L’ergastolo ostativo al diritto e al dovere di andare oltre

“Stare dalla parte dei detenuti non vuol dire difenderne la scelta criminale, bensì sostenere il diritto delle loro anime di purificarsi con equa espiazione, riconciliandosi con la società”

Articolo a cura dell’Avv.ssa Giulia Solenni

Ergastolo ostativo corte cost

1. Introduzione

In tutte le fasi del processo penale si parla di diritti: il diritto di difesa, il diritto ad un processo equo, il diritto alla presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva e via discorrendo.
Nessuno dubiterebbe mai della loro esistenza e operatività; farlo significherebbe mettere in discussione tutti i principi fondamentali su cui si basa la nostra Costituzione.
Sorge spontaneo, tuttavia, chiedersi: e dopo il processo? È così semplice e scontato riconoscere dei diritti a coloro che sono stati ritenuti colpevoli di reati gravi ritenuti socialmente riprovevoli?
Il post pena rappresenta senza dubbio una fase delicata, talvolta sottovalutata, ma allo stesso tempo sempre più spesso dibattuta in dottrina e in giurisprudenza.
In questa fase parlare di diritti significa bilanciare da un lato il dovere dello Stato di privare un soggetto della libertà personale, laddove necessario, e dall’altro dare allo stesso l’opportunità e il diritto di redimersi.
Questo bilanciamento, in astratto, non dovrebbe risultare difficile se si pensa che la pena nel nostro ordinamento deve tendere a rieducare il condannato allo scopo di reinserirlo nella società dalla quale si è estraniato.
È altrettanto vero, però, che tale funzione si può concretamente realizzare solo laddove sia concesso al condannato un “diritto ad andare oltre” le proprie azioni e un contrapposto dovere della società di rispettare e comprendere questo cambiamento.

2. La pena e la funzione rieducativa

Il concetto di pena come sanzione finalizzata alla rieducazione del reo, piuttosto che alla mera punizione per le azioni commesse, entra a far parte del nostro ordinamento penale con l’avvento della Costituzione.
L’enunciazione di tale principio all’art. 27 Cost. segna il passaggio da una concezione di pena quale mero “diritto dello Stato di punire” per le azioni commesse in passato, ad una visione rivolta al futuro e finalizzata a far comprendere al condannato il disvalore e le conseguenze delle proprie azioni in modo da evitarne la recidiva.
La sanzione penale, quindi, non esaurisce i suoi fini nella retribuzione del reato, ma il legislatore deve porsi anche il problema del rientro del reo in società una volta espiata la condanna.
In questa cornice polifunzionale della pena, il reale significato del finalismo rieducativo ha visto interpretazioni differenti nel corso del tempo; in una prima fase, infatti, la stessa Corte Costituzionale lo aveva interpretato in modo riduttivo, considerando la risocializzazione come un obiettivo solo marginale o addirittura eventuale e comunque circoscritto entro i limiti del trattamento penitenziario.[2]
Un cambio di passo si ebbe negli anni Novanta, dove si comincia a riconoscere che se è pur vero che l’afflittività e retributività rappresentano le condizioni minime in assenza delle quali la pena cesserebbe di essere tale, è anche indubitabile che la stessa presenti risvolti che ineriscono necessariamente alla difesa sociale.[3]

Al di là del miglioramento personale del soggetto, bisogna tutelare i cittadini e l’ordine giuridico contro la delinquenza: la finalità rieducativa, se correttamente perseguita, risponde proprio a questa esigenza, rappresentando un contributo ad una efficiente difesa sociale contro i delitti futuri.
Proprio nel tentativo di conseguire pienamente tale intento, il reinserimento sociale deve prendere avvio già durante la fase iniziale di esecuzione della pena e proseguire per tutto il corso della stessa anche attraverso l’utilizzo, ove possibile, di modalità espiative extracarcerarie.
L’introduzione nel panorama del diritto penitenziario delle misure alternative alla detenzione ha sicuramente contribuito a rendere effettivo questo cambio di rotta verso una pena maggiormente rispondente alle finalità volute dalla Costituzione.
Rimane da chiederci come possa conciliarsi tutto questo con il c.d. “fine pena mai” che nel nostro ordinamento rappresenta la sanzione detentiva più grave che può essere comminata ad un soggetto resosi colpevole di delitti di particolare allarme sociale.
L’idea di una pena perpetua dovrebbe, infatti, ritenersi incompatibile con il principio costituzionale di risocializzazione, rappresentando, al contrario, una condanna senza ritorno.
La compatibilità con i principi costituzionali, tuttavia, è data dall’esistenza nel nostro sistema penale di strumenti che consentono all’ergastolano, in presenza di determinati presupposti, di ottenere trascorsi almeno 26 anni di pena, il beneficio della liberazione condizionale ai sensi dell’art. 176 c.p.
Tale istituto è volto proprio a tutelare, anche in caso di pena tendenzialmente perpetua, il diritto del detenuto di “andare oltre” e il dovere della società di fare in modo che questo sia in concreto possibile.

