1. La cooperazione giudiziaria in materia penale: ratio e limiti
In un contesto ormai globalizzato, appare sempre più sentita l’esigenza di sviluppare efficaci relazioni di collaborazione giudiziaria ed elaborare idonei strumenti normativi al riguardo. Ciò nasce dal bisogno di far fronte allo sviluppo di una criminalità senza confini, agevolato da condizioni particolarmente favorevoli, quali la diffusione delle moderne tecnologie di comunicazione, l’espansione dei mercati finanziari e della loro agevole possibilità di accesso, i profondi mutamenti istituzionali intervenuti in alcune aree geografiche1.
Tuttavia, come ampiamente osservato in dottrina2, gli strumenti della cooperazione giudiziaria sono risultati – e continuano a risultare – inadeguati, costituendo un rilievo particolare nell’ambito delle politiche dell’Unione europea in cui “le frontiere sono interamente cadute per le persone e per le attività economiche, ma continuano a valere per le attività giudiziarie, ostacolando le indagini, i processi e l’esecuzione dei provvedimenti giudiziari”3.
Per tali ragioni, nel corso del tempo, il principio di sovranità statale ha necessariamente subito delle attenuazioni fondate su una parziale rinuncia da parte dello Stato competente alla propria giurisdizione, in favore di quello al quale viene rivolta la richiesta di collaborazione internazionale, tant’è vero che le prime forme di cooperazione internazionale hanno avuto proprio finalità estradizionali4.
Nell’ambito della cooperazione giudiziaria, infatti, quello dell’estradizione è l’istituto di matrice più antica, volto a disciplinare “i rapporti fra uno Stato, che ricerca una persona per eseguire nei suoi confronti una sentenza di condanna a pena detentiva o un altro provvedimento restrittivo della libertà personale, e lo Stato (c.d. di rifugio) nel quale la persona si trova”5.
Esso si fonda su forme di cooperazione intergovernativa (tra lo Stato richiedente e lo Stato richiesto), che implicano, oltre al filtro di carattere politico, un lungo iter procedimentale, posto che per l’avvio e per le eventuali richieste di informazioni complementari viene di regola utilizzato il canale diplomatico.
In ambito europeo un ruolo fondamentale nella costruzione di una disciplina estradizionale, che superasse la frammentazione politico-giuridica dei singoli Stati, è stato giocato dalla Convenzione europea di estradizione, elaborata in seno al Consiglio d’Europa e sottoscritta a Parigi il 13 dicembre 19576 (c.e.estr.), poi completata da due Protocolli addizionali stipulati a Strasburgo nel 1975 e nel 1978. La convenzione europea di estradizione tuttora disciplina questo istituto tra gli Stati che l’hanno ratificata e che non appartengono all’Unione Europea, in quanto attraverso il mandato d’arresto europeo, introdotto a partire dalla decisione-quadro del 2002, le procedure di consegna tra gli Stati membri dell’Unione Europea è stato ampiamente modificato.
Nell’ordinamento italiano, in virtù del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 696 c.p.p., comma 3, la disciplina contenuta nel Codice di rito, relativamente all’istituto dell’estradizione, trova applicazione solo quando le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale, «mancano o non dispongono diversamente»7.
Tuttavia, la recente dottrina ha chiarito che le disposizioni del codice non sono relegate ad un ruolo marginale, nonostante l’affermata sussidiarietà delle stesse rispetto alle fonti internazionali, rimanendo ad esse affidata non solo la regolamentazione dell’estradizione extra-convenzionale, ma anche la disciplina dei rapporti estradizionali con Stati con i quali, pur esistendo un vincolo pattizio, le norme convenzionali applicabili richiedono integrazioni o consentono deroghe.8
Un evidente limite al ricorso a tale istituto è, giustamente, rappresentato dal rispetto delle norme dettate in tema di tutela dei diritti umani9, quali il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, di discriminazione, di violazione dei principi fondamentali di un equo processo (inclusa la presunzione di innocenza), nonché il divieto di detenzione arbitraria10.
