Estradizione “mascherata” richiesta dalla Russia: la Corte di Cassazione dice NO. Nota a Cassazione Penale, Sez. 6, sent. n. 10656/22

Articolo a cura dell’Avv. Domenico Palmisani Battaglia

Estradizione internazionale

Con sentenza n. 10656 depositata il 24 Marzo ultimo scorso, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha esaminato la domanda di estradizione avanzata dalla Confederazione russa nei confronti di una propria cittadina, ex appartenente al KGB.
Il Supremo Collegio, muovendo dalla premessa in forza della quale la persecuzione politica mascherata sotto forma di esercizio dell’azione penale per un delitto comune costituisce violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione e 5 e 14 della Convenzione EDU, ha rigettato la domanda di estradizione, trattandosi di rapporti caratterizzati da base convenzionale.
Ed infatti, secondo la pronuncia in commento, lo Stato richiesto ha facoltà di rifiutare l’estradizione solo qualora abbia concreti motivi per ritenere che si sia in presenza di una estradizione “mascherata”.
Di converso, ne discende come, qualora dal contenuto della domanda non emergano elementi idonei a ritener fondato tale pericolo, il condannato abbia l’onere di allegazione di elementi e circostanze idonei a fondare il timore che l’estradizione, di per sé, configuri la violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie, i Giudici di legittimità hanno ribaltato la decisione espressa dalla Corte di Appello, secondo cui nessuna prova sussisteva al riguardo.
I Giudice territoriali, invero, avevano ritenuto infondate le doglianze della ricorrente, la quale si era limitata a riproporre gli argomenti offerti a sostegno del “movente politico” che però rimangono a livello di mera affermazione, senza tuttavia indicare in quale momento la Corte avrebbe omesso di valutare, o valutato in maniera manifestamente illogica, elementi probatori o comunque seriamente indiziari della plausibilità della tesi persecutoria, ergo della fittizietà dell’estradizione.
La Cassazione ha accolto il gravame interposto, ravvisando una mancanza di motivazione in ordine alla esclusione del pericolo di trattamento carcerario in violazione dei diritti fondamentali, non essendosi la Corte di appello adeguatamente confrontata con la documentazione prodotta dalla difesa della ricorrente ma avendo espresso un generico riferimento alla relazione ministeriale.
L’estradanda (cittadina ucraina), invero, aveva allegato elementi oggettivi e precisi in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente (Russia), idonei a fondare il timore che dalla sua estradizione potesse conseguire un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona, considerato che la vicenda si innesta nell’ambito dell’attualissimo e drammatico conflitto bellico in Ucraina.
Ancora, l’arresto di legittimità in parola ha evidenziato come in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, c.p.p., la Corte di appello sia tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, in disparte il nomen iuris, consista effettivamente in un trattamento che vìoli i diritti fondamentali della persona.
In conclusione, come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza di legittimità, in tema di estradizione per l’estero, occorre valutare le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, anche avuto riguardo alle condizioni di salute e di età, ed eventualmente richiedendo garanzie in ordine alla possibilità che l’interessato possa continuare ad essere curato nelle strutture penitenziarie dello Stato richiedente.

La vicenda

La Corte di Appello Ambrosiana dichiarava sussistenti le condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione formulata dalla Confederazione Russa nei confronti di un’ex agente del KGB, imputata per il reato di “produzione, vendita, stoccaggio o vendita di prodotti, esecuzione di lavori o prestazioni di servizi che non soddisfano i requisiti di sicurezza”, commesso in Russia nel 2018.
In esecuzione di tale mandato, la Corte territoriale disponeva nei confronti dell’imputata la custodia cautelare in carcere, poi sostituita con gli arresti domiciliari, ulteriormente affievolita nell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria.
L’estradanda negava il consenso all’estradizione e non rinunciava al principio di specialità, mentre il Ministero della Giustizia chiedeva il mantenimento in vinculis e trasmetteva alla A.G. la domanda di estradizione presentata dal Governo della Confederazione Russa.
La Corte ha affermato che ricorressero i presupposti previsti per l’estradizione, indicando il titolo cautelare emesso dall’Autorità richiedente, la c.d. “doppia incriminazione” e l’assenza di cause ostative rispetto al titolo di reato, trattandosi di reato comune. L’estradanda era, infatti, imputata nell’ambito di una indagine per omicidio colposo plurimo in concorso con altri soggetti, in relazione a decessi avvenuti in una clinica privata, a seguito di interventi in cui risultavano utilizzati farmaci nocivi per la salute, acquistati dal comparto amministrativo in cui la ricorrente lavorava come funzionario.
La Corte di Appello di Milano, ancora, riteneva insussistente il pericolo di atti persecutori e discriminatori e soddisfacenti le condizioni di detenzione presso il Paese richiedente, così come garantite dalla nota proveniente dal Procuratore Federale russo trasmessa dal Ministero degli Affari Esteri.
Il provvedimento – poi riformato dalla Corte di Cassazione – disattendeva le deduzioni difensive in relazione alle condizioni di salute dell’estradanda che, secondo quanto prospettato, non avrebbero consentito adeguate cure nel Paese richiedente l‘estradizione, non essendo neppure iniziate, peraltro da svolgersi presso una clinica privata.