Per citare il pensiero di Elvio Fassone “nessun individuo, noi compresi, è uguale a quell’ “io” che era venti o trenta anni fa, e perciò è ragionevole che il nostro giudizio sia diverso a seconda che si appunti su quella o su questa figura. Nessuno è mai tutto in un gesto che compie, buono o cattivo che sia. Ciò che oggi sembra indegno di qualsiasi atteggiamento benevolo, può diventarne creditore dopo molto tempo e moltissimo patire.” [4]

3. L’ergastolo ostativo

Se tutto quanto osservato fino ad ora trova una ragion d’essere nel nostro sistema penitenziario, dubbi possono sollevarsi (e si sono sollevati) circa la compatibilità costituzionale dell’istituto dell’ergastolo ostativo.
Tale strumento repressivo, più volte criticato dalla giurisprudenza europea, presenta dei connotati ben specifici che si rinvengono dal combinato disposto degli artt. 22 c.p., 4 bis o.p. e 8 del D.L. 152/1991.
Dalla lettura congiunta di tali norme si ricava la preclusione per i condannati per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, di usufruire dei benefici penitenziari o delle misure alternative alla detenzione che, fuori da questi casi, possono essere generalmente richiesti dai detenuti alla Magistratura di Sorveglianza dopo il decorso di un certo tempo stabilito dalla legge.
La conseguenza di tale previsione ostativa, quindi, è l’esclusione totale all’accesso alla liberazione condizionale (oltre ad altri benefici) per l’intera durata della pena che coincide con la vita del detenuto.
L’unica possibilità per tali soggetti per essere ammessi ad usufruire di tali benefici è quella di collaborare con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p.
È evidente, però, che precludere a priori ad un soggetto il diritto ad essere riesaminato in futuro con neutralità di pensiero rispetto ai fatti da lui commessi in passato significa discostarsi da una finalità di recupero e risocializzazione.
Proprio per queste ragioni la nostra Corte costituzionale nel corso degli anni è stata chiamata a più riprese a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale di questo istituto con il principio di cui all’art. 27 Cost.
Nelle prime pronunce di legittimità dell’art. 4 bis o.p., tuttavia, la Consulta ha sempre respinto ogni censura, sostenendo che subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, condizione rimessa alla scelta del condannato, non si precluderebbe in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio e, dunque, non si verificherebbe alcun contrasto con il principio rieducativo.[5]
Rispetto tali asserzioni è stato tuttavia correttamente osservato che non può essere solo questo l’unico presupposto sul quale basarsi per ritenere che il detenuto abbia ottenuto un vero cambiamento sotto il profilo personale.
Non si può non considerare, infatti, che colui che è stato condannato al “fine pena mai” molto spesso è un soggetto che ha commesso reati all’interno di un circuito criminale organizzato.

In ragione di ciò la sua scelta di non collaborare potrebbe non ritenersi del tutto libera, ma al contrario mossa dal timore di possibili ritorsioni esterne nei confronti dei propri familiari.
Si potrebbe ritenere, ad adverso, che il soggetto decida di collaborare al solo scopo di ottenere benefici penitenziari, magari anche a discapito di eventuali gravi conseguenze per terze persone.
Questo orientamento ostativo così rigoroso sembra in parte essersi attenuato recentemente, dapprima con un intervento della Corte nel 2019 e da ultimo nel 2021.
La sentenza n. 253 del 2019 rappresenta un primo tassello fondamentale, in quanto ha eliminato la previsione che riteneva obbligatoria per questa tipologia di condannati ostativi la collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso ai c.d. permessi premio.
Il pregio di questa decisione sta nel tramutamento della presunzione assoluta di pericolosità sociale, insita nel sistema ostativo, in una presunzione di tipo relativo che legittima il condannato a dimostrarne la cessazione e ottenere il beneficio.
Sull’onda di tale pronuncia, la Corte Costituzionale è nuovamente stata chiamata a pronunciarsi proprio sulla disciplina vigente dell’ergastolo ostativo che preclude al non collaborante la possibilità di richiedere la liberazione condizionale, sulla base delle medesime presunzioni sopra esposte.
La “non” decisione si è avuta con l’ordinanza n. 97/2021 con la quale si è disposto un rinvio a maggio 2022 al fine di dare al Parlamento un congruo tempo per affrontare la questione.
I Giudici costituzionali hanno ritenuto infatti che “l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema.
Non a caso, la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha sostenuto che la disciplina in questione pone «un problema strutturale», tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi, «di preferenza per iniziativa legislativa». [6]

