1. Introduzione
Il crescente processo di digitalizzazione, accelerato dall’avvento della pandemia da Covid-19, ha comportato un considerevole incremento dell’utilizzo del lavoro agile1, figura contrattuale destinata a divenire ormai un “new normal”2 tra quelle utilizzate dalle imprese3. Tale modello di lavoro, infatti, risulta idoneo, almeno sulla carta, a produrre conseguenze favorevoli per entrambi gli attori in gioco: da un lato, consente ai lavoratori di meglio conciliare le esigenze di vita e lavoro; dall’altro, permette alle imprese di risparmiare risorse energetiche e costi legati all’attività e, dunque, di incrementare la loro competitività sul mercato4.
A tali indubbi vantaggi, si contrappongono però profili di delicatezza che la delocalizzazione della prestazione lavorativa al di fuori degli ambienti fisici dell’impresa comporta.
In ambito di lavoro agile, infatti, diversi studi, effettuati sia a livello nazionale5 che internazionale6, hanno registrato una sempre più considerevole dilatazione della giornata (e, conseguentemente, anche della settimana) lavorativa7: anche quando siano previste, da contratti collettivi o da accordi individuali, delle fasce orarie per lo svolgimento della prestazione lavorativa, i lavoratori si trovano sempre più frequentemente a prestare la propria attività per un numero di ore superiore rispetto a quelle normalmente svolte nella giornata lavorativa prestata in ufficio8. Ciò comporta un progressivo assottigliamento della linea di demarcazione, che deve invece necessariamente sussistere e imporsi tra vita privata e vita professionale del lavoratore, con conseguente sviluppo dell’ormai noto fenomeno della c.d. “time porosity”9.
Con riguardo a tale questione, tuttavia, l’impianto normativo previsto dal Legislatore – costituito dalla Legge del 22 maggio 2017, n. 81 – risulta al quanto lacunoso, anche a seguito della recente integrazione avvenuta con l’approvazione del Protocollo Nazionale sul lavoro agile sottoscritto il 7 dicembre scorso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in persona del Ministro Orlando, e dalle sigle confederali maggiormente rappresentative su base nazionale10.
Tale deficit legislativo ha comportato, come era prevedibile, la nascita di numerose questioni legate all’equo bilanciamento tra tempo di connessione e diritto alla disconnessione che sempre più frequentemente risulta violato dalle imprese, a discapito dei lavoratori.
2. Il fenomeno dell'”overworking”
Ai sensi dell’art. 18, L. 81/2017, il lavoratore agile può collocare la propria prestazione lavorativa “entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”, senza nulla specificare in punto di orario “normale” giornaliero e/o settimanale. Anche il Protocollo del 7 dicembre 2021 stabilisce all’art. 3, co. 1, che “la giornata svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati”.
Questa grande elasticità è al contempo il beneficio e la possibile controindicazione al lavoro agile. Se la contrattazione collettiva o individuale (a dire il vero, disincentivate dalla decretazione emergenziale degli ultimi due anni11) possono delimitare precise “fasce orarie” entro le quali collocare la prestazione del lavoratore, in loro assenza ed applicando alla lettera il dato normativo la giornata lavorativa potrebbe protrarsi, anche ogni giorno della settimana, per 12 ore e 50 minuti, (ossia le ore totale di una giornata diminuite dei tempi di riposo e pausa minimi previsti dal d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, pari ad 11 ore e 10 minuti ogni 24 ore)12. Essenziale è che ciò non sia imposto da pratiche lavorative, e tempistiche, dettate dal datore di lavoro, quali ad esempio: (i) carichi eccessivi di lavoro da svolgere entro scadenze troppo ristrette; (ii) programmazione di riunioni e/o eventi formativi al di fuori dell’orario di ufficio; (iii) invio di mail, sms e telefonate al lavoratore a qualsiasi orario13.
Tali fattori inducono, infatti, il lavoratore all’iper-connessione e al c.d. overworking, costringendolo a rimanere sempre a disposizione del datore di lavoro ed a prestare la propria attività lavorativa al di fuori dell’orario stabilito, con evidente violazione del diritto a lavorare dignitosamente previsto dall’art. 36, co. 3 Cost., e dei suoi corollari, quali il diritto al rispetto di vincoli di orario, il diritto al riposo e il diritto a percepire una retribuzione realmente compensativa dell’effettiva attività prestata14.
Per limitare tali pratiche è necessario, dunque, che sia garantito ad ogni lavoratore – e dunque anche a coloro che svolgono la loro attività in modalità agile – il diritto, in determinate fasce orarie, di disconnettersi dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche utilizzate per svolgere la prestazione lavorativa, ovvero impostare i propri devices in modalità off-line15, senza che ciò possa comportare ripercussioni negative da parte del datore di lavoro (quali decurtazioni retributive o irrogazioni di sanzioni disciplinari).