La sentenza della Corte di Cassazione

Il Supremo Collegio, con la pronuncia in esame, ha invece condiviso le argomentazioni della difesa della ricorrente avuto riguardo al vizio di motivazione da cui sarebbe stata inficiata la sentenza del Giudice di merito.
Nello specifico, la decisione di legittimità con la quale è stata negata l’estradizione ha considerato che la Corte di Appello di Milano non abbia motivato in relazione alla esclusione del pericolo di trattamento carcerario in violazione dei diritti fondamentali.
Secondo il Supremo Collegio, infatti, l’impegno motivazionale non poteva limitarsi, al fine di escluderne la rilevanza, al mero, generico, richiamo alla relazione ministeriale alle “rassicuranti informazioni” pervenute dalla Autorità giudiziaria russa.
L’estradanda, infatti, ha adempiuto all’onere di allegare elementi oggettivi, precisi, attendibili e aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente, idonei a fondare il timore che la sua estradizione sia in realtà il pretesto per porre in essere ai suoi danni un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona, come sanciti dalla Convenzione Europea.

Ed invero, secondo la Corte di Cassazione, dette valutazioni si rivelano ancora più pregnanti se contestualizzate con riferimento ai recenti drammatici sviluppi della situazione di guerra in Ucraina.
Sotto diverso profilo, il Supremo Consesso ha evidenziato che in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., la Corte di appello sia tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, al netto di ogni denominazione formale, consista effettivamente in un trattamento che violi i diritti fondamentali della persona.
In tal senso, di contro, la verifica effettuata dalla Corte di appello in ordine alla tipologia di pena prevista per il reato oggetto della estradizione processuale risulta carente, atteso che la nota inviata allo Stato richiedente dal Ministero della giustizia italiano aveva ad oggetto soltanto le informazioni integrative relative al trattamento carcerario riservato all’estradanda.
La pronuncia in commento ha censurato l’iter motivazionale dei giudici meneghini, i quali avrebbero dovuto accertare se la pena prevista dal codice penale russo in alternativa a quella detentiva – sempre al netto di ogni “truffa delle etichette”, quindi della traduzione in lingua italiana della sua denominazione, (“lavori forzati”), che sembra evocare un trattamento disumano e degradante – consista in concreto in una modalità esecutiva della pena che contrasta con i diritti fondamentali della persona, come tale ostativa alla estradizione in base al combinato disposto degli artt. 698, comma 1, e 705, comma 2, lett. c) c.p.p.
Da ultimo, la Corte di Cassazione, con la sentenza in parola, ha accolto i motivi di ricorso concernenti la compatibilità della richiesta di estradizione con le condizioni di salute della ricorrente.
La pronuncia rescindente, infatti, ha positivamente valorizzato la documentazione clinica allegata dalla difesa, cui la Corte territoriale ha risposto  con motivazione non adeguata, semplicemente richiamando il carattere sperimentale delle cure e la loro ipoteticità, a fronte di certificati provenienti da uno specialista dell’Ospedale San Raffaele di Milano, che fornisce altresì una precisa calendarizzazione delle terapie da eseguirsi.
Com’è noto, questa decisione si inserisce nel solco di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di estradizione per l’estero, la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, valutando, oltre alle condizioni generali di detenzione esistenti nelle carceri dello Stato richiedente, anche le condizioni di salute e di età dell’estradando in relazione alle specifiche condizioni di detenzione ed eventualmente richiedendo garanzie in ordine alla possibilità che l’interessato possa continuare ad essere curato nelle strutture penitenziarie dello Stato richiedente.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, è stata annullata la sentenza, con rinvio a diversa sezione della Corte di appello di Milano per un nuovo giudizio con riguardo ai punti relativi al trattamento carcerario e alle condizioni di salute.
Si tratta, con ogni evidenza, di una valutazione coerente con il principio di personalizzazione e rieducazione della pena, estremamente rafforzati a seguito del celebre caso Torreggiani, che ha visto la Corte di Strasburgo sanzionare l’Italia proprio per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti garantito dall’art. 3 Cedu.

