1. La nozione di illecito amministrativo
Nel nostro ordinamento la nozione di illecito amministrativo (come quelle di illecito penale e di illecito civile) poggia su basi meramente formalistiche, di guisa che è tale il comportamento umano vietato dal sistema normativo e punito con una sanzione amministrativa.
La distinzione in ordine alla natura dell’illecito è, perciò, esclusivamente nominalistica e legata al tipo di sanzione irrogata in conseguenza della trasgressione: sono illeciti penali gli illeciti puniti con una sanzione penale, civili gli illeciti cui consegue una sanzione – latu sensu – civile e amministrativi gli illeciti assoggettati a sanzione amministrativa.
Le sanzioni amministrative possono essere pecuniarie, interdittive o ablatorie e sono comminate da un’Autorità amministrativa all’esito di un procedimento amministrativo culminante in un provvedimento detto ordinanza-ingiunzione(1).
Si definiscono pecuniarie le sanzioni che si sostanziano nel pagamento di una somma di denaro. Gli illeciti sanzionati con sole sanzioni pecuniarie sono disciplinati, anzitutto, dalla legge 689/1981 che rappresenta la disciplina generale dell’illecito amministrativo. Manca, invece, una previsione generale per gli illeciti amministrativi repressi con sanzioni interdittive o oblatorie, limitandosi il legislatore a prevedere disposizioni settoriali. Sono, invece, interdittive le sanzioni che interdicono, sospendono, rimuovono o destituiscono il sanzionato dallo svolgimento di un’attività, di un’arte, di un’industria, di una professione o di un mestiere. Sono ablatorie, infine, le sanzioni con le quali l’amministrazione sacrifica l’interesse di un privato, obbligandolo a un fare (ordini), a non un fare (divieti) o a un dare (atti di imposizione tributaria) o privandolo di un bene (espropriazione, requisizione, sequestro amministrativo e imposizione di servitù pubbliche) (2).
Le sanzioni amministrative in parola sono definite sanzioni amministrative proprie, poste a tutela di un interesse generale e non anche di un interesse pubblico, specifico, concreto ed attuale. Da esse vanno tenute distinte le sanzioni amministrative improprie «[…] intendendosi per tali l’insieme di strumenti di reazione alla violazione del precetto, non qualificati né disciplinati dal legislatore come sanzioni, e pur tuttavia aventi funzione afflittiva-punitiva, concorrente con altre funzioni» (3) e finalizzate alla tutela di un interesse pubblico, specifico, concreto ed attuale. Nella legge tributaria italiana, oltre che sanzioni vere e proprie, ad esempio, il legislatore prevede «[…]situazioni di svantaggio per il contribuente che abbia violato determinati obblighi, che possono essere di due tipi: 1) di carattere procedimentale, nel senso che al trasgressore vengono preclusi mezzi di tutela che altrimenti avrebbe o nel senso che vengono potenziati i normali poteri di accertamento dell’amministrazione; 2) di carattere sostanziale, nel senso che viene maggiorata l’imposta, negando l’applicazione di deduzioni, di detrazioni, elevando l’imponibile od assumendo come fatti tassabili elementi che diversamente non lo sarebbero» (4).
La ratio del sistema dell’illecito amministrativo va ravvisata nell’esigenza di deflazionare il contenzioso penale affidando ad una P.A. il potere punitivo altrimenti detenuto dal giudice penale, ferma restando la garanzia per il cittadino di poter ottenere, attraverso l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, “la restituzione” del potere afflittivo alla sua sede naturale, ovverosia all’Autorità giudiziaria, in funzione, però, di giudice civile.
È evidente, dunque, come anche l’illecito amministrativo risponda ad una esigenza di prevenzione di condotte considerate illecite per il legislatore, in relazione alle quali però, per la minor offensività al bene leso, si sceglie di escludere la sanzione penale. È evidente, altresì, che anche la sanzione amministrativa può avere – e di fatto spesso ha- una carica punitiva. Anche in relazione all’illecito amministrativo è stata, dunque, avvertita la necessità di preservare principi e regole di tutela dell’individuo che sono propri del diritto penale (5).
2. La successione nel tempo
D’altra parte, anche l’illecito amministrativo, come l’illecito penale, può essere investito da mutamenti legislativi nel tempo che danno luogo ad una successione di leggi e che pongono il problema di determinare i principi cui ricondurre il fenomeno, ai fini della determinazione della legge applicabile.
È possibile, anzitutto, che il legislatore intervenga introducendo un nuovo illecito amministrativo in relazione ad un fatto prima non sanzionato dall’ordinamento giuridico. In secondo luogo, può accadere che il legislatore abroghi una disciplina legislativa che prima contemplava un illecito amministrativo, come pure è possibile che il legislatore si limiti a modificare la disciplina dettata per l’illecito amministrativo. Ancora, la legge può trasformare un illecito penale in illecito amministrativo (c.d. depenalizzazione) ovvero mutare un illecito amministrativo in reato (c.d. penalizzazione).
