INTRODUZIONE
1. La sentenza n. 50 del 2022 della Corte Costituzionale, la proposta di legge n. 3101/2021 e le differenze tra omicidio del consenziente e aiuto al suicidio.
Prima che l’attenzione dell’opinione pubblica virasse – ahinoi – su altri temi, nel dibattito nazionale (anche non specialistico) si è fatto un gran parlare della sentenza[1] con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente.
Quello che interessa, in questa sede, è che obiettivo dei promotori era, attraverso l’abrogazione di singole parti della disposizione normativa opportunamente selezionate (cd. referendum manipolativo[2]), trasformare l’art. 579 c.p. da una norma che punisce l’omicidio del consenziente in tutti i casi (con una pena massima di anni quindici di reclusione) a una norma che punisce l’omicidio del consenziente solo se commesso in danno di una persona minore degli anni diciotto, di una persona inferma di mente o in condizione (anche temporanea) di infermità psichica, oppure ancora di una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia, suggestione o carpito con l’inganno (riducendo l’area di punibilità della condotta a quelle che erano – e sono, dopo la sentenza di inammissibilità – ipotesi aggravate della fattispecie base).[3]
In buona sostanza, se il quesito avesse superato il vaglio di ammissibilità e la successiva consultazione referendaria si fosse espressa a favore della modifica proposta, in Italia sarebbe divenuto lecito l’omicidio di una persona capace di esprimere con coscienza e volontà il proprio consenso alla morte. È questa la definizione scientifica di “eutanasia” (o, ancor più specificamente, “eutanasia attiva”): si ha “eutanasia” quando è «un’altra persona a compiere l’atto finale che toglie la vita a una persona che desidera morire»[4]; si parla di “suicidio assistito”, invece, quando «è la stessa persona che desidera morire a compiere l’atto conclusivo del processo che pone fine alla propria vita»[5] ma per riuscirvi necessita di un aiuto senza il quale generalmente l’atto sarebbe impossibile (ad es., la fornitura del farmaco letale che poi il suicida ingerisce con azione propria oppure il trasferimento fisico presso la sede idonea al compimento dell’atto).
In questi termini, è più che corretto dire che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia legale. Non vi è dubbio, tuttavia, che l’azione dei promotori abbia conseguito un risultato politico importante: l’improvvisa accelerazione dell’iter di approvazione parlamentare del disegno di legge n. 3101 del 10 maggio 2021, recante «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita»[6], sintesi di ben sette proposte differenti, la più risalente delle quali era stata presentata alla Camera dei Deputati non più tardi del 13 settembre 2013.[7] A oggi, il d.d.l. in parola è in discussione al Senato, dopo aver ottenuto, nel giro di un anno, l’approvazione della Camera dei Deputati in data 22 marzo 2022.
Attenzione, però: come si vedrà nel paragrafo conclusivo, la proposta legislativa in discussione in Parlamento ha per oggetto soltanto il «suicidio assistito», oggi previsto e punito dall’art. 580 c.p. come rimodulato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale,[8] e si limita a disciplinare procedure di valida formazione e comunicazione della volontà di morire da parte del soggetto che intenda togliersi la vita, idonee a escludere la responsabilità penale dell’agevolatore.[9]
Con buona – ma non eccessiva – semplificazione (v. infra, paragrafo conclusivo) la si può inquadrare come un recepimento legislativo esteso delle procedure legittimanti il suicidio assistito già introdotte nel nostro ordinamento dalla sentenza della Corte Costituzionale, n. 242 del 2019 (cd. Caso Cappato)[10]: se e quando il disegno di legge sarà approvato, il Parlamento altro non avrà fatto che “dettagliare” ed estendere ad altre fattispecie l’applicazione delle disposizioni, già applicabili ed effettivamente applicate dai giudici nazionali, approntate dalla Consulta con la nota pronuncia.