Tale limite è servito, altresì, anche per arginare una prima fase del percorso di integrazione europea, nel quadro della cooperazione giudiziaria penale e di polizia, avente carattere prettamente repressivo nonché per allinearlo alle imposte garanzie processuali.
Altra peculiarità della procedura di consegna estradizionale è data dal fatto che, a differenza dell’unica pronuncia – quella giurisdizionale – operante nella procedura di consegna occasionata dall’emissione del mandato d’arresto europeo, nel procedimento di estradizione si instaura un particolare rapporto tra due determinazioni: la Corte d’appello – concluso il controllo sui requisiti della domanda – decide con sentenza favorevole o contraria all’estradizione; la decisione determina l’apertura della fase amministrativa finale spettante al Ministro della giustizia con un provvedimento di Alta amministrazione e, quindi, caratterizzato da ampia discrezionalità, sebbene non sottratto al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute dall’autorità politica-amministrativa, in quanto tale valutazione non dovrebbe risolversi in mere considerazioni di “opportunità politica”, ma esigere parametri oggettivi, da verificare caso per caso.
2. L’introduzione del M.A.E e le continue esigenze di riforma
Le disfunzioni emerse in passato hanno dato voce ad un ormai irreversibile processo evolutivo, volto alla trasformazione dei meccanismi tradizionali della cooperazione tra Stati in una cooperazione fra giurisdizioni, ovvero una direzione che può definirsi di giustizia transnazionale o addirittura, come da taluni prefigurato, di una progressiva «integrazione tra le giurisdizioni11» limitando, nei limiti del consentito, l’ “ingerenza” del potere politico.
Molti dei nodi problematici emersi nel funzionamento dei rapporti inter-giurisdizionali, tuttavia, si è cercato di affrontarli in sede di attuazione delle deleghe conferite al Governo in virtù della Convenzione di Bruxelles relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale del 29 maggio 2000 (artt. 3 e 4 della legge 21 luglio 2016, n. 149)12. L’accoglimento del principio del mutuo riconoscimento ha determinato sviluppi importanti nella cooperazione giudiziaria penale. In attuazione della delega suddetta l’emanazione del d.lgs. n. 149/2017 ha interessato quasi tutte le disposizioni del Libro XI del codice di procedura penale13: il legislatore si è dunque mosso nel senso di una depoliticizzazione dei rapporti in materia di assistenza giudiziaria prevista dai criteri di delega14, che sanciscono prevalentemente la diretta corrispondenza tra le autorità giudiziarie dei Paesi dell’Unione europea.
A quello del mutuo riconoscimento, però, dev’essere affiancato l’altro principio cardine della materia in esame, ovvero quello della reciprocità: da sempre correlato al principio di mutua assistenza, in virtù di esso può darsi corso ad uno strumento di cooperazione solo quando lo Stato richiedente offra le stesse garanzie circa la possibilità di utilizzare lo stesso strumento da parte dello Stato richiesto. Ciò implica l’esistenza di un “filtro politico” ossia un controllo volto a stabilire se sussiste la possibilità di poter utilizzare lo stesso mezzo nella stessa misura in cui se ne consente l’utilizzo nel proprio ordinamento.
Tuttavia, nel tempo la dottrina ha osservato come tale principio, che in passato aveva avuto una notevole importanza, col tempo sia diventato meno rilevante, perché gli strumenti della cooperazione giudiziaria sono sempre più visti come un mezzo di grande efficacia per combattere la criminalità transnazionale piuttosto che come mero strumento di contrattazione politica e di concessione di favori reciproci tra Stati.
Il riformato comma 4 dell’art. 696 c.p.p. prevede, infatti, che il Ministro della giustizia «in ogni caso» possa non dar corso alle domande di “cooperazione giudiziaria” se lo Stato richiedente non dia idonee garanzie di reciprocità.
A questo punto, però, sorge la necessità di conciliare il principio del mutuo riconoscimento, che poggia su una “reciproca fiducia” tra Stati elidendo il controllo dell’organo politico, con il principio di reciprocità che invece si fonda su tale “filtro politico”. Tale aspetto rappresenterebbe, quindi, un esplicito ritorno al passato ed inoltre, “fino a quando gli interventi normativi saranno cauti, e soprattutto in larga parte succubi degli orientamenti “consolidati” della giurisprudenza, pare difficile che si possa fare di più”15.