In tutti questi casi occorre comprendere se, alla successione modificativa della legge, vadano o meno applicati i principi di irretroattività sfavorevole e di retroattività favorevole previsti in materia penale, fermo restando che in linea generale e per tutte le leggi l’articolo 11 delle Disposizioni preliminari al codice civile sancisce il divieto di applicazione retroattiva della legge di nuova introduzione.
Segue: Il principio di irretroattività sfavorevole
Al riguardo, non è revocabile in dubbio che anche agli illeciti sottoposti a sanzione amministrativa vada applicato il principio di irretroattività sfavorevole. Sia che la nuova legge preveda un illecito amministrativo prima non conosciuto dall’ordinamento giudicio, sia che inasprisca successivamente la sanzione amministrativa già contemplata, la modifica di sfavore non può essere applicata a fatti posti in essere prima.
Tutte le leggi, sia di carattere generale, sia di natura settoriale, sull’illecito amministrativo codificano, infatti, anche in materia di illeciti amministrativi, il principio di irretroattività sfavorevole. La legge 689/1981 che, come si è detto, è considerata la disciplina generale sull’illecito amministrativo, ad esempio, espressamente vieta all’articolo 1 di applicare retroattivamente la sanzione amministrativa di nuova introduzione.
Ci si chiede, però, se il principio di irretroattività sfavorevole degli illeciti e delle sanzioni amministrative abbia fondamento nelle sole fonti primarie che espressamente lo affermano ovvero possa dirsi fondato in Costruzione. Il quesito si svela rilevante in ordine al potere di deroga del legislatore primario. Se, infatti, il principio è affermato solo nella legge, il legislatore può ad esso apportare delle eccezioni con una nuova disposizione. Viceversa, ritenere che il principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo sia riconosciuto direttamente dalla Costituzione esclude ogni possibile deroga legislativa, salvi interventi di modifica costituzionale (6).
Sul punto, in dottrina ed in giurisprudenza, sono state sostenute due diverse tesi.
Per la posizione tradizionale (7), il principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo non trova fondamento in Costituzione, atteso che l’articolo 25, secondo comma, della Carta Costituzionale, nell’affermare il principio di irretroattività della legge di sfavore, si riferisce solo al reato e alla sanzione penale, e non anche a quella amministrativa.
Per l’orientamento de quo, non è possibile assimilare la sanzione amministrativa a quella penale poiché sola la sanzione penale può incidere sulla libertà personale, non anche la sanzione amministrativa. La tesi in esame, inoltre, ricorda come la scelta dei padri costituenti di riconoscere il principio di irretroattività in materia penale esprima la volontà costituzionale di limitare, in astratto, il potere del legislatore ordinario solo in relazione all’illecito penale.
La dottrina prevalente, al contrario, ritiene che anche il principio di irretroattività degli illeciti e delle sanzioni amministrative sia fondato in Costruzione. A tale conclusione l’orientamento maggioritario giunge, però, per il tramite di argomentazioni diverse e, in parte, incompatibili tra loro.
Secondo un primo indirizzo (8), il principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo è fondato direttamente nell’articolo 25 della Costituzione. Per questo approccio, la tutela della libertà di autodeterminazione del singolo cui è ispirato il fondamentale principio di irretroattività sfavorevole impone, anche in materia di illecito amministrativo, il divieto di applicazione retroattiva della previsione legislativa posteriore. Ad avviso di questa lettura, anche in relazione agli illeciti e alle sanzioni amministrative si ripropone l’esigenza, che è propria del diritto penale, di evitare che il soggetto possa essere sorpreso con una sanzione non prevedibile al tempo in cui ha commesso il fatto. L’agente, infatti, si lascia ispirare, nella determinazione del suo agere, anche dalle sanzioni amministrative vigenti e non può conoscere l’evoluzione normativa successiva. Per questa ricostruzione, inoltre, l’articolo 25 della Costituzione, nel parlare di “fatto punito” non si riferisce alle sole norme e sanzioni penali ma in generale alle sanzioni punitive, anche amministrative (9).
Anche una diversa ricostruzione (10) ha invocato, a fondamento del principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo, la libertà di autodeterminazione dell’individuo, rinvenendone però il referente costituzionale negli articoli 13 e 2 della Costituzione.
Altra impostazione (11) fonda, invece, poggia la regola della irretroattività sfavorevole degli illeciti amministrativi sul principio di ragionevolezza ed eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione. Per questo orientamento, sarebbe del tutto irragionevole applicare una sanzione amministrativa ad un fatto che al tempo in cui è stato posto in essere era lecito. Parimenti, sarebbe irragionevole e contraddittorio applicare una sanzione più severa ad un fatto che al momento della commissione era assoggettato ad una sanzione meno grave.
Per alcuni (12), poi, l’applicazione retroattiva dell’illecito amministrativo posteriore tradisce la funzione di prevenzione generale della sanzione, la quale non può avere alcuna efficacia dissuasiva per il passato.
Altra posizione (13), ancora, ha rintracciato il fondamento costituzionale del principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo negli articoli 41 e 42 della Costituzione, in relazione ai principi di libertà di iniziativa economica e di proprietà privata. Spesso, infatti, le sanzioni amministrative presentano un rilevante grado di incidenza sui citati diritti costituzionalmente garantiti e, per questo, la loro possibile applicazione deve essere conosciuta dal cittadino prima della trasgressione punita. Si fa riferimento a sanzioni pecuniarie di notevole ammontare, alle sanzioni amministrative ablatorie ed a quelle interdittive di attività economiche.
