Il contesto emergenziale che ha caratterizzato il 2020 ha messo a dura prova anche l’ordinamento penale, con particolare riferimento alla tutela dell’operatore sanitario: i medici erano sufficientemente tutelati o era necessario intervenire con novelle legislative ad hoc?
1-. Con ordine, nel 2017 il legislatore approvò la cd. legge Gelli-Bianco (l. 8 marzo 2017, n. 24), che introdusse nel Codice penale l’art. 590 sexies; questo, sin da principio lasciò aperti diversi dubbi sia interpretativi che applicativi.
Nello specifico, la novella dispone che non sia punibile per colpa da imperizia il medico che abbia adeguatamente individuato e applicato le linee-guida al singolo caso clinico, ovviamente nel caso in cui si verifichi un evento lesivo (art. 590 c.p.) o luttuoso (art. 589 c.p.).[1]
In altre parole, viene richiesto al medico di saper identificare ex ante le linee-guida corrette rispetto al caso clinico e, successivamente, di applicarle nella maniera adeguata; ciò adempiuto, in caso di errore nella fase esecutiva, dovuto a imperizia, non sarebbe considerato punibile.[2]
Sembra, quindi, che la colpa lieve sia stata definita come una corretta scelta aprioristica delle linee-guida con conseguente adozione idonea delle medesime. Quel che residua, allora, è l’ipotesi di imperizia nella successiva gestione del caso concreto, con una rilevazione pratica molto limitata.
Pertanto, la culpa in eligendo – data da una scorretta individuazione della linea-guida – rientrerebbe in ogni caso nell’alveo della colpa generica (i.e.: negligenza, imprudenza o imperizia; vide art. 43 comma 3 c.p.), così da risultare sempre punibile, indipendentemente dal grado della stessa.
Sotto il secondo profilo, il cd. error in executivis, occorre fare una distinzione. Le ipotesi di colpa da imprudenza e negligenza sono sempre considerate punibili. Diversamente, nell’area dell’imperizia si può comprendere che sia punibile solo la colpa grave, ovvero quella derivante da una non perfetta adesione alla linea-guida precedentemente selezionata in maniera adeguata.
Resta, ad ogni modo, solo da comprendere dove ricadrebbe la colpa (da imperizia) nelle ipotesi di corretta individuazione e applicazione delle linee-guida, ma di verificazione dell’evento di lesioni o morte.
2-. Il problema attuale di questa disciplina è, però, il fatto che contempli solo casi clinici e situazioni già studiate e consolidate, tanto da aver dato luogo alla redazione di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali. Non offre, invece, al medico la medesima tutela nei casi non coperti (ancora) da linee-guida per i motivi più vari: una difficoltà particolare, l’evoluzione della scienza e delle tecniche mediche rispetto alle linee-guida esistenti o la novità della patologia (cd. in difficillimis rebus; vide art. 2236 c.c.). Quest’ultimo è il caso del Covid-19.[3]
È evidente, allora, che l’art. 590 sexies c.p. risulti inadeguato a fronteggiare l’emergenza sanitaria, che – oltre a dover essere affrontata con terapie ancora incerte non supportate da tecniche consolidate, falsificabili e attendibili per la comunità scientifica – ha presentato anche altri problemi: le strumentazioni e i posti in terapia intensiva erano insufficienti rispetto al numero di malati e mancavano professionisti sanitari, soprattutto virologi e infettivologi. Questa situazione drammatica ha dettato la necessità di assumere temporaneamente anche medici in pensione e specializzandi, spesso al di fuori del proprio campo di specializzazione.[4]
La SIAARTI e il CNB individuavano “criteri di accesso” alle terapie, raccomandando asetticamente i medici di compiere una drammatica scelta tra i soggetti clinici (sulla base di età, comorbilità e prognosi della risposta terapeutica), in ciò contravvenendo ad un principio cardine dell’ordinamento[5]: l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini (vide art. 3 Cost.), ma necessitas non habet legem.[6]
Preso, pertanto, atto dell’inadeguatezza dell’attuale precetto, occorre verificare quale sia la soluzione più adeguata al caso contingente.
2.1-. In primo luogo, l’art. 2236 c.c. – da tempo utilizzato in sede penale – prevede che in situazioni di particolare difficoltà il professionista non debba rispondere dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave. Il concetto di imperizia è ivi intrinseco, dal momento che si richiede al professionista di possedere delle conoscenze superiori rispetto a quelle di un uomo comune.[7]
Nonostante queste difficillimae res ben si adattino al contesto emergenziale, questa normativa non sposta di molto l’orizzonte applicativo dell’art. 590 sexies c.p.. In altra prospettiva, sempre limitatamente all’ipotesi di imperizia, limita la responsabilità unicamente alle ipotesi di colpa grave (o dolo, chiaramente).
Nondimeno, ammessa l’estensibilità alla sede penale di tale disciplina come causa di non punibilità, resta d’attualità il dubbio ermeneutico circa la portata della colpa grave ed anche l’individuazione di criteri certi di distinzione tra l’imperizia, la negligenza e l’imprudenza.
Eppure, se venisse proposta una definizione chiara e completa di colpa grave, che sia basata su parametri certi, in tal unico caso si potrebbe considerare non punibile la colpa lieve in generale (senza ulteriori distinzioni tra negligenza, imprudenza e imperizia).