Nel caso in cui, per ragioni organizzative e/o di produzione legate alla tipologia di attività prestata dal lavoratore, quest’ultimo debba continuare a rimanere connesso oltre l’orario stabilito, è opportuno che tale “straordinaria” ed ulteriore connessione venga adeguatamente retribuita, nel rispetto del principio di cui all’art. 36, co. 1 Cost.
3. Il diritto alla disconnessione
In punto di diritto alla disconnessione, la disciplina del lavoro agile pare alquanto manchevole, soprattutto relativamente al contenuto e alle modalità di garanzia dello stesso.
L’art. 19, co. 1, L. 81/2017 rubricato “Misure (…) volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, nel rinviare ad un accordo scritto tra le parti le modalità di ricorso al lavoro agile, stabilisce che lo stesso individui “altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”, rimettendo quindi alla libera autonomia delle parti il compito di stabilire le modalità di realizzazione della disconnessione e non inquadrando, neppure, la disconnessione in termini di diritto16.
Dall’analisi del dato normativo, emerge, inoltre, come il legislatore abbia omesso di prevedere una regolamentazione dell’istituto minima e inderogabile, finalizzata ad evitare abusi da parte del datore di lavoro della libertà contrattuale17, nonché di prevedere una sanzione applicabile nel caso in cui le parti omettano di stabilire nell’accordo le misure per realizzare il diritto in questione, conferendo alla previsione legislativa ulteriore “debolezza” e inidoneità a proteggere i beni giuridici in gioco18. Anche il recente Protocollo, sebbene sia evidente il tentativo delle parti firmatarie di specificare meglio la portata e i limiti del lavoro agile, non pare apportare in concreto un sostanziale miglioramento, lasciando l’istituto della disconnessione ancora sprovvisto di una disciplina in punto di regolamentazione e garanzie.
Lo stesso si limita, infatti, a stabilire che la prestazione possa essere articolata in fasce orarie: una di “disconnessione”, durante la quale “il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa”, ed una di “connessione”, durante la quale, invece, la stessa deve essere svolta19 e che deve rimanere tendenzialmente entro i confini dell’orario normale di lavoro20.
Tale distorsione contribuisce ad incrementare – anziché arginare – i fenomeni dell’iper-connessione e dell’overworking21.
La necessità di pervenire ad un quadro normativo di riferimento è stata, peraltro, recentemente espressa anche dal Parlamento europeo il quale, sottolineando come la digitalizzazione del lavoro implichi “l’intensificazione del lavoro e l’estensione dell’orario di lavoro, rendendo così meno netti i confini tra attività lavorativa e vita privata”, con conseguenti effetti sia sulla salute che sul benessere del lavoratore, ha chiesto alla Commissione europea di elaborare una normativa che riconosca la disconnessione, quale diritto fondamentale, e stabilisca gli standards da rispettare per il lavoro agile22. Sebbene, ad oggi, la Commissione non risulti ancora aver dato seguito alla proposta di direttiva avanzata dal Parlamento, si auspica un suo intervento in tempi brevi che costringa lo Stato ad integrare la disciplina del diritto di disconnessione garantendone l’effettività e la concreta applicazione.
4. La natura giuridica del tempo di connessione
Altra questione legata indissolubilmente al tema dell’iper-lavoro riguarda la qualificazione giuridica del tempo di connessione, da intendersi come quel tempo in cui il lavoratore è esposto alle continue sollecitazioni lavorative, rese possibili dai dispositivi tecnologici23.
Se da una parte, infatti, deve essere efficacemente garantito ai lavoratori il diritto alla disconnessione, dall’altra è altresì necessario che il tempo di connessione “extra-orario” venga adeguatamente retribuito e/o indennizzato da parte delle imprese.
Anche in questo senso, il legislatore non pare essere stato efficiente.
La disciplina dell’orario di lavoro prevista dal D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 risulta improntata ad una concezione binaria dei tempi24: i tempi legati all’attività lavorativa possono essere qualificati – in assenza di una categoria intermedia – o come orario di lavoro, ossia come tempo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro ed esercita la sua prestazione, o come periodo di riposo, da intendersi, invece, come “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro”25. Tale impostazione duale rende però incerta la collocazione di tutti quei tempi c.d. “intermedi”26 che non siano in senso stretto qualificabili né come orario di lavoro né come riposo e tra i quali rientra a tutti gli effetti il tempo di connessione.
A fornire un importante contributo in merito alla qualificazione di tali “tempi grigi”27 è stata la Corte di Giustizia dell’Unione europea che, attraverso un’attività interpretativa della nozione di orario, ne ha gradualmente esteso i confini28. Secondo la Corte, infatti, deve essere considerato orario di lavoro quel tempo sottoposto a vincoli di attività tali da “incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà”, del lavoratore, “di gestire liberamente il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale e di dedicare tale tempo ai propri interessi”29; conseguentemente, l’orario di riposo deve intendersi quale tempo svincolato dalle interferenze della sfera lavorativa ed entro il quale il lavoratore è libero di “gestire il suo tempo e di dedicarsi ai propri interessi”, realizzando la sua personalità in una dimensione individuale e collettiva30.