estradizione internazionale

Con sentenza n. 10656 depositata il 24 Marzo ultimo scorso, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha esaminato la domanda di estradizione avanzata dalla Confederazione russa nei confronti di una propria cittadina, ex appartenente al KGB.
Il Supremo Collegio, muovendo dalla premessa in forza della quale la persecuzione politica mascherata sotto forma di esercizio dell’azione penale per un delitto comune costituisce violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione e 5 e 14 della Convenzione EDU, ha rigettato la domanda di estradizione, trattandosi di rapporti caratterizzati da base convenzionale.
Ed infatti, secondo la pronuncia in commento, lo Stato richiesto ha facoltà di rifiutare l’estradizione solo qualora abbia concreti motivi per ritenere che si sia in presenza di una estradizione “mascherata”.
Di converso, ne discende come, qualora dal contenuto della domanda non emergano elementi idonei a ritener fondato tale pericolo, il condannato abbia l’onere di allegazione di elementi e circostanze idonei a fondare il timore che l’estradizione, di per sé, configuri la violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie, i Giudici di legittimità hanno ribaltato la decisione espressa dalla Corte di Appello, secondo cui nessuna prova sussisteva al riguardo.
I Giudice territoriali, invero, avevano ritenuto infondate le doglianze della ricorrente, la quale si era limitata a riproporre gli argomenti offerti a sostegno del “movente politico” che però rimangono a livello di mera affermazione, senza tuttavia indicare in quale momento la Corte avrebbe omesso di valutare, o valutato in maniera manifestamente illogica, elementi probatori o comunque seriamente indiziari della plausibilità della tesi persecutoria, ergo della fittizietà dell’estradizione.
La Cassazione ha accolto il gravame interposto, ravvisando una mancanza di motivazione in ordine alla esclusione del pericolo di trattamento carcerario in violazione dei diritti fondamentali, non essendosi la Corte di appello adeguatamente confrontata con la documentazione prodotta dalla difesa della ricorrente ma avendo espresso un generico riferimento alla relazione ministeriale.
L’estradanda (cittadina ucraina), invero, aveva allegato elementi oggettivi e precisi in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente (Russia), idonei a fondare il timore che dalla sua estradizione potesse conseguire un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona, considerato che la vicenda si innesta nell’ambito dell’attualissimo e drammatico conflitto bellico in Ucraina.
Ancora, l’arresto di legittimità in parola ha evidenziato come in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, c.p.p., la Corte di appello sia tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, in disparte il nomen iuris, consista effettivamente in un trattamento che vìoli i diritti fondamentali della persona.
In conclusione, come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza di legittimità, in tema di estradizione per l’estero, occorre valutare le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, anche avuto riguardo alle condizioni di salute e di età, ed eventualmente richiedendo garanzie in ordine alla possibilità che l’interessato possa continuare ad essere curato nelle strutture penitenziarie dello Stato richiedente.

La vicenda

La Corte di Appello Ambrosiana dichiarava sussistenti le condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione formulata dalla Confederazione Russa nei confronti di un’ex agente del KGB, imputata per il reato di “produzione, vendita, stoccaggio o vendita di prodotti, esecuzione di lavori o prestazioni di servizi che non soddisfano i requisiti di sicurezza”, commesso in Russia nel 2018.
In esecuzione di tale mandato, la Corte territoriale disponeva nei confronti dell’imputata la custodia cautelare in carcere, poi sostituita con gli arresti domiciliari, ulteriormente affievolita nell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria.
L’estradanda negava il consenso all’estradizione e non rinunciava al principio di specialità, mentre il Ministero della Giustizia chiedeva il mantenimento in vinculis e trasmetteva alla A.G. la domanda di estradizione presentata dal Governo della Confederazione Russa.
La Corte ha affermato che ricorressero i presupposti previsti per l’estradizione, indicando il titolo cautelare emesso dall’Autorità richiedente, la c.d. “doppia incriminazione” e l’assenza di cause ostative rispetto al titolo di reato, trattandosi di reato comune. L’estradanda era, infatti, imputata nell’ambito di una indagine per omicidio colposo plurimo in concorso con altri soggetti, in relazione a decessi avvenuti in una clinica privata, a seguito di interventi in cui risultavano utilizzati farmaci nocivi per la salute, acquistati dal comparto amministrativo in cui la ricorrente lavorava come funzionario.
La Corte di Appello di Milano, ancora, riteneva insussistente il pericolo di atti persecutori e discriminatori e soddisfacenti le condizioni di detenzione presso il Paese richiedente, così come garantite dalla nota proveniente dal Procuratore Federale russo trasmessa dal Ministero degli Affari Esteri.
Il provvedimento – poi riformato dalla Corte di Cassazione – disattendeva le deduzioni difensive in relazione alle condizioni di salute dell’estradanda che, secondo quanto prospettato, non avrebbero consentito adeguate cure nel Paese richiedente l‘estradizione, non essendo neppure iniziate, peraltro da svolgersi presso una clinica privata.