Dunque, l’omicidio del consenziente è (e sembra destinato a rimanere ancora a lungo) illecito penale per l’ordinamento italiano, anche quando commesso su persona capace di esprimere validamente il proprio consenso.
È vero che questo assetto normativo farebbe dell’Italia addirittura un Paese “confessionale” e non laico, la cui Corte Costituzionale merita di essere sospettata di improbabili intelligenze con il Vaticano (quella stessa Corte che non più tardi di tre anni fa ha pronunciato la sentenza n. 242 del 2019)? Come si colloca l’attuale normativa italiana nel contesto internazionale? Come, invece, quella che risulterebbe dall’approvazione del d.d.l. n. 3101?
Per cercare di comprenderlo, il presente contributo propone l’analisi di una delle normative considerate più liberali in materia di fine vita, quella svizzera, attraverso la lettura delle disposizioni normative e dei principali (e più controversi) casi giurisprudenziali affrontati dalle corti cantonali e federali negli ultimi anni.
Omicidio sui richiesta e aiuto al suicidio nel codice penale svizzero
All’art. 114, rubricato “Omicidio su richiesta della vittima”, il codice penale svizzero stabilisce una pena pari nel massimo a tre anni di reclusione per chiunque «per motivi onorevoli, segnatamente per pietà, cagiona la morte di una persona a sua seria e insistente richiesta»[11]. Resta inteso che tutte le altre condotte con le quali si cagiona volontariamente la morte di un uomo sono punite a titolo di “omicidio intenzionale”, ex art. 111 CP[12]. La clausola dei motivi onorevoli è stata introdotta dal legislatore elvetico con la Legge Federale del 23 giugno 1989: prima di allora, accedeva alla disciplina di favore prevista dall’art. 114 ogni condotta di omicidio su seria e insistente richiesta della vittima, a prescindere dal motivo ispiratore[13].
L’art. 115 del codice penale svizzero, invece, punisce ‘”istigazione o l’aiuto al suicidio” soltanto se l’istigatore o l’agevolatore agisce «per motivi egoistici»[14]. In tutti gli altri casi, l’aiuto al suicidio non costituisce illecito penale.
L’assetto normativo sopra descritto, se si fa eccezione per la modifica intervenuta nel 1989, è tale fin dal 1937, data di promulgazione del codice penale svizzero (d’ora in avanti, CP).
1. Disciplina del suicidio assistito in Svizzera
Dalla lettura degli artt. 114 e 115 CP, si ricava un dato di conoscenza piuttosto immediato, alle volte ignorato nel dibattito italiano: in Svizzera, l’unica pratica di fine vita da sempre considerata lecita è il suicidio assistito.
Come visto, l’unica condizione che il legislatore federale pone alla liceità del suicidio assistito è che l’agente non agisca per motivi egoistici. Tali sono considerati non soltanto i motivi di lucro ma anche vantaggi di altra natura.[15]
Il fine egoistico integra gli estremi di quello che, con i concetti dogmatici italiani, descriveremmo come dolo specifico. È il fine ultimo per il quale l’istigatore o l’agevolatore agisce ed è un dato esclusivamente soggettivo: come tale, non può essere automaticamente dedotto dalla sola circostanza che l’agente abbia tratto dei vantaggi oggettivi “colLATerali” dalla propria azione.[16] Poiché si tratta di un elemento costitutivo del fatto, esso deve essere allegato e provato in giudizio dall’accusa.[17]
Quella appena descritta è tutta la disciplina legislativa (penale e non) del suicidio assistito in Svizzera. Sembra un po’ poco, e infatti è così.
