giusto processo ed alla tutela dell’affidamento del soggetto – solo se la soluzione giurisprudenziale a posteriori adottata risulti innovativa della materia, inconciliabile ed imprevedibile; tale precipitato opera nelle ulteriori ipotesi in cui il mutamento giurisprudenziale determini un effettivo aggravio della sanzione penale applicabile al soggetto.
4. L’overruling in bonam partem
È certo che l’intangibilità dei principi di irretroattività sfavorevole e prevedibilità impedisca la retroazione dell’orientamento giurisprudenziale in malam partem successivo alla commissione del fatto, se non prevedibile dal reo. Altrettanto problematico è comprendere se residui spazio per la retroattività dell’overruling quando essa abbia effetti in bonam partem [14]. Il principio di retroattività favorevole, di cui all’art. 2 c.p. – come pacificamente la giurisprudenza sovranazionale stabilisce – possiede la medesima dignità di “diritto fondamentale” già attribuita ai principi di cui sopra [15]. Invero, la stessa giurisprudenza di legittimità si è espressa nel senso di un riconoscimento dell’overruling giurisprudenziale favorevole al reo, con una precisazione: l’abrogazione, totale o parziale, del reato non è frutto della decisione assunta dal giudice; essa, piuttosto, discende direttamente dalla fonte legislativa sopravvenuta, poi oggetto di interpretazione offerta dalla giurisprudenza [16]. Così, la Suprema Corte di Cassazione: “Il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorchè l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione” [17]. Quando, invece, si registra un mero fenomeno di overruling giurisprudenziale – non accompagnato da alcuna effettiva modificazione legislativa delle norme oggetto di interesse – queste non subiscono, come già accennato, alcun effetto abrogativo. Un precipitato normativo, in tal senso, potrebbe rinvenirsi nell’art. 618, comma 1-bis c.p.p., come modificato dalla riforma Orlando del 2017 [18]. La norma autorizza le singole Sezioni a rimettere alle Sezioni Unite un ricorso, sul quale queste abbiano formulato un principio di diritto non condiviso. Nonostante il silenzio serbato dal legislatore, il giudice nomofilattico acconsente all’applicazione retroattiva del mutamento giurisprudenziale favorevole purché: la paternità di questo sia attribuibile alle Sezioni Unite; l’orientamento giurisprudenziale, oggetto di applicazione retroattiva, sia dotato del carattere della stabilità e sia epifania di contingenti interessi, effettivamente ravvisabili nel diritto vivente.
5. Overruling in bonam partem: ipotesi di abolitio criminis?
Ci si chiede se, a seguito di un mutamento giurisprudenziale più favorevole al reo, si determini un’ipotesi di abolitio criminis, da cui discenda la caducazione del giudicato, disposta dal giudice dell’esecuzione. La Corte Costituzionale [19], a tal proposito, è intervenuta sulla fattispecie di omessa esibizione dei documenti di identità e del permesso di soggiorno da parte dello straniero, prevista ai sensi dell’art. 6, comma 3 T.U. immigrazione. La disposizione viene modificata in occasione dell’introduzione del c.d. pacchetto sicurezza del 2009 [20]. Per cui, prima della riforma, viene sanzionato lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione ovvero il permesso o la carta di soggiorno; dopo la riforma, il legislatore – sostituendo la congiunzione “ovvero” con la locuzione “e” – sanziona lo straniero che non esibisce tanto il passaporto, o altro documento di identificazione, quanto il permesso di soggiorno. La novella normativa fa sorgere un problema definitorio – poi risolto dalle Sezioni Unite – circa la qualificazione del destinatario della norma de quo; i giudici di legittimità, infatti, considerano tali i soli stranieri regolari. Assecondando una tale interpretazione, de facto, si assiste alla ridefinizione del perimetro soggettivo di applicazione della norma; ossia, si consacrerebbe un fenomeno di abolitio criminis parziale, rispetto al quale non viene tipizzato dal legislatore