Indice
1. L’introduzione dell’art. 323 ter c.p. ad opera della L. Spazzacorrotti: ratio e disciplina
2. Ipotesi di esclusione
3. Criticità applicative e difetto di effettività
1. L’introduzione dell’art. 323 ter c.p. ad opera della L. Spazzacorrotti: ratio e disciplina
La c.d. legge Spazzacorrotti, sulla scorta del sempre maggiore livello di corruzione che imperversa nel nostro Paese, ha rimaneggiato in maniera sostanziale taluni aspetti nevralgici del sistema normativo in materia.
Se da un lato, infatti, è stato inasprito l’arsenale sanzionatorio già vigente, contestualmente introducendo i reati di siffatta natura tra quelli c.d. ostativi ex art. 4 bis o.p., per altro verso il legislatore, in un’ottica deterrente e finalizzata alla emersione delle corruttele, ha introdotto una speciale causa di non punibilità, oggi prevista dal neo art. 323 ter c.p.
Ed infatti, il legislatore ha pensato di fronteggiare il dilagare del fenomeno corruttivo adottando una strategia politico-criminale differenziata, mediante l’inasprimento della risposta penale sul piano del trattamento punitivo, e dall’altro parte attraverso la previsione di un trattamento di favore per chi, ravvedutosi, crea una frattura nel pactum sceleris aiutando concretamente ed efficacemente le autorità inquirenti, fornendo alle stesse dati conoscitivi rilevanti per l’assicurazione delle prove dei reati, o per l’individuazione degli altri soggetti responsabili, o per il reperimento e sequestro delle somme e delle altre utilità trasferite all’intraneus.
Nello specifico, l’art. 323 ter c.p. tende alla promozione della condotta collaborativa del reo, in una inedita veste di causa di non punibilità in senso stretto, secondo la quale, il fatto è tipico, antigiuridico e colpevole ma non punibile, sulla scorta di un comportamento post delictum.
I primi commentatori hanno sin da subito sollevato qualche criticità sulla fattispecie pensata, nel progetto “Cernobbio”, quale circostanza attenuante, poi, invece, formulata in termini di causa di esclusione della punibilità. D’altronde, nel corso del tempo, è stato introdotto nel nostro ordinamento un numero sempre crescente di circostanze attenuanti ad effetto speciale ispirate al favor reparandi, tese ad incentivare certe condotte dell’agente del reato ritenute corrispondenti agli interessi del sistema giuridico. Di talché, la scelta legislativa di erigere a causa di non punibilità la condotta ex art. 323 ter c.p., appare – quantomeno – sui generis, atteso che quella medesima condotta collaborativa risulta essere, nella maggior parte dei restanti casi e nell’ambito degli stessi delitti avverso la Pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 323 bis c.p., trattata alla stregua di una mera circostanza attenuante.
In sostanza, intorno all’art. 323 ter c.p. ruota un chiaro bilanciamento di interessi secondo il quale il legislatore ritiene sacrificabile l’intervento punitivo nei confronti di colui il quale ha permesso l’accertamento di quella condotta, che altrimenti sarebbe rimasta priva di cognizione.
Dunque, la previsione normativa di nuovo conio si aggiunge all’attenuante prevista dall’articolo precedente (art. 323 bis c.p.), in una sorta di climax ascendente di premialità, che prevede la non punibilità per una serie di delitti contro la p.a. se il soggetto, in maniera tempestiva e volontaria, ovvero prima di avere contezza di indagini a suo carico, ed entro quattro mesi dalla commissione del fatto, denuncia e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili. Al secondo comma, si subordina la non punibilità alla messa a disposizione dell’utilità dallo stesso percepita o, ove non possibile, di una somma di denaro di valore equivalente.
2. Ipotesi di esclusione
Al terzo e quarto comma, l’art. 323 ter c.p. mostra i suoi limiti negativi tramite espresse ipotesi di esclusione dalla causa di non punibilità: da un lato, nel caso di premeditazione della condotta, qualora la denuncia sia preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato e, dall’altro, nel caso dell’agente sotto copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell’articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146.
Con riferimento al caso dell’agente sotto copertura, il legislatore ha pienamente intrapreso la strada spianata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene tale figura incompatibile con il principio del giusto processo. Del resto, una tale tecnica investigativa è considerata plausibile in uno stato di polizia, ma non accettabile in uno stato, come il nostro, di diritto.