Per comprendere le peculiarità della disciplina svizzera in materia di suicidio assistito, è necessario tenere a mente un dato prasseologico: il suicidio assistito, generalmente, avviene tramite l’assunzione di farmaci letali. Si tratta dell’azione meno dolorosa tra quelle a oggi conosciute e, spesso, dell’unica possibilità per i soggetti che decidono di accedere a pratiche di fine vita, per le condizioni cliniche nelle quali essi si trovano al momento della decisione. Il farmaco più utilizzato è il pentobarbital.[18]
La legge svizzera assoggetta l’acquisto di pentobarbital a prescrizione e la prescrizione di un farmaco è prerogativa esclusiva di medici e chirurghi veterinari,[19] i quali possono prescrivere un medicinale soltanto dopo aver esaminato il paziente e soltanto nel rispetto delle «regole riconosciute delle scienze mediche e farmaceutiche» (art. 26, Legge sugli agenti terapeutici del 15 dicembre 2000, d’ora in avanti: LATer). La prescrizione di un farmaco in violazione degli obblighi di diligenza prescritti dalla Legge sugli agenti terapeutici costituisce reato ed è punita con la reclusione fino a tre anni (art. 86, co. 1, lett. a., LATer).[20]
Come in Italia, anche in Svizzera la diligenza medica ha un parametro normativo, per quanto non di rango legislativo, ed esso è individuato, anche in giurisprudenza, nelle linee guida emanate dalle principali associazioni di categoria.[21]
Il 25 novembre 2004 l’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM) ha emesso le sue direttive medico-etiche sull’”Assistenza delle pazienti e dei pazienti terminali”, che disciplinano il comportamento cui è tenuto il medico svizzero nell’attuazione di pratiche di fine vita: cure palliative, esecuzione di una richiesta di interruzione delle terapie e aiuto al suicidio (sono considerate aiuto al suicidio la prescrizione o la consegna di un farmaco letale e il posizionamento di una cannula intravenosa). Alle direttive del 2004 si sono aggiunte, il 17 maggio 2018, le direttive medo etiche su “Come confrontarsi con il fine vita e il decesso”.
Si tratta di prescrizioni che mettono al centro la volontà del paziente: al medico è concesso assecondare esclusivamente le richieste che provengano da soggetti capaci di intendere e di volere (nel caso di rifiuto di una terapia, valgono anche le intenzioni manifestate in epoca antecedente da soggetto attualmente incapace di intendere e di volere: l’equivalente delle disposizioni anticipate di trattamento disciplinate dalla l. 22 dicembre 2017, n. 219, nell’ordinamento italiano).[22]
In materia di aiuto al suicidio, le linee guida impongono al medico che intenda prestarlo di assicurarsi che:
- la malattia di cui soffre il paziente legittima la supposizione del suo decesso imminente;
- trattamenti alternativi sono stati proposti e, se accettati dal paziente, adottati;
- una terza persona (non necessariamente il medico stesso) ha accertato che il paziente è in grado di intendere e di volere, ha riflettuto a lungo sul suo desiderio di morte e tale persistente desiderio non è il risultato di pressioni esterne.[23]
Tali criteri sono stati ulteriormente dettagliati dal Parere n. 13/2006, “Criteri di diligenza nell’ambito dell’assistenza al suicidio”, redatto dalla Commissione Nazionale d’Etica per la Medicina, nelle cui raccomandazioni, in particolare, si specifica che «persone con disturbi psichici la cui suicidalità rappresenta un’espressione o un sintomo della malattia non vanno assistite nel suicidio».[24]
Compiute queste verifiche, nel caso in cui l’aiuto consista nella prescrizione di un farmaco, essa deve essere comunicata entro trenta giorni alle autorità competenti.[25] Dopo la morte del paziente, questa deve essere comunicata alle autorità come morte per cause non naturali[26] ed è precluso al medico che ha fornito l’aiuto al suicidio compilare il certificato di morte.[27]
Come stabilito dal Tribunale Federale Svizzero,[28] le linee guida in materia di fine vita non hanno rango di legge formale, ma costituiscono parametro normativo specifico per stabilire la diligenza del medico ai fini della determinazione della responsabilità civile o penale dello stesso, laddove abbia prescritto farmaci letali come il pentobarbital.