Così come, un chiaro “ritorno al passato” si è avuto – tanto da richiedere un recente intervento di riforma di cui si dirà infra – con l’emanazione della l. 69 del 2005 istitutiva del mandato d’arresto europeo.
Il mutuo riconoscimento16 definito come “pietra angolare”17 della cooperazione giudiziaria è il principio secondo il quale le decisioni dei giudici penali o di altre autorità assimilate di uno Stato membro devono essere riconosciute dai giudici o dalle autorità assimilate degli altri Stati membri ed eseguite allo stesso modo delle proprie.
La crescente rilevanza del principio sta a significare che esso rappresenta, al tempo stesso, il “presupposto” ed il “fine” dell’attuale processo di trasformazione dei meccanismi di funzionamento della cooperazione giudiziaria: “presupposto”, perché solo accettando la piena operatività del principio sarà possibile immaginare l’effettiva realizzazione di quello spazio giuridico europeo che costituisce uno dei principali obiettivi dell’U.E.; “fine”, perché il completamento di tale “spazio”, a sua volta, richiede proprio la definitiva affermazione di quel principio18.
L’accoglimento del principio del mutuo riconoscimento ha quindi determinato sviluppi importanti nella cooperazione giudiziaria penale sostituendo l’estradizione con il mandato d’arresto europeo19: nonostante la finalità di entrambi gli istituti appaia analoga, profonde sono le differenze. Anzitutto, mentre le vecchie procedure si fondavano su una richiesta, alla quale lo Stato richiesto poteva non dare seguito, alla base delle procedure di mutuo riconoscimento c’è un ordine al quale lo Stato è tenuto ad ottemperare.
Ovviamente, anche i nuovi strumenti di mutuo riconoscimento prevedono motivi di rifiuto, seppur limitati20, i più frequenti dei quali riguardano, in particolare, l’eventualità che l’esecuzione o il recepimento possano comportare una violazione dei diritti fondamentali, o il carattere non penale della violazione nell’ordinamento dello Stato richiesto. Ed è chiaro come riserve di questo tipo siano suscettibili di limitare – come infatti accade nella prassi – in misura più o meno sensibile, la funzionalità e l’efficacia del mutuo riconoscimento. Altra fondamentale differenza tra le vecchie procedure e quelle, nuove, basate sul mutuo riconoscimento riguarda il ruolo esercitato dal potere esecutivo: con gli strumenti di mutuo riconoscimento come il m.a.e., il filtro politico è del tutto escluso. Il mutuo riconoscimento, quindi, non si presenta come uno strumento completamente rivoluzionario, ma piuttosto come uno strumento evolutivo e innovativo.21 Tuttavia, l’idea di base era che i sistemi giuridici di ogni Stato membro fossero sufficientemente affidabili da rendere in linea di principio direttamente recepibili da parte degli altri le decisioni dei loro giudici penali22.
Il preambolo del programma dell’Unione Europea concernente misure per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento in materia penale adottato dal Consiglio il 12/10/2000 affermava esplicitamente che “l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali presuppone una fiducia reciproca23 degli Stati membri nei rispettivi ordinamenti penali”. Una tale affermazione poteva essere letta in due modi: da una parte, poteva significare che una simile fiducia andava considerata come un dato implicito, già acquisito; dall’altra, che la realizzazione di un sistema di mutuo riconoscimento implicava a monte l’adozione da parte di tutti gli Stati membri di standard qualitativi nei loro sistemi di giustizia penale tali da giustificare davvero quella fiducia reciproca. Questa seconda interpretazione, però, avrebbe richiesto di affiancare alla produzione normativa in materia di mutuo riconoscimento una produzione normativa volta a garantire, tra le altre cose, diritti minimi per gli imputati. Tuttavia, quando l’Unione adottò il suo primo e più importante provvedimento di mutuo riconoscimento in materia penale, lo fece sul presupposto che la fiducia reciproca fosse un dato già presente e scontato24.