La ricostruzione oggi prevalente (14), però, ravvisa il fondamento del principio in parola nell’articolo 117 della Costituzione, letto alla luce dell’articolo 7 della Convenzione europei dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. L’orientamento muove dalla qualificazione sostanzialmente penale cui possono essere sottoposti taluni illeciti formalmente amministrativi, secondo i principi affermati della giurisprudenza della CEDU.
Come è noto, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (15) ha chiarito che, ai fini dell’applicazione dei principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, una sanzione formalmente qualificata come non penale può avere in concreto natura penale. Per la Corte, a prescindere dal nomen iuris dato all’illecito e alla sanzione nell’ordinamento giuridico domestico, la natura dell’infrazione va indagata sul piano sostanziale. Mentre, infatti, nell’ordinamento giuridico nazionale italiano la qualificazione di un fatto come reato è ancorata a rigidi criteri formalistici, di guisa che è reato ogni fatto umano sanzionato con una pena principale, per la CEDU la qualificazione di un illecito come reato non si fonda su soli criteri formali, ma anche e soprattutto, su valutazioni di tipo sostanziale. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha, nello specifico, elaborato nel corso degli anni i cc.dd. tre criteri Engel, alternativi tra loro, ma adottabili anche in cumulo, per ricostruire la natura dell’illecito (16). Trattasi del criterio della qualificazione formale, del criterio della natura dell’infrazione e del criterio della gravità e dello scopo della sanzione. Per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anzitutto, una sanzione è penale se è definita tale dalla legge nazionale. Si tratta, tuttavia, per i giudici della Corte EDU, di una qualificazione relativa e non definitiva, dovendosi vagliare la correttezza dello stesso dato formale alla luce degli ulteriori parametri indicativi del carattere eventualmente penale della sanzione. Per accertare la concreta natura del provvedimento e della sanzione ai fini dell’applicazione dei principi della CEDU occorre, infatti, valutare anche la natura sostanziale dell’illecito sanzionato. Essa può essere esaminata ricorrendo a fattori significativi del carattere penale della violazione (anch’essi di volta in volta elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU) (17) quali, ad esempio, la funzione repressiva o dissuasiva e non risarcitoria della sanzione, la comparazione della stessa con la qualificazione attribuita ad analoghi illeciti negli altri Stati firmatari della Convenzione, la provenienza dell’azione, l’entità del bene tutelato dalla norma. Ai fini della migliore qualificazione della violazione può essere, infine, necessario considerare il grado di severità della sanzione che rischia l’autore dell’illecito, tenendo conto del fatto che in uno Stato di diritto appartengono alla sfera del penalmente rilevante «[…] le privazioni della libertà personale suscettibili di essere comminate come sanzioni, eccezion fatta per quelle che per natura, durata o modalità di esecuzione non arrechino un danno apprezzabile all’agente» (18).
Applicando i criteri Engel, perciò, taluni illeciti formalmente amministrativi nell’ordinamento nazionale possono essere considerati penali per la CEDU ed, in tal caso, ad essi vanno applicati i principi riservati al diritto penale dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
Ci si riferisce alle garanzie del giusto processo (articolo 6 della CEDU), ai principi di irretroattività sfavorevole e di retroattività favorevole (articolo 7 della CEDU) e alla garanzia del ne bis in idem (di cui all’articolo 4 del Protocollo 7 della CEDU).
Ecco allora che, per l’indirizzo maggioritario, agli illeciti formalmente amministrativi che possono essere riqualificati come penali secondo i criteri in esame va applicato il principio di irretroattività sfavorevole.
Per questa ricostruzione interpretativa, quindi, il principio di irretroattività sfavorevole dell’illecito amministrativo è affermato all’articolo 117 della Costituzione, rilevando l’articolo 7 della CEDU come parametro interposto di costituzionalità.
Segue: Il principio di retroattività favorevole
Più problematico è, invece, comprendere se per gli illeciti amministrativi operi il principio di retroattività favorevole. Al riguardo, preme fin da subito evidenziare che l’articolo 1 della legge 689 del 1981 non conosce il principio di retroattività favorevole; la disposizione se da un lato, cioè, sancisce il principio di irretroattività di sfavore, dall’altro non afferma il principio di retroattività di favore.
Il principio di retroattività in bonam è, invece, espressamente richiamato da alcune leggi settoriali che riguardano specifici illeciti amministrativi. Così, ad esempio, il decreto legislativo 472 del 1997 in materia di illeciti amministrativi tributari, all’articolo 3, esplicitamente decreta l’applicabilità agli illeciti ivi regolati del principio di retroattività di favore. Parimenti, il decreto legislativo 231 del 2001 che disciplina la responsabilità amministrativa degli Enti conosce il principio di retroattività favorevole all’articolo 3. In alcuni specifici settori, dunque, il legislatore ha sentito l’esigenza di prevedere la regola della retroattività di favore, la quale tuttavia non è sancita in generale della legge 689 del 1981.