4. Conclusioni

Rimaniamo in attesa, dunque, di un decisivo intervento del legislatore in materia che dovrà necessariamente tenere conto oltre che di tutti i principi fondamentali espressi nella nostra Carta costituzionale, anche del percorso complessivo fatto dalla stessa Corte in questi anni.
Abbiamo più volte assistito a diversi tentativi volti a smussare l’operatività del rigoroso istituto previsto dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
L’inevitabile passo successivo non può che essere una radicale abolizione di questo istituto che ostacola in modo evidente qualsiasi possibilità di redenzione, condannando il reo ad una “non” vita.
Analoghe osservazioni, si noti bene, in un passato non poi così lontano hanno contribuito all’abolizione definitiva nel nostro Paese della pena capitale, ritenendola un brutale strumento inumano di soppressione di tutte le libertà civili e personali.
Ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia realmente la differenza tra il punire togliendo la vita ad una persona e il punire infliggendo una pena a priori preclusiva di ogni speranza di redenzione.
Ad un occhio attento il risultato potrebbe risultare lo stesso: in entrambi i casi si toglie ad una persona il diritto di andare oltre le proprie azioni e alla società il dovere di andare oltre i pregiudizi.

ergastolo ostativo corte cost

1. Introduzione

In tutte le fasi del processo penale si parla di diritti: il diritto di difesa, il diritto ad un processo equo, il diritto alla presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva e via discorrendo.
Nessuno dubiterebbe mai della loro esistenza e operatività; farlo significherebbe mettere in discussione tutti i principi fondamentali su cui si basa la nostra Costituzione.
Sorge spontaneo, tuttavia, chiedersi: e dopo il processo? È così semplice e scontato riconoscere dei diritti a coloro che sono stati ritenuti colpevoli di reati gravi ritenuti socialmente riprovevoli?
Il post pena rappresenta senza dubbio una fase delicata, talvolta sottovalutata, ma allo stesso tempo sempre più spesso dibattuta in dottrina e in giurisprudenza.
In questa fase parlare di diritti significa bilanciare da un lato il dovere dello Stato di privare un soggetto della libertà personale, laddove necessario, e dall’altro dare allo stesso l’opportunità e il diritto di redimersi.
Questo bilanciamento, in astratto, non dovrebbe risultare difficile se si pensa che la pena nel nostro ordinamento deve tendere a rieducare il condannato allo scopo di reinserirlo nella società dalla quale si è estraniato.
È altrettanto vero, però, che tale funzione si può concretamente realizzare solo laddove sia concesso al condannato un “diritto ad andare oltre” le proprie azioni e un contrapposto dovere della società di rispettare e comprendere questo cambiamento.

2. La pena e la funzione rieducativa

Il concetto di pena come sanzione finalizzata alla rieducazione del reo, piuttosto che alla mera punizione per le azioni commesse, entra a far parte del nostro ordinamento penale con l’avvento della Costituzione.
L’enunciazione di tale principio all’art. 27 Cost. segna il passaggio da una concezione di pena quale mero “diritto dello Stato di punire” per le azioni commesse in passato, ad una visione rivolta al futuro e finalizzata a far comprendere al condannato il disvalore e le conseguenze delle proprie azioni in modo da evitarne la recidiva.
La sanzione penale, quindi, non esaurisce i suoi fini nella retribuzione del reato, ma il legislatore deve porsi anche il problema del rientro del reo in società una volta espiata la condanna.
In questa cornice polifunzionale della pena, il reale significato del finalismo rieducativo ha visto interpretazioni differenti nel corso del tempo; in una prima fase, infatti, la stessa Corte Costituzionale lo aveva interpretato in modo riduttivo, considerando la risocializzazione come un obiettivo solo marginale o addirittura eventuale e comunque circoscritto entro i limiti del trattamento penitenziario.[2]
Un cambio di passo si ebbe negli anni Novanta, dove si comincia a riconoscere che se è pur vero che l’afflittività e retributività rappresentano le condizioni minime in assenza delle quali la pena cesserebbe di essere tale, è anche indubitabile che la stessa presenti risvolti che ineriscono necessariamente alla difesa sociale.[3]