Dunque, l’accesso al suicidio assistito, in Svizzera, è solo formalmente liberalizzato. In realtà, per il suicidio tramite farmaci,[29] la combinazione della Legge sugli agenti teraupetici, che impone al medico che prescrive un farmaco di rispettare il dovere di diligenza, e delle linee guida che tale dovere di diligenza definiscono restituisce un quadro normativo fortemente proceduralizzato, nel quale l’autoinduzione della morte tramite farmaco è possibile soltanto se un medico ha accertato la capacità di intendere e di volere del soggetto che manifesta il proposito suicidario, che tale soggetto soffra di una malattia che renda la sua morte vicina e che il suo proposito non sia manifestazione di una malattia che può essere trattata clinicamente o di un impulso transitorio dovuto a una patologia psichiatrica.[30]
Tutte le direttive medico-sanitarie ASSM convergono, invece, nel proibire l’omicidio su richiesta, in quanto illecito penale.
2. Casi giurisprudenziali controversi
Il fatto che l’aiuto al suicidio costituisca reato soltanto se perpetrato per motivi egoistici permette ad organizzazioni di aiuto al suicidio, quali EXIT o Dignitas, ovviamente costituite senza scopo di lucro, di praticare il suicidio assistito sul territorio della Confederazione Svizzera senza incorrere in responsabilità penale o d’altra natura.[31]
Nel 2006, la Corte di diritto pubblico di Zurigo, adita dall’associazione Dignitas, ha affermato che non esiste in capo a tali organizzazioni il diritto a ottenere il pantobarbital senza prescrizione medica.[32]
Nel settembre del 2009, EXIT ha stipulato con il Pubblico Ministero del Cantone di Zurigo un accordo, in forza del quale l’associazione si impegnava al rispetto di particolari criteri nell’esecuzione dei suicidi assistiti in cambio di una garanzia generale di non perseguibilità dei casi di morte per suicidio agevolati dai membri di EXIT stessa. Il Tribunale Federale ha dichiarato l’accordo invalido, perché contrario alle leggi cantonali che impongono un obbligo di indagare sulle morti sospette.[33]
L’operatività di tali organizzazioni, conosciute al pubblico italiano, è discussa anche in Svizzera. Nel caso di EXIT, ad esempio, uno studio ha dimostrato che, su quarantatré pazienti aiutati al suicidio dal 1992 al 1997, meno della metà erano affetti da tumori maligni, alcuni soffrivano solo di patologie psichiatriche, una diagnosi riportava esclusivamente la dicitura «reumatismi» e in molti casi non erano trascorsi neppure sette giorni tra la diagnosi e l’azione suicida.[34]
Come facilmente intuibile, in situazioni tanto tragiche, l’intervento dei giudici (penali e non) è stato frequente.
Una panoramica su alcune delle principali pronunce rese dalle corti penali svizzere in materia di fine vita può aiutare a comprendere la misura (e i limiti) della reazione giudiziaria agli abusi (o presunti tali) nello svolgimento di tali pratiche in uno Stato in cui la non punibilità, in linea generale, dell’aiuto al suicidio è radicata nella mentalità collettiva almeno dagli anni Settanta ed è accettata anche dagli ambienti ecclesiastici.[35]
Tralasciando giudizi morali sui fatti di causa (inconferenti rispetto ai propositi del presente contributo), si vedrà che la capacità di discernimento dell’aspirante suicida e lo scrupoloso accertamento della stessa sono quanto, tendenzialmente, distingue l’aiuto (lecito) al suicidio dall’omicidio (intenzionale o colposo, ovviamente non consenziente in assenza di consenso consapevole).
a. Affaire Baumann[36]
Il primo processo penale celebrato in Svizzera, nel 2007, per pratiche di agevolazione di un suicidio (anche se non giuridicamente inquadrabili come aiuto al suicidio ex art. 115 CP) vedeva il dottor Peter Baumann, uno psichiatra in pensione impegnato per il riconoscimento al diritto al suicidio dei pazienti psichiatrici, imputato per omicidio volontario per aver fornito e fatto indossare a un paziente affetto da problemi psichiatrici una maschera intorno alla testa che, attivata dallo stesso paziente, ha condotto alla morte dello stesso per soffocamento.[37]
Il caso testimonia la complessità degli accertamenti postumi sulla capacità di intendere e di volere di soggetti affetti da patologie psichiatriche: dall’individuazione della patologia di cui effettivamente soffriva un soggetto ormai morto allo stabilire se tale patologia ne compromettesse effettivamente la capacità di volere.