Così il M.A.E. fu varato nel 2002 senza che si provvedesse ad alcuna misura per assicurare che i sistemi di giustizia penale di tutti gli Stati membri disponessero di adeguate garanzie nei confronti di indagati e imputati.25
In Italia, con la legge 22 aprile 2005, n. 6926, il Parlamento ha dato attuazione alla decisione-quadro sul mandato d’arresto europeo e sulle procedure di consegna applicabili nei rapporti di cooperazione giudiziaria tra i Paesi membri dell’Unione. Tuttavia, la disciplina europea non è stata accolta in Italia con particolare entusiasmo, come si può rilevare dal tormentato iter di approvazione della normativa di adeguamento27 ed è a tutti noto come la legge di recepimento italiana – allontanandosi sensibilmente dallo spirito della decisione-quadro – ha scelto di sostenere l’idea di fondo che il controllo deve essere pur sempre tale da evitare che, a seguito ed in conseguenza dell’esecuzione di un mandato, possano penetrare all’interno del sistema processuale provvedimenti che non sarebbero stati emessi nel rispetto delle regole del processo penale italiano di diretta derivazione costituzionale. A distanza di diversi anni dall’implementazione di tale istituto all’interno del nostro ordinamento, si è reso necessario un intervento riformatore che completasse il processo di adeguamento alla originaria decisione quadro del 2002.
Invero, una “excusatio non petita”28 è contenuta proprio nel titolo del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 1029, là dove si riferisce a disposizioni «per il compiuto adeguamento della normativa nazionale» alla decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al m.a.e., in attuazione della delega ex art. 6 l. 4 ottobre 2019, n. 117 (Legge di delegazione europea 2018)30.
La riforma si pone il chiaro obiettivo di semplificare le procedure di consegna all’interno dello spazio europeo, ispirandosi al principio cardine del mutuo riconoscimento, da una parte, rimuovendo inutili ostacoli e formalismi contenuti nella legge del 2005, alcuni già superati dall’interpretazione giurisprudenziale, dall’altra, allargando la gamma dei diritti espressamente riconosciuti al consegnando. Insomma, per dirla con uno slogan, “meno diritto e più diritti”31.
Tra le novità più rilevanti, si segnala innanzitutto l’inserimento, nell’art. 1 comma 3 della l. n. 69 del 2005, della norma programmatica per cui «l’Italia dà esecuzione al mandato d’arresto europeo in base al principio del mutuo riconoscimento». Per tale motivo, non sarà più necessaria l’allegazione del provvedimento giurisdizionale alla base della richiesta di consegna, sia che si tratti di una sentenza di condanna ovvero di un provvedimento che disponga una misura di sicurezza o cautelare, bensì risulterà unicamente sufficiente la mera trasmissione del MAE. Si tratta, com’è evidente, di una vera e propria rivoluzione copernicana32: difatti, sebbene la giurisprudenza di legittimità avesse da tempo circoscritto il sindacato del giudice italiano circa la fondatezza dell’accusa o della gravità indiziaria, la riforma sembra invero escludere ogni valutazione sui motivi di merito che sorreggono la richiesta di consegna, operando in tal senso e per l’appunto il principio del mutuo riconoscimento33. Ovviamente, trattasi di un principio relativo che dovrà, necessariamente, cedere il passo di fronte alla possibilità che vengano violati i diritti fondamentali, cui la riforma attribuisce espressa rilevanza.
Altra rilevante novità è stata l’integrale sostituzione dell’art. 2 della l. 69 del 2005: è infatti previsto che l’esecuzione del mandato di arresto europeo non possa, in alcun caso, comportare una violazione:
a) dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato; b) dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione; c) dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del TUE, che rimanda – come si è detto – alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; d) dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e dai Protocolli addizionali alla stessa. Il combinato disposto tra il nuovo art. 2 e il nuovo art. 18 – in cui si disciplinano i casi di «rifiuto obbligatorio della consegna» – genera delle vere e proprie «cause ostative» alla consegna, con l’immediata conseguenza che la possibile violazione dei predetti principi e diritti dovrà essere affrontata e decisa dal giudice nel senso di impedire tout court l’esecuzione del MAE, senza la possibilità di richiedere “idonee garanzie”.