Sicché, ci si è chiesto, in dottrina ed in giurisprudenza, se l’assenza di una disciplina generale che disponga l’applicabilità del principio di retroattività favorevole in materia di illeciti amministrativi sia o meno compatibile con la Costituzione.
Sul punto, secondo un primo indirizzo (19), la mancanza di una generale previsione che fissi l’applicabilità anche agli illeciti amministrativi del principio di retroattività favorevole non contrasta con la Costituzione. Per questa tesi (20), la regola della retroattività favorevole opera per i soli reati, i quali soli possono incidere sulla libertà personale. Del resto, anche in materia penale il principio di cui si discorre, in quanto fondato implicitamente sull’articolo 3 della Costituzione, non è inderogabile. Il legislatore penale può, al ricorrere di situazioni contingenti, disporre deroghe ed eccezioni al principio di ultrattività della legge penale di favore, purché fondate su giustificazioni costituzionalmente ragionevoli. Diversamente dal divieto di applicazione retroattiva della legge sfavorevole, infatti, la regola dell’applicazione retroattiva della legge penale di favore non è un principio supremo, immodificabile. Pertanto, secondo questa impostazione di pensiero, se il principio di retroattività favorevole persino nel diritto penale è derogabile (nel rispetto del dogma della ragionevolezza), nel diritto amministrativo, rigidamente ispirato al principio di legalità, esso non può trovare riconoscimento.
Al contrario, però, la tesi largamente maggioritaria (21) sostiene che il principio di retroattività di favore operi anche per quegli illeciti amministrativi che, secondo i citati criteri Engel, sono qualificabili come sostanzialmente penali. La posizione rinviene, allora, nell’articolo 117 della Costituzione, letto in combinato con l’articolo 7 della CEDU, anche il fondamento del principio di retroattività favorevole dell’illecito amministrativo. Il filone interpretativo in parola (22) ha, per questo, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 689/1981 per contrasto con l’articolo 117 della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori di illeciti amministrativi posti in essere prima. La Corte Costituzionale (23), tuttavia, ha dichiarato non fondata la questione, ricordando che non tutti gli illeciti amministrativi sono sostanzialmente penali e, dunque, governati dall’articolo 7 della CEDU. La Corte ha, cioè, fatto proprio il principio sostenuto dall’indirizzo al vaglio ma ha escluso che l’articolo 1 della legge 689/1981 possa essere dichiarato incostituzionale una volta per tutte, dovendosi verificare invece, di volta in volta, la natura dei singoli illeciti amministrativi (24).
La pronuncia è stata, invero, criticata in dottrina (25) per la mancata dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’articolo 1 della legge 689/1981. Una declaratoria di illegittimità costituzionale avrebbe evitato, secondo l’opinione critica, ulteriori ordinanze di remissione alla Corte ed offerto maggiori certezze applicative ed offerto maggiori certezze applicative. Al di là di tali considerazioni, resta indubitabile, comunque, il riconoscimento da parte del Giudice delle Leggi del principio di retroattività favorevole anche in relazione agli illeciti amministrativi sostanzialmente penali secondo i criteri Engel.
Naturalmente, come per il diritto penale, il principio di retroattività favorevole dell’illecito amministrativo sostanzialmente penale può essere derogato dal legislatore, purché la deroga sia ragionevole. Ne consegue che, se il legislatore interviene con una disciplina di favore sull’illecito amministrativo prevedendo, però, apposite norme transitorie che vietano l’applicazione retroattiva della legge favorevole posteriore, occorre verificare in concreto la ragionevolezza dell’eccezione. Se la norma derogatoria è fondata su una giustificazione ragionevole essa è legittima, in caso contrario, invece deve essere considerata incostituzionale quando l’illecito è sostanzialmente penale secondo i criteri Engel.
Attese le statuizioni della Corte Costituzionale, resta da chiedersi, però, come garantire l’operatività della regola della retroattività favorevole dell’illecito amministrativo quando il legislatore si limiti ad introdurre un trattamento più mite di quello precedente, senza nulla disporre in ordine alle questioni di diritto intertemporale, senza prevedere cioè norme transitorie.
Al quesito sono state fornite due differenti risposte.
La prima, che sembra essere stata suggerita dalla stessa Corte Costituzionale del 2016, propone di sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di favore successiva nella parte in cui non prevede l’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa più favorevole (26). Per questa interpretazione, quindi, è necessario rimettere al vaglio della Corte Costituzionale proprio la norma che ha modificato la sanzione amministrativa sostanzialmente penale, nella parte in cui non ha previsto l’applicazione retroattiva della disciplina di favore.
Per altri (27), al vaglio di legittimità della Corte Costituzionale potrebbe essere rimesso lo stesso articolo 1 della legge 689/1981, non tout court (avendo la Corte già respinto detta questione) ma limitatamente all’illecito amministrativo oggetto dell’intervento di modifica favorevole.
Queste ricostruzioni muovono dalla considerazione che le norme CEDU, diversamente dalle norme di diritto dell’UE, non possono essere applicate direttamente dall’organo giudicante con disapplicazione della norma interna con esse contrastante, salvo gli obblighi di interpretazione conforme.