Secondo il consulente tecnico dell’accusa, il paziente del dott. Baumann soffriva prevalentemente di sindromi depressive che, per le tendenze autodistruttive che ne conseguono, sono incompatibili con la consapevole e valida espressione di una volontà suicidaria. La tesi difensiva del dottor Baumann, avallata dal suo consulente, era che invece il paziente soffrisse di nevrosi ossessiva, patologia che non impedisce, in determinati frangenti, la formazione di un volere cosciente e deliberato, persino se ha a oggetto la vita del soggetto.
A seconda delle diverse letture, a carico del dott. Baumann si poteva ipotizzare:
- che avesse realizzato un aiuto al suicidio lecito (se si fosse ritenuto che il paziente avesse validamente espresso la sua volontà di morire e che tale volontà fosse conseguenza della sofferenza derivante dalla malattia psichiatrica di cui era affetto ma che tale malattia non compromettesse la sua capacità di intendere e volere);
- omicidio colposo, ex art. 117 CP[38] (se si fosse ritenuto che la manifestazione della volontà di morire espressa dal paziente fosse condizionata dalla sua incapacità di intendere e volere e che il dott. Baumann avesse, per errore e superficialità, ritenuto il paziente capace di discernimento);
- omicidio intenzionale, ex art. 111 CP (se si fosse ritenuto che il paziente avesse manifestato la volontà di morire e il dott. Baumann, pur sapendo che tale espressione proveniva da una persona incapace di discernimento a causa della malattia mentale di cui soffriva, avesse deciso comunque di agevolarne il suicidio);
- assassinio, ex art. 112 CP[39] (se si fosse ritenuto che il paziente non volesse davvero morire e il dott. Baumann, approfittando delle condizioni dell’uomo, ne avesse manipolato la volontà in ragione del suo impegno politico).[40]
Nel 2007, il Tribunale di primo grado ha condannato il dottor Baumann a tre anni di reclusione per omicidio colposo, nel 2008 la Corte d’Appello del Cantone di Basilea Città l’ha invece ritenuto colpevole di omicidio volontario e a elevato la pena a quattro anni di reclusione, giudizio confermato dal Tribunale Federale nel 2009. Nel 2010, il Gran Consiglio di Basilea Città ha deciso di graziare Baumann, acquisito il parere favorevole della stessa Corte d’appello cantonale che l’aveva condannato pochi mesi prima, precisando però che «al fine di non lanciare un messaggio politico, a essere revocata è solo la pena e non il giudizio».[41]
b. Affaire Preisig[42]
Problemi analoghi a quelli affrontati nel caso Baumann, si sono riproposti nel giudizio che ha visto imputata per omicidio volontario Erika Preisig, nota presidente dell’associazione Lifecircle.
Alla dottoressa Preisig era contestato di aver consegnato pentobarbital a una donna che soffriva soltanto di malattie psichiche e somatiche (e quindi non terminali), in seguito a un accertamento superficiale delle sue condizioni di salute, e di essere in possesso del farmaco per aver rietichettato una dose destinata ad altra persona e averlo conservato presso di sé in violazione degli artt. 5 e 9, LATer.
Prendendo le mosse dalla constatazione che la paziente non fosse in grado di intendere e di volere, e quindi di manifestare volontariamente un proposito suicidario, il reato contestato alla dottoressa Preisig dalla Pubblica Accusa è stato quello di omicidio volontario (di persona incapace).