Alla luce dell’interpretazione elaborata dalla Corte della nozione di orario di lavoro, la dottrina maggioritaria ritiene che il periodo di connessione vada qualificato come “tempo di non lavoro”31, sull’assunto che la mera ricezione di messaggi o mail non impedirebbe al lavoratore di gestire liberamente il proprio tempo, né la sua libertà di movimento al di fuori dell’orario di lavoro. In queste circostanze, infatti, sarebbe rimessa alla libera scelta del lavoratore se trasformare o meno la semplice “connessione” in esercizio dell’attività lavorativa32.
Qualificare il tempo di connessione come tempo di non lavoro comporta, però, applicando la predetta impostazione binaria di cui al D.Lgs. 66/2003 (che non prevede una categoria intermedia di “tempo”), la riconduzione dello stesso al tempo di riposo con conseguente rischio di erosione del periodo minimo di riposo (11 ore e 10 minuti) e “una corrispettiva dilatazione del tempo dedicato alla sfera lavorativa, così ammettendo uno stato di «connessione permanente»”33.
Tale circostanza deve tuttavia ritenersi inammissibile34 alla luce dei valori costituzionali vigenti quali il rispetto del riposo giornaliero e settimanale ex art. 36, co. 2 e 3 Cost. e il diritto alla salute ex art. 32 Cost., che, se lesi, comporterebbero la violazione dell’art. 2087 c.c. con conseguente responsabilità del datore di lavoro per lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore35.
5. Il ruolo della contrattazione collettiva
Per far fronte alle problematiche suesposte ed al fine di integrare la disciplina normativa, si ritiene opportuno un intervento della contrattazione collettiva – nazionale o aziendale – quale fonte privilegiata di regolamentazione dello svolgimento del lavoro agile in grado di introdurre concrete modalità di esercizio della disconnessione/connessione36.
Le parti sociali potrebbero, infatti, prevedere, ad esempio, procedure di connessione da remoto, una relazione tra trattamento economico e risultato (anziché puntare l’attenzione sul fattore tempo e sull’orario di lavoro) e counseling psicologici periodici, nonchè espressamente pattuire, in accordo con l’impresa, periodi di connessione obbligatori a soddisfazione dell’interesse datoriale e alle esigenze dell’attività produttiva. In questo caso, la disponibilità alla chiamata costituirebbe “oggetto di un obbligo accessorio/integrativo dell’esecuzione della prestazione lavorativa”37 che sarebbe poi debitamente indennizzato al lavoratore per il sacrificio subito dallo stesso al proprio tempo libero e in ragione del corrispettivo soddisfacimento di cui si gioverebbe il datore di lavoro. La connessione, qualificata come obbligo, sarebbe del tutto assimilabile ai periodi di disponibilità e di reperibilità38 e quindi inquadrabile – al pari di essi – all’interno della categoria “orario di lavoro”, con conseguente computabilità della stessa nel calcolo della durata massima della giornata lavorativa che il lavoratore agile è tenuto a rispettare39.
In questa direzione si è certamente mosso il Protocollo del 7 dicembre 2021, il quale – demandando alle Parti sociali il compito di dare attuazione alle linee di indirizzo in esso definite nei diversi e specifici contesti produttivi – ha cercato di valorizzarne il ruolo nell’ambito della disciplina del lavoro agile40. Tuttavia, sebbene nel contesto europeo le parti sociali dimostrano di aver già da tempo intrapreso questa strada41, in Italia le stesse hanno svolto, almeno sino ad oggi, un ruolo meramente sussidiario se non addirittura nullo: si registra, infatti, come solo il 19% dei Contratti collettivi – nazionali42 o aziendali43 – trattino compiutamente il tema della disconnessione, lasciando sprovvisti di tutela la maggior parte dei lavoratori agili.
6. Conclusioni
Alla luce di quanto sin qui esposto, in mancanza di un intervento legislativo (preferibile), non rimane che auspicare una maggiore partecipazione da parte della contrattazione collettiva che, disciplinando compiutamente il tempo di connessione e le modalità di esercizio del diritto di disconnessione, costruisca un nuovo contesto lavorativo basato, più che sulla durata della prestazione lavorativa, sui risultati e la qualità della prestazione stessa44.
Infine, affinché il diritto alla disconnessione svolga efficacemente il ruolo per il quale è stato previsto, oggetto di cambiamento – oltre alle previsioni di legge e al ruolo delle parti sociali – deve essere la stessa mentalità dei lavoratori i quali non devono identificare la disconnessione come mero diritto, quanto piuttosto come una vera e propria necessità per la tutela della salute, propria e altrui, in una garanzia di produttività complessiva dell’impresa45.