L’unico aspetto costruttivo di questo precetto, che ha portato diversi autori a prenderlo in considerazione, è che sgancia la gravità della colpa dall’esistenza di linee-guida.[8]
2.2-. Diversamente, sul piano delle scelte dolorose con cui i medici sono stati chiamati a confrontarsi, parte della dottrina ha ritenuto di considerare lo stato di necessità (vide art. 54 c.p.) come soluzione.
È utile da subito ricordare che l’ordinamento lo inquadra come una scusante, dal momento che il soggetto agente è “costretto” a porre in essere una condotta antigiuridica sulla base di un «pericolo attuale di danno grave alla persona» e al fine unico di «salvare sé o altri» dal pericolo medesimo.
In questo senso, lo stato di necessità potrebbe indubbiamente garantire la non punibilità dei medici coinvolti nella gestione delle terapie anti-Covid-19, con un’esclusione totale della responsabilità.[9]
2.3-. Tuttavia, l’art. 54 c.p. non è adeguato a fronteggiare ogni altro aspetto della pandemia, pertanto occorre tornare alla norma generale sulla colpa e considerare l’effettiva efficacia dell’art. 43 c.p., che consente di tornare ad un concetto unitario di colpa.
Nell’eventualità – ormai più che eventuale – di un procedimento penale a carico di un professionista sanitario, si porrebbe in questo modo l’accento sull’elemento psicologico dell’azione, accantonando i concetti di colpa lieve e colpa grave[10].
In sede processuale, il giudice dovrebbe valutare in primo luogo la dimensione oggettiva della colpa, così rilevando la violazione o meno delle linee-guida; in un secondo momento, dovrebbe considerarne il profilo soggettivo, interrogandosi sulla condotta che un agente modello (homo eiusdem professionis et condicionis) avrebbe compiuto a parità di condizioni, soggettive ed oggettive, valutate ex ante.
Tale analisi ha come obiettivo la verifica dell’esigibilità di una condotta alternativa lecita e la prevedibilità concreta dell’evento. Evidentemente, le suddette verifiche dovranno tener conto della novità e degli aspetti non conosciuti della patologia e delle relative cure.[11]
In questo senso, il doppio grado della colpa impone che la valutazione non si arresti alla mera violazione di linee-guida.[12]
3-. È chiaro che il sopraggiungere della questione relativa ai vaccini abbia, poi, aperto nuovi dubbi e orizzonti normativi, motivo per cui il legislatore – dopo i precedenti tentativi di creare una normativa ad hoc – ha ritenuto opportuno creare uno “scudo penale” per i professionisti sanitari non più limitato alle prestazioni delle attività mediche nel contesto pandemico, ma esteso alla somministrazione dei vaccini contro il Covid-19. Il decreto-legge n. 44 del 2021 (convertito in legge 28 maggio 2021, n. 76) ha apportato due mutamenti degni di approfondimento.
Da un lato, l’art. 3 bis della legge in questione ha stabilito la punibilità delle condotte in analisi solo a titolo di colpa grave, prescindendo dalla classificazione eziologica (negligenza, imprudenza e imperizia) o dalla adozione di corrette linee-guida.
Contemporaneamente, il secondo comma dello stesso articolo offre un’indicazione del perimetro della colpa grave, escludendola in ragione della «limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza». Eppure, si può affermare che offra un criterio di valutazione della colpa grave unicamente basato su fattori indicativi da tenere in considerazione.
Del pari, all’art. 3 si prevede un’esclusione di punibilità per l’inoculazione dei vaccini autorizzati dal Ministero della salute.
Questa legge si pone in rapporto di specialità con l’art. 590 sexies c.p., in quanto applicabile solo in costanza di questa situazione emergenziale, e ha come conseguenza una maggiore ampiezza di tutela, essendo estendibile anche alle ipotesi di colpa lieve per imprudenza e negligenza.
L’utilità di questa norma, tuttavia, desta più di una perplessità, poiché probabilmente l’applicazione coerente delle categorie generali della colpa ben avrebbe potuto offrire un livello di tutela analogo; nondimeno, la novella ha il pregio di rassicurare il personale sanitario, delineando alcuni parametri di raffronto per la valutazione della sussistenza di una colpa grave, unica a poter rendere punibile le condotte professionali adottate in periodo emergenziale.[13]
In particolare, l’art. 43 c.p. è efficace, da un lato perché non contempla né una graduazione della colpa né una distinzione tra le tre tipologie di colpa generica; dall’altro lato, perché, per il tramite di un’analisi oggettiva e soggettiva della colpa in sede processuale, condurrebbe alla non punibilità di condotte oggettivamente colpose sulla base di una valutazione puramente soggettiva, considerando la totale imprevedibilità delle condizioni clinico-sanitarie e l’inesigibilità di condotte alternative.
4-. Date le considerazioni finora presentate, la tutela del personale sanitario secondo la più recente normativa risulta essere una chiarificazione di sintesi non del tutto necessaria, perché sarebbe bastata l’applicazione dell’art. 43 c.p., anche alla luce dell’applicabilità a titolo di scusante della disciplina dell’art. 2236 c.c..
Il giudice resta ancora una volta privo di concrete modalità e indicazioni cui potersi attenere con sicurezza.
In conclusione, la “legislazione dell’emergenza” ha una prospettiva miope rispetto alle reali necessità di ortopedia del Codice penale: sarebbe, perciò, auspicabile un intervento più organico, magari di integrazione dell’art. 590 sexies c.p., che introduca anche ipotesi di nuove patologie o di interventi rari e ad alto contenuto tecnico.