Da tale accusa la dottoressa Preisig è stata assolta, in accoglimento della propria tesi difensiva, all’esito di un’articolata istruttoria. Il Tribunale ha ritenuto sussistente quantomeno un legittimo dubbio sulla capacità di discernimento della paziente che, in applicazione del principio in dubio pro reo, ha condotto a ritenere provato che (o almeno “non provato che non”) la paziente fosse in grado di manifestare consapevolmente la propria volontà suicidaria.
La dottoressa Preisig è stata invece ritenuta responsabile di violazioni multiple della LATer[43] ed è stata condannata, per l’effetto, a CHF 10.000,00 di sanzione pecuniaria.
c. Affaire Beck[44]
Altro caso recente che ha suscitato grande clamore nell’opinione pubblica elvetica è stato quello che ha condotto a processo Pierre Beck, vicepresidente di EXIT.
In una vicenda processuale per certi versi più lineare delle precedenti, il dott. Beck è stato tratto a giudizio per aver prescritto il pentobarbital a una donna all’epoca ottantaseienne, non affetta da alcuna patologia grave e perfettamente capace di intendere e di volere, perché ella aveva manifestato il desiderio di morire assieme al marito, egli, sì, malato terminale. La perfetta capacità di discernimento della donna ha reso pacificamente integrati gli estremi dell’aiuto (lecito) al suicidio, senza che fosse neppure prospettata la configurabilità di un’ipotesi di omicidio.
Tuttavia, atteso che le linee guida ASSM non permettono la somministrazione di pentobarbital a persone sane, il dott. Beck è stato condannato dalla Corte di giustizia del Cantone di Ginevra a una pena pecuniaria complessiva di circa CHF 14.400,00 (tra conversione di una pene detentiva di 120 giorni a CHF 100 al giorno e una pena pecuniaria originaria di CHF 2.400,00), per il reato contravvenzionale di cui all’art. 86 LATer, commesso con violazione dell’art. 26 LATer che impone il rispetto delle «le regole riconosciute delle scienze mediche e farmaceutiche» nella prescrizione di medicamenti. Nel 2021, il Tribunale Federale ha annullato con rinvio la sentenza ritenendo che le disposizioni da applicare alla materia fossero quelle della Legge sugli stupefacenti (LStup) del 3 ottobre 1951, essendo il pentobarbital classificabile come sostanza stupefacente.[45]
3. Le decisioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul sistema svizzero di fine vita
In due occasioni, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo si è espressa sulla rispondenza del sistema normativo svizzero in materia di fine vita alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, e in particolare all’art. 8 CEDU[46], che tutela il rispetto della vita privata e familiare.
Nella sentenza Haas c. Svizzera,[47] la Corte EDU ha stabilito che, in linea di principio, i limiti e le condizioni poste dal sistema normativo svizzero per l’accesso al suicidio tramite assunzione di farmaci (in particolare: la condizione della prescrizione medica) non violano il diritto al rispetto della propria vita privata da riconoscere al cittadino. Si tratta infatti di disposizioni che, in linea generale e astratta, contemperano il diritto all’autodeterminazione ricavabile dall’art. 8 CEDU con il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU (che protegge il diritto alla vita umana[48]), perché volte a garantire che soltanto coloro i quali siano in grado di esprimere un consenso pienamente informato e cosciente al trattamento letale possano procurarsi il farmaco e, quindi, decidere della propria vita.
Quando, invece, nella sentenza Gross c. Svizzera[49], la Corte ha dovuto decidere se, nel concreto, il sistema normativo elvetico definisse in maniera sufficientemente chiara i casi in cui è consentito il suicidio assistito in Svizzera, il giudizio è stato negativo e si è risolto in una sentenza di condanna. La Corte EDU ha ritenuto che le linee guida dell’ASSM disciplinassero soltanto i casi di aiuto al suicidio dei pazienti terminali mentre non fornissero alcuna indicazione sulle condizioni alle quali (eventualmente) un paziente che non sia malato terminale possa accedere al suicidio assistito. Tale vuoto normativo è stato ritenuto foriero di scarsa chiarezza sull’effettiva estensione del diritto al suicidio assistito nell’ordinamento svizzero.
