La causa è stata decisa in base al nuovo codice civile in vigore in Cina da gennaio 2021, che prevede che una persona possa chiedere un indennizzo al partner se, durante il matrimonio, si sia presa cura in prevalenza dei bambini o dei genitori anziani o abbia svolto la maggior parte dei lavori domestici.
Secondo l’articolo 1088 “quando un coniuge è aggravato da compiti addizionali di educazione dei figli, accudimento degli anziani o assistenza dell’altro coniuge nel suo lavoro, ha il diritto di ricevere una dovuta compensazione nella causa di divorzio”.
Così, oltre a un assegno di mantenimento di 2000 yuan al mese (circa 250 euro) e alla divisione paritaria dei beni familiari, la donna si è vista anche assegnare un indennizzo di 50mila yuan per il suo impegno domestico.
Questa vicenda porta a domandarsi se e quanto valga il lavoro di una donna che sia moglie e/o mamma a tempo pieno.
Sul web molti utenti hanno elogiato la sentenza considerandola una svolta nella tutela del sesso “debole”. In Cina non è raro che le donne lascino il lavoro per dedicarsi all’educazione dei figli, un’attività concepita come un lavoro a tempo pieno. Secondo l’OCSE le donne cinesi dedicano in media quattro ore e mezza al giorno ad attività domestiche non retribuite, due volte e mezza in più rispetto ai mariti, una delle distribuzioni dei carichi più sbilanciate a livello mondiale. Il problema diventa ancora più grave in caso di divorzio, visto che le mogli, che fino ad allora avevano contato sul sostentamento del marito, sono fuori dal mercato del lavoro. Non è neppure raro poi che i beni familiari di maggior valore, in particolare la casa, siano intestati solo al marito.
Il caso, a cui ha fatto da cassa di risonanza anche dalla BBC, ha suscitato un grande dibattito online, tra chi considera ridicola la cifra assegnata dal giudice (considerato il costo della vita in una città come Pechino) e chi fa appello agli uomini affinché aiutino di più le donne nella cura della casa e della famiglia.
E in Italia che succede?
Nel mondo del lavoro le donne subiscono maggiori discriminazioni rispetto agli uomini, determinando un peso significativo sul riconoscimento dell’assegno divorzile in favore delle ex mogli. Dello squilibrio di genere presente nel mercato del lavoro italiano ho parlato in un mio recente articolo che potete leggere a questo link.
Le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 18287/2018 hanno eliminato il parametro del tenore di vita per la determinazione dell’assegno divorzile e hanno valorizzato il sacrificio delle donne che, a causa della maggiore difficoltà di collocazione nel mondo del lavoro per fare carriera e guadagnare allo stesso modo del marito, devono spesso scegliere di occuparsi esclusivamente della famiglia.
Si tratta di un riconoscimento che si basa su elementi statistici, che evidenziano lo squilibrio di genere dato dall’elevato tasso di disoccupazione femminile, al quale si aggiunge, a parità di occupazioni, un divario retributivo (il cosiddetto gender pay gap).
Il fatto di dedicarsi alla famiglia in alternativa alla carriera professionale è una scelta comune anche in Italia, talvolta obbligata. Quindi, in caso di separazione o divorzio, la donna si ritrova spesso ad essere estranea al mercato del lavoro con evidenti difficoltà di inserimento, che aumentano con l’aumentare dell’età.
In sede di divorzio, il giudice deve innanzitutto decidere se assegnare o meno all’ex coniuge (nella maggior parte dei casi, per le ragioni evidenziate, l’ex moglie) l’assegno di mantenimento, meglio noto come assegno divorzile.
Dopodiché, in caso di valutazione positiva, si passa a definirne l’ammontare concreto secondo alcuni parametri stabiliti in parte dalla legge e in parte dai precedenti giurisprudenziali.
Secondo la Cassazione, a una donna casalinga spetta il mantenimento se non più giovane e capace di procurarsi reddito con altra occupazione. La durata del matrimonio è uno degli indici che influiscono sull’ammontare del mantenimento; quindi, ad esempio, in un matrimonio durato pochi anni, dove entrambi i coniugi non superano 35 anni, difficilmente la donna, anche se disoccupata, potrà ottenere l’assegno divorzile in quanto si presume sia capace di rendersi autonoma e autosufficiente, salvo che non dimostri di avere cercato attivamente lavoro (ad esempio inviando il curriculum o iscrivendosi alle liste di collocamento).
Il discorso è diverso per la moglie casalinga che abbia superato i 50 anni di età: qui gli indizi sono contro il marito in quanto si presume che lei abbia rinunciato a un impiego per favorire l’uomo, “sacrificandosi” per la famiglia. Con il suo lavoro domestico la moglie avrebbe infatti consentito al coniuge di dedicarsi serenamente alla sua carriera.
In presenza di simili circostanze, il giudice deve valutare il ruolo che ha avuto la moglie nell’incremento del patrimonio familiare. Se ha fatto la casalinga, anche non portando soldi a casa, ha contribuito lo stesso alla ricchezza del marito, evitando che costui spendesse soldi in baby sitter e domestiche e garantendogli di potersi dedicare al lavoro e alla carriera.
Ma c’è di più. Il giudice, quando valuta il “contributo fornito dalla moglie al patrimonio familiare”, cioè per quanto tempo ha fatto la casalinga rinunciando al suo guadagno, deve anche verificare se questa circostanza sia il frutto di una scelta condivisa tra i coniugi.
Se il marito, infatti, dovesse riuscire a dimostrare che la moglie non ha mai voluto trovare un impiego nonostante le sollecitazioni ricevute da lui, il mantenimento di lei sarebbe a rischio. Entra in gioco una valutazione di non meritevolezza dell’assegno. Ma servono, appunto, prove tangibili.
Cosa accade se la moglie è “pigra”?
Recentemente la Cassazione si è espressa in un caso in cui l’ex moglie si rifiutava di cercare un lavoro, anzi, mostrava un “atteggiamento particolarmente rinunciatario” nonostante fosse ancora giovane e in buona salute: per la Cassazione questo atteggiamento esclude il diritto all’assegno di mantenimento. Per ottenerlo, infatti, è necessario almeno dimostrare impegno attivo nella ricerca di un impiego. La donna, invece, aveva incassato per anni l’assegno dall’ex marito che però non era più disposto a continuare a versarle il denaro, vista la rinuncia di lei a rendersi indipendente. Ora la Suprema Corte, con l’ordinanza numero 2653/2021, ha stabilito un importante precedente che non mancherà di essere applicato in altri casi analoghi.
L’ex moglie sosteneva anche che il fatto di non avere lavorato per più di vent’anni l’avesse messa praticamente fuori mercato: sosteneva di essere stata ritenuta, dalla Corte d’Appello, solo “astrattamente idonea a svolgere attività lavorativa”, senza esempi concreti e senza tenere conto delle difficoltà che avrebbe incontrato se si fosse effettivamente messa alla ricerca di qualsiasi occupazione.
La Cassazione ha tuttavia respinto queste argomentazioni sottolineando l’“atteggiamento rinunciatario” della donna. I giudici hanno innanzitutto specificato che quando era sposata non viveva nel lusso. Gli stessi hanno poi tenuto conto dell’età – “di soli 46 anni, quindi non particolarmente avanzata” -, delle buone condizioni di salute della donna e dell’assenza di impedimenti alla ricerca di un impiego.