La sentenza della Corte di Cassazione

Il Supremo Collegio, con la pronuncia in esame, ha invece condiviso le argomentazioni della difesa della ricorrente avuto riguardo al vizio di motivazione da cui sarebbe stata inficiata la sentenza del Giudice di merito.
Nello specifico, la decisione di legittimità con la quale è stata negata l’estradizione ha considerato che la Corte di Appello di Milano non abbia motivato in relazione alla esclusione del pericolo di trattamento carcerario in violazione dei diritti fondamentali.
Secondo il Supremo Collegio, infatti, l’impegno motivazionale non poteva limitarsi, al fine di escluderne la rilevanza, al mero, generico, richiamo alla relazione ministeriale alle “rassicuranti informazioni” pervenute dalla Autorità giudiziaria russa.
L’estradanda, infatti, ha adempiuto all’onere di allegare elementi oggettivi, precisi, attendibili e aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente, idonei a fondare il timore che la sua estradizione sia in realtà il pretesto per porre in essere ai suoi danni un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona, come sanciti dalla Convenzione Europea.

Ed invero, secondo la Corte di Cassazione, dette valutazioni si rivelano ancora più pregnanti se contestualizzate con riferimento ai recenti drammatici sviluppi della situazione di guerra in Ucraina.
Sotto diverso profilo, il Supremo Consesso ha evidenziato che in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., la Corte di appello sia tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, al netto di ogni denominazione formale, consista effettivamente in un trattamento che violi i diritti fondamentali della persona.
In tal senso, di contro, la verifica effettuata dalla Corte di appello in ordine alla tipologia di pena prevista per il reato oggetto della estradizione processuale risulta carente, atteso che la nota inviata allo Stato richiedente dal Ministero della giustizia italiano aveva ad oggetto soltanto le informazioni integrative relative al trattamento carcerario riservato all’estradanda.
La pronuncia in commento ha censurato l’iter motivazionale dei giudici meneghini, i quali avrebbero dovuto accertare se la pena prevista dal codice penale russo in alternativa a quella detentiva – sempre al netto di ogni “truffa delle etichette”, quindi della traduzione in lingua italiana della sua denominazione, (“lavori forzati”), che sembra evocare un trattamento disumano e degradante – consista in concreto in una modalità esecutiva della pena che contrasta con i diritti fondamentali della persona, come tale ostativa alla estradizione in base al combinato disposto degli artt. 698, comma 1, e 705, comma 2, lett. c) c.p.p.
Da ultimo, la Corte di Cassazione, con la sentenza in parola, ha accolto i motivi di ricorso concernenti la compatibilità della richiesta di estradizione con le condizioni di salute della ricorrente.
La pronuncia rescindente, infatti, ha positivamente valorizzato la documentazione clinica allegata dalla difesa, cui la Corte territoriale ha risposto  con motivazione non adeguata, semplicemente richiamando il carattere sperimentale delle cure e la loro ipoteticità, a fronte di certificati provenienti da uno specialista dell’Ospedale San Raffaele di Milano, che fornisce altresì una precisa calendarizzazione delle terapie da eseguirsi.
Com’è noto, questa decisione si inserisce nel solco di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di estradizione per l’estero, la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, valutando, oltre alle condizioni generali di detenzione esistenti nelle carceri dello Stato richiedente, anche le condizioni di salute e di età dell’estradando in relazione alle specifiche condizioni di detenzione ed eventualmente richiedendo garanzie in ordine alla possibilità che l’interessato possa continuare ad essere curato nelle strutture penitenziarie dello Stato richiedente.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, è stata annullata la sentenza, con rinvio a diversa sezione della Corte di appello di Milano per un nuovo giudizio con riguardo ai punti relativi al trattamento carcerario e alle condizioni di salute.
Si tratta, con ogni evidenza, di una valutazione coerente con il principio di personalizzazione e rieducazione della pena, estremamente rafforzati a seguito del celebre caso Torreggiani, che ha visto la Corte di Strasburgo sanzionare l’Italia proprio per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti garantito dall’art. 3 Cedu.