Confronto con l’ordinamento italiano e conclusioni
A seguito della ricognizione appena effettuata, si può concludere che la disciplina del fine vita nell’ordinamento italiano non è, almeno a livello sistematico, tanto dissimile da quella svizzera.
In Italia, come in Svizzera, l’omicidio del consenziente è sempre punito (seppur con pene assai diverse e nelle differenze applicative della fattispecie tra le due giurisprudenze nazionali).
Con la sentenza n. 242 del 2019, invece, la Corte Costituzionale ha costruito un’articolata procedura di accesso al suicidio assistito, per la quale esso è lecitamente accessibile, in Italia, a persone «tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e affette da patologie, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che le stesse reputano intollerabili», a patto che:
- per i fatti successivi all’emissione della sentenza, la volontà delle stesse sia acquisita nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 1 e 2, L. 219/2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (ovverosia: accertamento della capacità di intendere e di volere del paziente e della sua piena conoscenza delle proprie condizioni di salute) e, per i fatti precedenti la sentenza della Consulta, siano state rispettate procedure equivalenti;
- le «modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[50].
La grande differenza sostanziale è nell’individuazione dei requisiti d’accesso al suicidio assistito: mentre in Svizzera esso è, in linea di principio, accessibile a tutti i malati terminali, in Italia lo è soltanto per «persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e affette da patologie intollerabili».[51]
Con l’approvazione del disegno di legge oggi in discussione al Senato, invece, anche in Italia l’accesso al suicidio assistito sarebbe esteso a chi si trovi in una delle seguenti condizioni:
«a) essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta;
b) essere portatrice di una condizione clinica irreversibile;
c) essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale o dipendente da trattamenti farmacologici o dipendente totalmente dall’assistenza da terzi;
d) essere assistita dalla rete per le cure palliative, di cui all’articolo 5 della legge 15 marzo 2010, n. 38, o avere espressamente rifiutato tale assistenza»[52]
Non rientra nei propositi del presente contributo giudicare il contenuto sostanziale delle norme in parola. Si è invece provato a fornire qualche spunto per una riflessione sistematica sul fine vita.
Certo è che, almeno in teoria, una definizione scrupolosa delle procedure di acquisizione del consenso potrebbe efficacemente prevenire l’insorgere di alcuni tra i problemi più spinosi riscontrati dalla giurisprudenza svizzera, ovverosia quelli legati alla manifestazione del proposito suicidario da parte delle persone affette da patologie psichiatriche (e in particolare da crisi depressive), riducendo al minimo il manifestarsi di situazioni di dubbio (nonché la relativa rilevanza giuridica) e la necessità di accertamenti postumi della capacità di intendere e volere del suicida.
Quanto si può ritenere assodato, a ogni modo, è che anche in un Paese in cui l’accesso alle pratiche di fine vita è storicamente apparso più liberalizzato all’opinione pubblica italiana, il dibattito è stato incandescente, l’intervento giurisdizionale frequente (perché labili i confini tra lecito e illecito), l’omicidio sempre punito e anche le pratiche di assistenza al suicidio sono state – in un modo o nell’altro – rigorosamente proceduralizzate.
È vero che le procedure spesso potrebbero rallentare l’accesso all’atto finale per gli aventi diritto. Ancor peggio, in alcuni casi, la scorretta applicazione delle procedure potrebbe precludere totalmente l’accesso alle pratiche di fine vita a chi ne abbia i requisiti.
È altrettanto vero, però, che, in linea generale, la procedura porta forme e le forme altro non sono che garanzia dei diritti dei soggetti coinvolti,[53] in questo caso del diritto apicale: il diritto alla vita.