Ultima riguarda il tema della doppia punibilità del fatto come reato, nell’ordinamento italiano ed in quello dello Stato richiedente: il nuovo comma 1 dell’art. 7 l. 69 del 2005 continua a prevedere che «l’Italia dà esecuzione al mandato d’arresto europeo solo nel caso in cui il fatto sia previsto come reato anche dalla legge nazionale»; tuttavia, al contempo, precisa che il requisito della doppia punibilità sarà ritenuto sussistente indipendentemente sia dalla «qualificazione giuridica» sia dai «singoli elementi costitutivi del reato», con l’effetto cioè di consentire la consegna qualora il nucleo centrale delle fattispecie incriminatrici possa ritenersi analogo, con speciale riguardo all’offesa, senza che la mancanza, nella fattispecie straniera, di uno degli elementi costitutivi previsti nella fattispecie italiana sia d’ostacolo alla esecuzione del mandato34.
L’effetto, in concreto, è quello di ampliare le ipotesi di consegna obbligatoria per reati gravi, così come, l’ampia riforma circa i motivi di rifiuto obbligatori o facoltativi della richiesta di consegna si pone l’obiettivo di facilitare l’accoglimento del MAE da parte del giudice italiano, nello spirito di leale cooperazione all’interno dei paesi dell’Unione Europea.
3. Il caso “Puigdemont”
Per le considerazioni finora svolte, assume carattere centrale la vicenda giudiziaria che vede coinvolto il politico spagnolo Carles Puigdemont, eletto Presidente della Generalitat nel 2016 e membro del Partito democratico Europeo Catalano, fermo sostenitore dell’indipendenza catalana35, nei cui confronti le autorità spagnole hanno emesso nel novembre 2017 un mandato d’arresto europeo36.
La sua odissea giudiziaria ha riacceso il dibattito sull’efficacia del mandato d’arresto europeo.
In sintesi, la Corte Superiore dello Stato federale (Oberlandsgericht) dello Schsleswig-Holstein con la decisione del 5 aprile 2018 respingeva, senza esitazione, la richiesta di mandato d’arresto europeo ritenendo che il delitto di “ribellione” non ricadesse in alcun modo nel campo di applicazione del mandato d’arresto europeo. Inoltre, valutava la richiesta di estradizione a prima vista inammissibile per la mancanza di una “doppia incriminazione”.
Diversamente, non riteneva inammissibile la richiesta di mandato d’arresto europeo in relazione al secondo delitto di peculato, sarebbe riconducibile alla fattispecie di corruzione richiamata dalla Decisione quadro. Tuttavia – sempre secondo la Corte – la richiesta del Tribunal Supremo spagnolo non conteneva una sufficiente descrizione delle circostanze, sulla base delle quali il reato sarebbe stato commesso, con una necessaria concretizzazione del rimprovero penale, che rendesse possibile la sua riconducibilità al comportamento addebitato all’imputato.
La decisione dell’OLG Schleswig-Holstein risultò pienamente corretta e convincente, sulla base della disciplina europea e nazionale del mandato d’arresto europeo e dell’estradizione anche perché, nella vicenda in questione, è risultato comunque inesistente ed indimostrabile il nesso di causalità fra gli atti di violenza (condotta tipica del delitto di “rebelión”) e l’evento rappresentato dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna. Quest’ultima, infatti, è derivata da un voto espresso dalla maggioranza del Parlamento catalano il 27 ottobre 2017 in esecuzione del risultato del referendum dell’1ottobre. Pertanto, non si possono ritenere integrati gli elementi costitutivi di un gravissimo delitto che il legislatore spagnolo aveva pensato e descritto con riferimento a vicende di tutt’altra natura, come un tentativo di colpo di Stato, un’insurrezione armata, un sollevamento di gruppi militari o paramilitari. Ciò che è avvenuto in Spagna, viceversa, è stata una repentina criminalizzazione del conflitto politico-territoriale catalano attraverso un uso assai discutibile e spregiudicato dello strumento penale. Tuttavia, non è trascurabile la circostanza che «la legge non è un’operazione matematica, ma è influenzata da ideologie ed emozioni, ed è inevitabile che sia così perché gli esseri umani la applicano. L’unica cosa inammissibile è che questa ideologia o stato emotivo può diventare l’unica guida per un giurista»37 e per chiunque sia chiamato ad applicare la legge.