Per una seconda interpretazione, (28) al contrario, al giudice è addirittura consentito applicare direttamente il principio di retroattività favorevole affermato all’articolo 7 della CEDU, senza previamente rimettere la questione al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale. Ad avviso di questa tesi, in assenza di una norma nazionale di sbarramento che impedisca di dare applicazione alle regole della Convenzione, il giudice nazionale che, ricorrendo ai criteri Engel, si renda conto che l’illecito amministrativo è sostanzialmente penale, può dare diretta attuazione al principio di cui all’articolo 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in via di interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, anche nell’ottica di assicurare una migliore economia processuale.
Più complessa è invece l’ipotesi in cui il legislatore non si limiti a introdurre una disciplina di modifica favorevole ma abroghi l’illecito amministrativo, senza nulla disporre per i fatti pregressi.
Al riguardo, non è revocabile in dubbio che quando sul fatto non si è formato giudicato ovvero non è divenuto inoppugnabile il provvedimento applicativo della sanzione, la sanzione prevista dalla norma abrogata non possa essere più applicata. L’autore del fatto in sede di impugnazione potrà, ad esempio, eccepire l’abrogazione. Maggiori problemi sorgono quando la sentenza che applica la sanzione, in caso di opposizione, è passata in cosa giudicata ovvero è divenuto inoppugnabile l’atto applicativo della stessa. In detti casi, occorre comprendere se possa trovare applicazione la regola della caducazione del giudicato valevole per il diritto penale ai sensi dell’articolo 673 c.p.p. anche agli illeciti amministrativi che per la CEDU presentano natura sostanzialmente penale.
Al riguardo, la Corte EDU (29), ha in più occasioni escluso che il principio di retroattività favorevole sancito dall’articolo 7 della CEDU possa far venire meno il giudicato penale. Per i giudici di Strasburgo il principio di retroattività di favore incontra sempre il limite del giudicato, diversamente da quanto è previsto nell’ordinamento domestico. Poiché, allora, la riqualificazione dell’illecito da amministrativo a penale deve avvenire ai soli fini dell’applicazione dei principi che la CEDU riserva al diritto penale, e non di tutti i principi che nell’ordinamento nazionale sono dedicati al reato, per la lettura prevalente, in questi casi la sanzione non può venire meno.
Analoghe considerazioni sono state fatte in caso di declaratoria di incostituzionalità della norma che prevede l’illecito amministrativo. Al cospetto di tale ipotesi, ci si è chiesto se, anche all’illecito amministrativo posto in essere prima della pronuncia di incostituzionalità, possa essere applicato l’articolo 673 c.p.p. letto alla luce dell’articolo 30, comma 4, della legge 87/1953, come avviene in materia penale. Il problema naturalmente si pone per il solo caso in cui la sentenza che applica la sanzione è passata in cosa giudicata ovvero è divenuto inoppugnabile l’ordinanza ingiunzione.
Sul punto, per un orientamento interpretativo (30), anche all’illecito amministrativo che ha natura sostanzialmente penale deve applicarsi la disciplina di favore sancita per il diritto penale. Secondo questo indirizzo, tra le garanzie riservate al diritto penale dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo può essere annoverato il principio di legalità, a rigore del quale la sanzione punitiva deve trovare sempre referente nella legge. Pertanto, se la legge introduttiva è incostituzionale, viene a mancare il fondamento legale dell’illecito che, dunque, deve venir meno. Per questo indirizzo, perciò, anche la garanzia della inapplicabilità della norma incostituzionale deve essere estesa agli illeciti amministrativa sostanzialmente penali. Per l’indirizzo, poi, sarebbe irragionevole applicare il principio di retroattività di favore in caso di modifica legislativa e non applicarlo quando la legge addirittura presenta un vizio originario che la rende incostituzionale.
Ad avviso di un’altra ricostruzione interpretativa (31), al contrario, la regola in parola non si applica agli illeciti amministrativi, anche se sostanzialmente penali secondo i criteri Engel. La CEDU, diversamente dal diritto domestico, non contempla infatti alcun meccanismo di revoca del giudicato in applicazione di una legge incostituzionale e, pertanto, detto principio non può trovare applicazione neanche per gli illeciti amministrativi sostanzialmente penali. La riqualificazione dell’illecito amministrativo come panale, secondo i criteri fissati dalla giurisprudenza della Corte EDU, è infatti finalizzata ad assicurare l’applicazione delle sole garanzie dettate dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e non di tutte le garanzie che l’ordinamento nazionale riserva al reato. […] «L’attrazione di una sanzione amministrativa nell’ambito della materia penale, in virtù dei menzionati criteri Engel, trascina con sé soltanto le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni convenzionali non tutte le altre»(32). In caso contrario, infatti, l’intero sistema dell’illecito amministrativo dovrebbe essere messo in discussione atteso che, per il diritto penale nazionale, la pena può essere irrogata dal solo giudice e mai da un’Autorità amministrativa, nulla poena sine iudicio.
È invece, indiscusso che, in caso di dichiarazione di incostituzionalità di una legge di favore in materia di illecito amministrativo sostanzialmente penale, restano salvi gli effetti di favore prodotti per i fatti concomitanti, essendo questa regola diretta derivazione del principio di irretroattività sfavorevole.