Ad ogni modo, per comprendere la finalità dell’ultimo comma della previsione normativa occorre distinguere la figura dell’agente provocatore (incompatibile con la Convenzione), ossia colui che istiga e “crea” il reato mediante una finzione, ponendo in essere una condotta propulsiva di un reato che altrimenti non sarebbe stato commesso, da quella dell’agente sotto copertura (penalmente irrilevante), ovvero colui che non “crea” il reato ma ne fornisce solo l’occasione in capo al soggetto che aveva già l’intenzione di commetterlo, seppur in maniera latente.
Pertanto, seguendo i dettami della Corte Edu, nel caso in cui il reato sia stato del tutto istigato dal provocatore, è logico ritenere integrata la violazione del giusto processo, atteso il principio secondo il quale non sia equo condannare il provocato acquisendo il materiale probatorio raccolto dal soggetto provocatore.
3. Criticità applicative e difetto di effettività
Così come formulata, la norma di nuova introduzione sembra applicabile ad un vasto ventaglio di reati (corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità, induzione indebita e corruzione di membri delle Corti Internazionali, degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri, turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, astensione dagli incanti), tra i quali tuttavia non figura l’art. 346 bis c.p., rubricato “Traffico di influenze illecite”, nonostante esso sia un c.d.“reato-contratto”, equiparato ai reati corruttivi. Da escludersi una eventuale applicazione analogica dell’art. 323 ter c.p. al traffico di influenze illecite, considerato che le cause di non punibilità in senso stretto sono considerate norme eccezionali, come tali insuscettibili di applicazione in via analogia.
Se ciò non bastasse a giustificare le criticità sollevate dai primi commentatori, tra i reati ai quali si applica la causa di non punibilità in questione, figurano reati “non contratto”, ed anzi qualificabili come monosoggettivi, su tutti la turbata libertà degli incanti ex art. 353 c.p.
Ebbene, se la ratio della novella legislativa è, come è, l’autodenuncia per riuscire a punire i concorrenti nel reato, la critica contesta la circostanza in cui la condotta risulti posta in essere senza i correi, come nel caso di specie ipotizzato.
È per le argomentazioni che precedono che si ritiene maggiormente plausibile applicare lo strumento premiale al traffico di influenze illecite, piuttosto che al delitto di turbata libertà degli incanti.
Se davvero il legislatore vuole «rompere il muro di omertà e la catena di solidarietà che protegge fattispecie tipicamente bilaterali, al fine di acquisire elementi probatori di norma molto difficili da assicurare al processo», dovrà operare in maniera più incisiva e completa.
Non sarebbe onesto omettere come, in caso di autodenuncia del soggetto che ammette la commissione di un delitto, questi sarà comunque iscritto nel registro delle notizie di reato, in quanto il beneficio dell’impunità gli sarà concesso solo quando saranno ritenuti integrati i plurimi presupposti indicati dalla norma, dopo essere stati vagliati da un giudice, a seguito di una richiesta di archiviazione.
Ed ancora, si richiede il ravvedimento di un soggetto che, nondimeno, verosimilmente vedrà il suo il coinvolgimento mediatico nella vicenda corruttiva, attesa la prevedibile prassi attuata dal giornalismo giudiziario. Se ciò che precede non bastasse, qualora il soggetto fosse anche pubblico dipendente, la resipiscenza successiva non lo immunizzerebbe dalla punibilità amministrativa della sua condotta illecita, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero.
In conclusione, è apprezzabile il chiaro intento del legislatore del 2019 di superare l’impasse investigativa in una logica di rapida conclusione del processo, a fronte del sacrificio di pretesa punitiva nei confronti di uno dei correi, tenendo concretamente conto della minore capacità a delinquere del colpevole che si sia ravveduto, mirando ad una collaborazione c.d. processuale.
Ciononostante, seppur a breve distanza dall’ultima riforma, si ipotizza già un nuovo intervento legislativo volto a superare le difficoltà applicative della norma affinché si possa, finalmente, esplicare concretamente l’armamentario dell’anticorruzione, in linea con le costanti indicazioni sovranazionali.