La vicenda in esame è un chiaro esempio di mancata reciproca fiducia fra gli ordinamenti che, invece, è alla base della Decisione quadro sul mandato d’arresto europeo e di tutto il sistema della cooperazione giudiziaria europea e la convinzione che in Spagna non vi sarebbero oggi le condizioni per un giusto processo (“fair trial”) nei confronti di Puigdemont per il delitto di “ribellione” trovava conferma nel fatto che numerosi esponenti del decaduto Governo catalano ed altri leader indipendentisti si trovavano in custodia preventiva per la medesima contestazione del delitto di “rebelión”.
Il 12 luglio 2018 giunse quella che sembrava essere la decisione definitiva dell’OLG Schleswig- Holstein, negando l’estradizione per il delitto di “rebelión” ed ammettendola invece per la “malversación de caudales públicos”. Una settimana più tardi – il 19 luglio – il Giudice istruttore del Tribunal Supremo Pablo Llarena decise, con suo autonomo provvedimento, di rifiutare l’estradizione “dimezzata”38 e di ritirare tutte le richieste di estradizione e di ordine d’arresto europeo nel frattempo indirizzate in Belgio, Scozia e Svizzera contro altri politici indipendentisti di primo piano rifugiatisi all’estero per sfuggire all’arresto in Spagna.39
La partita sembrava conclusa, ma il caso “Puigdemont” è arrivato anche in Italia.
Invero, alle elezioni europee del maggio 2019, il leader catalano veniva eletto deputato al Parlamento Europeo. Al fine di ottenere l’autorizzazione della camera dei deputati spagnola per insediarsi a Bruxelles, e giurare sulla costituzione iberica nella cerimonia obbligatoria sarebbe dovuto rientrare nel suo Paese, dove ancora pende l’incriminazione per il delitto di ribellione e la Spagna non ne riconosce l’investitura. Si apriva quindi un altro nodo nella vicenda giudiziaria del leader catalano, quello relativo all’immunità parlamentare concessa agli eurodeputati.
La Spagna nel frattempo emetteva un nuovo mandato di arresto europeo, modificando in parte l’incriminazione, e passando dal delitto di “ribellione” a quello di “sedizione”.
A marzo di quest’anno, e su richiesta delle autorità spagnole, il Parlamento Europeo decideva di revocare l’immunità parlamentare del neo eurodeputato perché i fatti per i quali è incriminato sono precedenti alla data della sua elezione. Contro la revoca dell’immunità, Puigdemont ricorreva alla Corte di Giustizia dell’unione europea, chiedendo con urgenza la sospensione dell’esecuzione della revoca dell’immunità. Tuttavia, con ordinanza del 30 luglio scorso, il Tribunale dell’Ue respinse la sua richiesta di sospensione, motivando che le autorità giudiziarie degli stati membri dell’Unione Europea non avrebbero potuto eseguire il mandato d’arresto e la consegna del leader catalano alla Spagna.
Questa decisione, tuttavia, appariva fondata su un equivoco: infatti il Tribunale spagnolo, dichiarando la propria disponibilità a non arrestare Puigdemont in attesa della decisione del Tribunale europeo, ha fatto ritenere alla Corte di Giustizia dell’Unione che il MAE fosse sospeso. Per i giudici spagnoli invece il mandato all’arresto è ancora operativo e le garanzie concesse servivano all’eurodeputato catalano per spostarsi tra le due sedi del Parlamento Europeo.
Fuori da Bruxelles o da Strasburgo, Puigdemont doveva dunque essere arrestato.