Al di là del miglioramento personale del soggetto, bisogna tutelare i cittadini e l’ordine giuridico contro la delinquenza: la finalità rieducativa, se correttamente perseguita, risponde proprio a questa esigenza, rappresentando un contributo ad una efficiente difesa sociale contro i delitti futuri.
Proprio nel tentativo di conseguire pienamente tale intento, il reinserimento sociale deve prendere avvio già durante la fase iniziale di esecuzione della pena e proseguire per tutto il corso della stessa anche attraverso l’utilizzo, ove possibile, di modalità espiative extracarcerarie.
L’introduzione nel panorama del diritto penitenziario delle misure alternative alla detenzione ha sicuramente contribuito a rendere effettivo questo cambio di rotta verso una pena maggiormente rispondente alle finalità volute dalla Costituzione.
Rimane da chiederci come possa conciliarsi tutto questo con il c.d. “fine pena mai” che nel nostro ordinamento rappresenta la sanzione detentiva più grave che può essere comminata ad un soggetto resosi colpevole di delitti di particolare allarme sociale.
L’idea di una pena perpetua dovrebbe, infatti, ritenersi incompatibile con il principio costituzionale di risocializzazione, rappresentando, al contrario, una condanna senza ritorno.
La compatibilità con i principi costituzionali, tuttavia, è data dall’esistenza nel nostro sistema penale di strumenti che consentono all’ergastolano, in presenza di determinati presupposti, di ottenere trascorsi almeno 26 anni di pena, il beneficio della liberazione condizionale ai sensi dell’art. 176 c.p.
Tale istituto è volto proprio a tutelare, anche in caso di pena tendenzialmente perpetua, il diritto del detenuto di “andare oltre” e il dovere della società di fare in modo che questo sia in concreto possibile.

Per citare il pensiero di Elvio Fassone “nessun individuo, noi compresi, è uguale a quell’ “io” che era venti o trenta anni fa, e perciò è ragionevole che il nostro giudizio sia diverso a seconda che si appunti su quella o su questa figura. Nessuno è mai tutto in un gesto che compie, buono o cattivo che sia. Ciò che oggi sembra indegno di qualsiasi atteggiamento benevolo, può diventarne creditore dopo molto tempo e moltissimo patire.” [4]

3. L’ergastolo ostativo

Se tutto quanto osservato fino ad ora trova una ragion d’essere nel nostro sistema penitenziario, dubbi possono sollevarsi (e si sono sollevati) circa la compatibilità costituzionale dell’istituto dell’ergastolo ostativo.
Tale strumento repressivo, più volte criticato dalla giurisprudenza europea, presenta dei connotati ben specifici che si rinvengono dal combinato disposto degli artt. 22 c.p., 4 bis o.p. e 8 del D.L. 152/1991.
Dalla lettura congiunta di tali norme si ricava la preclusione per i condannati per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, di usufruire dei benefici penitenziari o delle misure alternative alla detenzione che, fuori da questi casi, possono essere generalmente richiesti dai detenuti alla Magistratura di Sorveglianza dopo il decorso di un certo tempo stabilito dalla legge.
La conseguenza di tale previsione ostativa, quindi, è l’esclusione totale all’accesso alla liberazione condizionale (oltre ad altri benefici) per l’intera durata della pena che coincide con la vita del detenuto.
L’unica possibilità per tali soggetti per essere ammessi ad usufruire di tali benefici è quella di collaborare con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p.
È evidente, però, che precludere a priori ad un soggetto il diritto ad essere riesaminato in futuro con neutralità di pensiero rispetto ai fatti da lui commessi in passato significa discostarsi da una finalità di recupero e risocializzazione.
Proprio per queste ragioni la nostra Corte costituzionale nel corso degli anni è stata chiamata a più riprese a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale di questo istituto con il principio di cui all’art. 27 Cost.
Nelle prime pronunce di legittimità dell’art. 4 bis o.p., tuttavia, la Consulta ha sempre respinto ogni censura, sostenendo che subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, condizione rimessa alla scelta del condannato, non si precluderebbe in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio e, dunque, non si verificherebbe alcun contrasto con il principio rieducativo.[5]
Rispetto tali asserzioni è stato tuttavia correttamente osservato che non può essere solo questo l’unico presupposto sul quale basarsi per ritenere che il detenuto abbia ottenuto un vero cambiamento sotto il profilo personale.
Non si può non considerare, infatti, che colui che è stato condannato al “fine pena mai” molto spesso è un soggetto che ha commesso reati all’interno di un circuito criminale organizzato.