il rimedio esperibile in favore dei soggetti beneficiari. In sintesi: oltre ad una modifica normativa, si registra anche un fenomeno di mutamento giurisprudenziale; tale circostanza, però, non è annoverata tra le ipotesi per le quali può attivarsi il rimedio di cui agli artt. 666 e 673 c.p.p. Da qui, il sospetto di un contrasto con il dato costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 25 Cost. oltreché 5, 6 e 7 Cedu. La Corte Costituzionale dichiara ammissibile, ma infondata, la questione in virtù di due presupposti: il principio di riserva di legge e la riconduzione dell’ordinamento italiano nei sistemi civil law. In forza di quanto fin qui premesso, la Corte Costituzionale specifica che – come insegnato dalla giurisprudenza della stessa Corte Edu – il principio di retroattività favorevole non si estende ben oltre l’invalicabilità del giudicato. L’art. 7, par. 1 Cedu, invero, presuppone che il giudice applichi “le disposizioni più favorevoli”; con ciò riferendosi alla sola legge penale in vigore prima del giudicato. I giudici costituzionali specificano, in tale occasione, che: “la considerazione che la Corte europea non risulta aver mai, fino ad oggi, enunciato il corollario …che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti con il nuovo indirizzo (…)”. Nell’ordinamento italiano, del resto, il formante giurisprudenziale non costituisce fonte del diritto il quale, invece, promana solo dallo Stato-legislatore. Per quanto autorevole, una orientamento giurisprudenziale non ha la medesima efficacia e vincolatività di una norma di legge. Una pronuncia giudiziale si limita ad interpretare il dato normativo e, anche nei casi di un’interpretazione parzialmente abrogativa, comunque non è in grado di far scattare un fenomeno di abolitio criminis. I giudici di legittimità confermano tale soluzione, affermando: “il mutamento di interpretazione giurisprudenziale, ove verificatosi in epoca posteriore rispetto alla formazione del giudicato, pur se potenzialmente favorevole, non rientra in alcuna delle ipotesi di revocabilità della sentenza ai sensi dell’art. 673 c.p.p., né rappresenta la possibile ragione di un intervento da parte del giudice della esecuzione in punto di rivedibilità post-giudicato della ola entità della sanzione” [21]. In tali casi, dunque, il principio di retroattività favorevole rileverebbe nella sua accezione debole, non essendo dotata di quella forza necessaria a scardinare la sacralità del giudicato. La legge, quale fonte primaria di produzione normativa, può essere abrogata solo da fonti di pari rango. L’assenza della regola dello stare decisis nell’ordinamento italiano comporta l’inevitabile annichilimento della portata vincolante del precedente giurisprudenziale promanante dalle Sezioni Unite. In virtù del principio di riserva di legge, le scelte di politica criminale divengono oggetto del monopolio parlamentare; esse discendono solo dalla voluntas legis e, mai, da regole di matrice giurisprudenziale. In qualunque momento, potrebbe verificarsi un fenomeno di overruling, la cui paternità è attribuibile tanto al giudice di merito quanto al giudice di legittimità: ciò purché si evidenzi un maggior scrupolo motivazionale nel corpo della sentenza che dia spazio al percorso motivazionale logico-giuridico seguito dal giudice che si pronuncia, discostandosi dal precedente. In tali peculiari circostanze, come asserito dalla Corte di Cassazione, lo strumento dell’incidente di esecuzione non è azionabile. A tal proposito, de iure condendo, ci si auspica un intervento normativo che chiarisca in modo pedissequo il tipo di rimedio da attivare nei casi di mutamento giurisprudenziale; risolutivo potrebbe essere proprio lo strumento dell’incidente di esecuzione, a condizione che ciò sia espressamente tipizzato dal legislatore. Fermo quanto fin qui specificato, è certo che l’overruling giurisprudenziale in malam partem operi solo pro futuro, ossia per i fatti criminosi commessi successivamente l’affermarsi del mutamento pretorio.