Il descritto quadro di rapporti di diritto intertemporale tra leggi disciplinanti illeciti amministrativi si complica in caso di depenalizzazione.
3. La depenalizzazione
Ricorre depenalizzazione, secondo la lettura maggioritaria (33), allorquando un fatto, prima costituente reato, viene trasformato in illecito amministrativo dalla legge posteriore. La depenalizzazione è quindi il “declassamento” dell’illecito penale in illecito amministrativo, con la sostituzione della precedetene sanzione penale con una nuova sanzione amministrativa. Quando si verifica una depenalizzazione il legislatore esclude il rilievo penale di una condotta prima penalmente rilevante. La depenalizzazione dà, dunque, luogo ad un fenomeno abrogativo della legge penale a norma dell’articolo 2, comma 2, c.p. Pertanto, al fatto illecito posto in essere prima dell’intervento legislativo non potranno più essere applicate le pene previste dalla legge previgente e, se vi è stata sentenza penale di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. La nuova sanzione amministrativa si applicherà, invece, a tutti i fatti posti in essere dopo l’entrata in vigore della legge di depenalizzazione. È, però, controverso se, ai fatti commessi sotto il vigore della norma penale incriminatrice possa applicarsi la sanzione amministrativa introdotta dopo. La risposta all’interrogativo presuppone una preliminare distinzione tra l’ipotesi in cui il legislatore abbia previsto un regime transitorio e quella in cui difetti una norma transitoria per i fatti pregressi.
Laddove il legislatore manchi di introdurre apposita norma transitoria disponente l’applicazione della nuova sanzione amministrativa ai fatti posti in essere prima, ci si chiede se le condotte tenute all’epoca in cui il fatto costituiva reato possano o meno essere assoggettate alle nuove sanzioni amministrative, ferma l’inapplicabilità della pena precedentemente prevista. In altri termini, intervenuta una depenalizzazione, in mancanza di apposita norma sul punto, è controverso se il giudice penale, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, sia tenuto a trasmettere gli atti alla competente autorità amministrativa affinché applichi le sanzioni amministrative introdotte in luogo della depenalizzazione o se, invece, debba limitarsi a revocare le sanzioni penali eventualmente comminate e ad adottare i conseguenti provvedimenti.
Sul punto, secondo un primo orientamento (34), ai fatti pregressi dovrebbero essere sempre applicate le sanzioni introdotte con la depenalizzazione, sul duplice ed implicito presupposto che il fatto era già illecito prima della modifica legislativa (ed invero per esso era dettata una pena) e che la sanzione amministrativa è di norma più mite della sanzione penale. Con la depenalizzazione, infatti, il legislatore non esclude ogni rilevanza del fatto ma si limita a trasformarlo in un illecito amministrativo. Si ritiene, allora, che in simili ipotesi venga a mancare la ratio di tutela della libertà di autodeterminazione del soggetto cui è ispirato il principio di irretroattività sfavorevole. Si osserva, inoltre, che la soluzione opposta sarebbe contraria ai principi di giustizia sostanziale e ragionevolezza, lasciando impunito il fatto commesso nel tempo in cui era valutato più gravemente dall’ordinamento giuridico e punendolo al tempo in cui è considerato un mero illecito amministrativo (35). La tesi in parola fa, inoltre, leva sul disposto degli articoli 40 e 41 della citata legge 689/1981 per affermare la regola della generale applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative introdotte in presenza di una depenalizzazione (36). Gli articoli in questione, infatti, prevedono l’applicazione delle sanzioni amministrative ivi previste ai fatti precedenti alla depenalizzazione e, per l’orientamento in commento, hanno portata generale e si applicano a tutte le ipotesi di depenalizzazione. In questo senso, per l’indirizzo al vaglio, (37) la depenalizzazione costituisce una sorta di impropria successione modificativa della legge nel tempo ex articolo 2, comma 4, c.p. al cui ricorrere deve sempre applicarsi la disciplina successiva in quanto più favorevole per l’autore del fatto.