In ragione di ciò la sua scelta di non collaborare potrebbe non ritenersi del tutto libera, ma al contrario mossa dal timore di possibili ritorsioni esterne nei confronti dei propri familiari.
Si potrebbe ritenere, ad adverso, che il soggetto decida di collaborare al solo scopo di ottenere benefici penitenziari, magari anche a discapito di eventuali gravi conseguenze per terze persone.
Questo orientamento ostativo così rigoroso sembra in parte essersi attenuato recentemente, dapprima con un intervento della Corte nel 2019 e da ultimo nel 2021.
La sentenza n. 253 del 2019 rappresenta un primo tassello fondamentale, in quanto ha eliminato la previsione che riteneva obbligatoria per questa tipologia di condannati ostativi la collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso ai c.d. permessi premio.
Il pregio di questa decisione sta nel tramutamento della presunzione assoluta di pericolosità sociale, insita nel sistema ostativo, in una presunzione di tipo relativo che legittima il condannato a dimostrarne la cessazione e ottenere il beneficio.
Sull’onda di tale pronuncia, la Corte Costituzionale è nuovamente stata chiamata a pronunciarsi proprio sulla disciplina vigente dell’ergastolo ostativo che preclude al non collaborante la possibilità di richiedere la liberazione condizionale, sulla base delle medesime presunzioni sopra esposte.
La “non” decisione si è avuta con l’ordinanza n. 97/2021 con la quale si è disposto un rinvio a maggio 2022 al fine di dare al Parlamento un congruo tempo per affrontare la questione.
I Giudici costituzionali hanno ritenuto infatti che “l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema.
Non a caso, la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha sostenuto che la disciplina in questione pone «un problema strutturale», tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi, «di preferenza per iniziativa legislativa». [6]

4. Conclusioni

Rimaniamo in attesa, dunque, di un decisivo intervento del legislatore in materia che dovrà necessariamente tenere conto oltre che di tutti i principi fondamentali espressi nella nostra Carta costituzionale, anche del percorso complessivo fatto dalla stessa Corte in questi anni.
Abbiamo più volte assistito a diversi tentativi volti a smussare l’operatività del rigoroso istituto previsto dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
L’inevitabile passo successivo non può che essere una radicale abolizione di questo istituto che ostacola in modo evidente qualsiasi possibilità di redenzione, condannando il reo ad una “non” vita.
Analoghe osservazioni, si noti bene, in un passato non poi così lontano hanno contribuito all’abolizione definitiva nel nostro Paese della pena capitale, ritenendola un brutale strumento inumano di soppressione di tutte le libertà civili e personali.
Ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia realmente la differenza tra il punire togliendo la vita ad una persona e il punire infliggendo una pena a priori preclusiva di ogni speranza di redenzione.
Ad un occhio attento il risultato potrebbe risultare lo stesso: in entrambi i casi si toglie ad una persona il diritto di andare oltre le proprie azioni e alla società il dovere di andare oltre i pregiudizi.

Note

[1] Citazione di Eugenio Perucatti, tratta da Perucatti A. (2021), Quel “criminale” di mio padre, Ultima spiaggia, Avegno (Ge)

[2] C. Cost., 12 febbraio 1966, n.12 “(…) La rieducazione del condannato, pur nella importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio. É soltanto a questo, infatti, che il legislatore, con evidente implicito richiamo alle pene detentive, poteva logicamente riferirsi nel disporre che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”; proposizione che altrimenti non avrebbe senso. Alla pena dunque, con tale proposizione, il legislatore ha inteso soltanto segnare dei limiti, mirando essenzialmente ad impedire che l’afflittività superi il punto oltre il quale si pone in contrasto col senso di umanità.

Rimane in tal modo stabilita anche la vera portata del principio rieducativo, il quale, dovendo agire in concorso delle altre funzioni della pena, non può essere inteso in senso esclusivo ed assoluto. Rieducazione del condannato, dunque, ma nell’ambito della pena, umanamente intesa ed applicata.

Del resto la portata e i limiti della funzione rieducativa voluta dalla Costituzione appaiono manifesti nei termini stessi del precetto. Il quale stabilisce che le pene “devono tendere” alla rieducazione del condannato: espressione che, nel suo significato letterale e logico, sta ad indicare unicamente l’obbligo per il legislatore di tenere costantemente di mira, nel sistema penale, la finalità rieducativa e di disporre tutti i mezzi idonei a realizzarla. (…)”

[3] C.Cost., 2 luglio 1990, n. 313 “(…) per una parte (afflittività, retributività), si tratta di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale. Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anzichè al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione.(…)”

[4] Fassone E. (2015), Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, pag. 182-183.

[5] C. Cost., 9 aprile 2003, n. 135 “(…) la preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta.”

[6] C.Cost., 15 aprile 2021, n. 97, par.9