Ed è proprio quello che è accaduto al suo arrivo in Italia, precisamente in Sardegna. Rimesso in libertà il giorno successivo all’arresto a condizione che partecipasse all’udienza del 4 ottobre presso la Corte di Appello di Sassari, l’ex Presidente della Catalogna è stato accolto dai sostenitori dell’indipendentismo sardo e catalano. All’udienza fissata per la decisione sull’estradizione, sia il Procuratore generale, il difensore di Puigdemont, hanno chiesto la sospensione del procedimento, in attesa delle decisioni della Corte di giustizia.
La vicenda in esame non fa altro che confermare l’amara costatazione, già emersa in dottrina40, che i Singoli Stati membri ed i loro rispettivi apparati burocratico-giudiziari non erano realmente pronti e maturi per un cambiamento culturale di tal fatta; l’assenza di un parallelo processo di armonizzazione degli ordinamenti giudiziari ha impedito di alimentare quella fiducia necessaria a supportare un meccanismo di riconoscimento delle altrui decisioni giudiziarie che sia realmente snello ed elastico e che avrebbe ridotto sensibilmente il dibattito.
4. Conclusioni
Sebbene l’asserita fiducia reciproca interstatuale sia più presupposta che reale41, certo è che, venuto meno il filtro politico, le autorità giudiziarie europee sono ora direttamente investite del compito di relazionare tra di loro, senza la mediazione dei governi nazionali; ciò nella prospettiva di conseguire vantaggi in punto di rapidità e di semplificazione delle procedure, ma anche per evitare, per esempio, che la consegna di persona ricercata per fini di giustizia si presti a fungere – come non di rado è accaduto per l’estradizione – da strumento di “contrattazione politica” e di concessioni reciproche tra Stati42: la necessità di fronteggiare la crescente internazionalizzazione della criminalità fa sì che la collaborazione prestata da uno Stato in favore di un altro per la persecuzione dei reati sia avvertita dallo Stato richiesto anche come tutela dei propri interessi e di quelli dell’intera comunità internazionale.
Per questi motivi, si è concordi nel ritenere che il mutuo riconoscimento può funzionare davvero solo ove le leggi dei diversi Stati membri presentino, almeno fino ad un certo livello, caratteri omogenei. Ne consegue, dunque, che il mutuo riconoscimento dovrebbe presuppore un alto grado di armonizzazione: non va dimenticato, invero, che l’art. 82.2 TFUE autorizza espressamente l’Unione Europea a stabilire norme minime comuni in relazione a vari aspetti della procedura penale quando ciò sia «necessario per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale».43
Il ravvicinamento delle legislazioni, quindi, pur non essendo considerato un presupposto del mutuo riconoscimento, ne facilita indubbiamente l’applicazione, mentre una marcata disparità tra le legislazioni può risultare di ostacolo al mutuo riconoscimento: quanto più le normative nazionali saranno diverse, tanto più sarà agevole per lo Stato di destinazione dimostrare l’esistenza di esigenze imperative che ostacolano il riconoscimento44.
Se dunque è lecito guardare al futuro con la fondata consapevolezza di un approccio normativo più accorto, l’esperienza del recepimento della decisione quadro sul mandato d’arresto costituisce un importante banco di prova per l’ordinamento italiano nel suo complesso, in ordine al contributo alla realizzazione dello spazio giudiziario europeo. Il limite maggiormente rilevante allora resterebbe questo eccessivo ricorso alla sovranità da parte degli Stati che hanno difficoltà ad affrancarsi da logiche particolaristiche ed affidarsi ad una vera, sentita e non forzata cooperazione.
Ciò ha origine dall’acquisita consapevolezza che un alto grado di armonizzazione normativa45 è precondizione per la creazione di quella reciproca fiducia tra ordinamenti, presupposto essenziale per far funzionare gli strumenti di cooperazione basati sul principio del mutuo riconoscimento. Tuttavia, l’adozione di tali regole procedurali minime non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre un più alto livello di protezione dei diritti individuali.
Inoltre, il superamento dei perduranti confini dei sistemi processuali penali può avvenire, come è stato correttamente osservato, “soltanto a condizione che il principio di legalità e giustizia delle procedure continuino a costituire l’orizzonte chiaro e la cornice infrangibile dell’azione repressiva”.46