Va, però, evidenziato che un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale (38) giunge a conclusioni diametralmente opposte. Per l’orientamento di cui si discorre (39), con la depenalizzazione non si assiste ad una degradazione dell’illecito penale in illecito amministrativo ma ad un’abrogazione del reato con contestuale introduzione di un nuovo e autonomo illecito amministrativo. Per questa posizione, cioè, con la depenalizzazione il legislatore non si limita a trasformare un reato in illecito amministrativo ma introduce un nuovo illecito. Ad avviso di questa interpretazione, perciò, all’illecito oggetto dell’intervento legislativo, da un lato non possono applicarsi, per effetto dell’intervenuta abolitio criminis, le sanzioni penali previste dalla precedente legge e, dall’altro, non possono essere applicate le sanzioni amministrative di nuova introduzione in quanto inapplicabili retroattivamente. Secondo questa linea di pensiero, poi, dagli articolo 40 e 41 della legge 689/1981 non può ricavarsi una regola generale valevole in ogni caso di depenalizzazione, sia perché dai lavori preparatori della legge non parrebbe desumibile l’intenzione del legislatore di dare a tali articoli valenza generale, sia perché successive leggi di depenalizzazione si sono munite di disposizioni transitorie di analogo contenuto, della cui necessità di sarebbe potuto fare a meno se tali norme fossero state applicabili (40). Anzi, proprio tali disposizioni inducono l’indirizzo al vaglio a ritenere che, solo ove espressamente previsto, le sanzioni amministrative introdotte in luogo di una depenalizzazione possono ritenersi applicabili retroattivamente, non negli altri casi. D’altronde, la riqualificazione dell’illecito amministrativo come penale secondo le norme CEDU è consentita solo in bonam partem, ritenere invece in detti casi l’illecito sostanzialmente penale, e perciò soggiacente alle regole di cui alla CEDU, finisce per rendere applicabile una disciplina in concreto sfavorevole per il soggetto. A valore applicare la regola della retroattività favorevole, infatti, si giunge a comminare una sanzione amministrativa, laddove al contrario il soggetto resterebbe impunito. La tesi conclude, dunque, per l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative, in assenza di apposita norma sul punto, ai fatti precedenti anche se commessi al vigore della legge penale, con la conseguente impunità dei relativi autori (41).
Non è raro, però, come si è detto, che il legislatore in sede di depenalizzazione predisponga norme transitorie volte a consentire l’applicazione della nuova sanzione amministrativa ai fatti pregressi, commessi sotto la vigenza della legge penale. In dottrina ed in giurisprudenza, al riguardo, ci si è domandato se tali norme, nella misura in cui derogano al principio di irretroattività sfavorevole, siano costituzionalmente legittime Al riguardo, secondo un primo orientamento (42), tali disposizioni sono da considerarsi sempre legittime essendo la sanzione amministrativa più favorevole della pregressa pena. Per questa lettura, poi, il principio di irretroattività sfavorevole in materia di illecito amministrativo non è costituzionalizzato e, dunque, è derogabile (43). In ogni caso, avverte questa interpretazione, in presenza di una depenalizzazione difetta comunque la ratio sottesa al principio di irretroattività sfavorevole: se l’agente ha commesso il fatto sotto il vigore della più severa sanzione penale è indubitabile che lo avrebbe commesso anche in presenza di una più mite sanzione amministrativa.
Un più recente orientamento di pensiero (44), al contrario, ha osservato come le sanzioni amministrative, se in astratto e sotto un profilo meramente nominalistico, possono ritenersi meno gravi dell’illecito penale e della relativa sanzione, in concreto potrebbe essere vero il contrario.
Certamente, in linea di principio, la sanzione penale è più severa della sanzione amministrativa; anche la semplice sanzione penale pecuniaria (mula o ammenda) è di regola più afflittiva della sanzione amministrativa, essa sola potendo essere convertita in sanzione limitativa della libertà personale in caso di incapienza del patrimonio. Solo la sanzione penale, e non anche la sanzione amministrativa, può determinare infatti una compressione della libertà del soggetto (fatta eccezione per la sanzione amministrativa dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato (45)).Le pena produce, inoltre, conseguenze stigmatizzanti sulla condotta umana tenuta dal soggetto, effetti di cui di regola è priva la sanzione amministrativa (46).
Se questo è vero, tuttavia, anche la sanzione amministrativa può risultare in concreto fortemente punitiva, in misura uguale se non addirittura maggiore della sanzione penale. Ci si riferisce, ovviamente, agli illeciti amministrativi riqualificabili come penali secondo i criteri Engel. Potrebbe, pertanto, accadere che la sanzione amministrativa introdotta in luogo della depenalizzazione sia di fatto più severa della pregressa pena. In tal caso, risultando la stessa sostanzialmente penale (anche in coerenza con il principio che fa del diritto penale l’extrema ratio) l’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa posteriore può finire per contrastare con il principio di irretroattività sfavorevole. Per questa impostazione ermeneutica, dunque, in presenza di una depenalizzazione occorre valutare di volta in volta se la sanzione amministrativa di nuova introduzione sia in concreto più mite della precedente sanzione penale, dovendosi certamente escludere l’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa ove più sfavorevole della precedente pena. In questi casi, anzi, è d’uopo rimettere la questione di legittimità della norma transitoria alla Corte Costituzionale per contrarietà con l’articolo 117 della Costituzione, nella parte in cui elude l’applicazione del canone dell’articolo 7 della CEDU.
La soluzione descritta è stata valorizzata dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 223 del 2018 in materia di insider trading secondario. Come è noto, la disciplina dell’insider trading è stata oggetto di frequenti interventi legislativi nel tempo, per lo più a recepimento di direttive dell’UE (47). Le più importanti modifiche che hanno interessato la figura nel nostro ordinamento sono state però quelle apportate dalle riforme del 2005 e del 2018, con cui il legislatore ha depenalizzato l’illecito di insider trading secondario introducendo una serie di sanzioni amministrative, espressamente applicabili anche ai fatti pregressi (nonché applicabili, in aggiunta alle sanzioni penali, agli autori del reato di insider trading primario). Le sanzioni amministrative previste dalle leggi di depenalizzazione, però, sono risultate fortemente repressive ed incidenti sui diritti del destinatario. L’illecito di insider trading secondario è stato, infatti, assoggettato a sanzioni amministrative pecuniarie di elevatissimo ammontare (48), nonché a sanzioni interdittive, accompagnate dalla confisca non solo diretta ma anche per equivalente del prodotto e del profitto dell’illecito, in aggiunta alla pubblicazione della sentenza sui siti istituzionali della Banca d’Italia e della Consob (con conseguente effetto stigmatizzante). Diversamente dall’autore del reato di insider trading primario, l’autore dell’illecito di insider trading secondario, a seguito della depenalizzazione del 2005, evidenzia la Corte Costituzionale, non può beneficiare della sospensione condizionale della pena né, ratione temporis, avrebbe potuto godere dell’indulto previsto dalla legge 31 luglio 2006, n. 241. Investita della questione di legittimità della norma transitoria disponente l’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative successive, la Corte Costituzionale ha chiarito che le nuove sanzioni amministrative risultano in sostanza più afflittive delle sanzioni penali pregresse. Per questo, il Giudice delle Leggi ha dichiarato la parziale incostituzionalità della disciplina dell’insider trading nella parte in cui prevede l’applicazione ai fatti precedenti della sanzione amministrativa introdotta con la depenalizzazione. Invero, la pronuncia della Corte Costituzionale ha ad oggetto la sola sanzione della confisca per equivalente, unico profilo di legittimità rimessole dal giudice a quo. Essa è, tuttavia, destinata ad essere apprezzata in senso più ampio, in relazione a tutte le ipotesi di depenalizzazione. La Corte sembra affermare che, sebbene tendenzialmente la sanzione amministrativa sia più mite della pena penale, la maggiore afflittività della prima rispetto alla seconda non può essere esclusa, atteso che l’illecito formalmente amministrativo può celare una natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel. In simili casi, allora, la norma disponente l’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa posteriore è da ritenersi incostituzionale. In tale ultima ipotesi, resta fermo però che ai fatti pregressi, a cui è inapplicabile la sanzione amministrava di nuova introduzione più gravosa della precedente pena, sia inapplicabile anche la pregressa sanzione penale oggetto di abolitio criminis.
Il superamento della presunzione assoluta di maggior favore della sanzione amministrativa rispetto alla sanzione penale è stato recentemente recepito dallo stesso legislatore penale, in occasione della depenalizzazione operata dal D.lgs. n.8/2016. L’articolo 8, comma 1, di tale disposizione (49), infatti, ha previsto l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative ai fatti pregressi solo a condizione che si svelino più favorevoli delle precedenti pene. Naturalmente, la norma si riferisce ai soli illeciti amministrativi ivi depenalizzati e non ha carattere generale. Essa è, nondimeno, sintomatica del consolidarsi della nuova e più garantista lettura sviluppatasi intorno alle sanzioni amministrative inserite in un intervento di depenalizzazione.
Segue: La depenalizzazione della sanzione accessoria
Diverso da quanto finora esposto, è il fenomeno che si verifica allorquando il legislatore depenalizza la sola sanzione accessoria prevista per un reato. In tal caso, il reato resta tale perché ad essere sostituita con una sanzione amministrativa non è la pena principale ma quella accessoria. Si pensi alla norma con cui il legislatore ha reso sanzione amministrativa la confisca del veicolo per guida in stato di ebbrezza (50). In dette ipotesi, ci si chiede se operi o meno quanto finora affermato per la depenalizzazione del reato. Ovviamente, se il legislatore ha introdotto una norma transitoria che disponga l’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa, non sussistono problemi di diritto intertemporale. Quando però manca una norma transitoria, potrebbe ipotizzarsi l’applicabilità della stessa regola prevista per la depenalizzazione del reato in assenza di apposita previsione, con la conseguenza che la sanzione amministrativa non potrebbe più essere applicata ai fatti pregressi. Poiché, però, in detti casi non si assiste ad una depenalizzazione dell’illecito ma della sola sanzione accessoria, non è da escludere l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria anche i fatti accaduti prima.
4. La penalizzazione
Solo un cenno merita, infine, l’ipotesi inversa in cui ad un illecito amministrativo il legislatore sostituisca un reato (cd. penalizzazione). In questo caso, certamente il reato di nuova introduzione non può essere applicato retroattivamente a norma dell’articolo 25 della Costituzione e dell’articolo 2, comma 1 c.p. Ai fatti posti in essere prima della nuova incriminazione, quindi, continueranno ad essere applicate le sanzioni amministrative vigenti all’epoca della commissione del fatto. A ben guardare, però, potrebbe prospettarsi una soluzione differente nel caso in cui l’illecito penalizzato si presenti, già prima del formale intervento legislativo, sostanzialmente penale secondo i criteri Engel. In tale caso, infatti, potrebbero essere applicate le normali regole operanti per il diritto penale in presenza di una successione di leggi nel tempo. Così, se il nuovo reato è più mite della sanzione amministrativa precedente, ai fatti commessi prima della penalizzazione ma non ancora definiti, potrebbero essere applicate le sanzioni penali successive in virtù del principio di retroattività favorevole.