Indice
1. La chiamata in correità: valutazione della prova ai sensi dell’art. 192, III e IV comma, C.p.p.
2. La teoria della convergenza del molteplice
3. La valutazione circa la testimonianza della parte offesa
4. Conclusioni circa l’applicabilità della teoria della convergenza del molteplice in relazione alla testimonianza della parte offesa
1. La chiamata in correità: valutazione della prova ai sensi dell’art. 192, III e IV comma, c.p.p.
L’espressione “chiamata in correità o in reità” propone l’ipotesi in cui un soggetto accusi altri di aver commesso un fatto di reato. Si distingue: “la chiamata in correità”, quando il dichiarante che ha concorso nella commissione del reato attribuisce ad altri la compartecipazione allo stesso fatto; la “chiamata in reità”, invece, sussiste quando il propalante non si è dichiarato responsabile del fatto per cui si procede, ma comunque ha accusato altri di averlo commesso.
Per valutare tali dichiarazioni, il codice di procedura penale impone un’analisi probatoria più rigorosa rispetto a quella prevista per i testimoni: ai sensi del III e IV comma dell’art. 192 c.p.p. si stabilisce che tali dichiarazioni vengano valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. E’ pressoché evidente che poiché le predette accuse provengono da soggetti coinvolti nella medesima fattispecie di reato o in condotte a esso connesso o collegate, è necessario vagliare la loro attendibilità sulla base di ulteriori riscontri obiettivi, in assenza dei quali la chiamata in correità non presenta un pieno valore probatorio.
Per avere valenza probatoria, come suggerisce il dato letterale dell’articolo citato, è necessario che la dichiarazione, in primis, risulti credibile e attendibile sia sotto il profilo intrinseco che estrinseco.
Per quanto riguarda la c.d. attendibilità intrinseca, questa viene valutata in considerazione di alcuni elementi positivi circa l’affidabilità della chiamata in correo, fra cui: la verosimiglianza, la costanza, la precisione, la spontaneità, la completezza del racconto, la reiterazione delle dichiarazioni senza cadere in contraddizione.
Oltre a ciò, la giurisprudenza di legittimità ritiene ammissibile la valutazione frazionata delle dichiarazioni: è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni confessorie, accusatorie da chiamate in correità e testimoniali quando le parti del narrato ritenute veritiere reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessaria, e non sussista interferenza fattuale e logica – ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica – con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell’intero racconto[1].
Per quanto concerne, invece, la credibilità estrinseca, si richiede che essa sia corroborata da elementi estranei alla dichiarazione che possono confermare l’affidabilità della chiamata. È sufficiente che tali riscontri, se pur di qualsiasi natura o tipo, pongano in relazione il fatto di reato con il soggetto del chiamato e che siano “individualizzanti” cioè consentano di individuare la posizione del chiamato quale responsabile anche a titolo di concorso con altri nel reato.
2. La teoria della convergenza del molteplice
È pacifico in giurisprudenza che, in tema di valutazione della prova, i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti da ulteriori dichiarazioni accusatorie, a condizione che presentino determinati requisiti[2].
Le predette ulteriori dichiarazioni accusatorie devono caratterizzarsi per la loro convergenza in relazione al fatto materiale oggetto della narrazione; devono essere indipendenti da condizionamenti, da suggestioni che ledano il valore della concordanza e, infine, devono caratterizzarsi per la loro specificità.
In relazione all’ultimo elemento, spesso si fa riferimento alla teoria della convergenza del molteplice, secondo la quale è sufficiente che le dichiarazioni concordino sugli elementi essenziali del thema probandum. In altri termini, le eventuali discrasie su elementi marginali o comunque estranei al nucleo dell’imputazione non lederebbero la validità di quanto dichiarato. Si previlegia, quindi, l’aspetto sostanziale delle propalazioni della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere[3]. All’opposto, l’eventuale perfetta sovrapponibilità fra le dichiarazioni potrebbe costituire motivo di sospetto d’intenti calunniatori e dimostrare la falsità delle stesse.
Non si richiede, inoltre, che l’ulteriore chiamata in correità o dichiarazione siano contemporanee, ma si esige soltanto che la credibilità del dichiarante sia vagliata rigorosamente.
Infine, la c.d. mutual corroboration, cioè la valida corroborazione reciproca fra dichiarazioni opera anche in relazione alla chiamata in correità del relato, la cui valutazione però attribuisce l’obbligo in capo al giudice di vagliare l’attendibilità sia riguardo all’autore immediato sia in relazione alla fonte originaria dell’accusa, in ossequio del principio generale di cui all’art. 192, I comma, c.p.p. e in osservanza del disposto di cui all’art. 195 c.p.p., richiamato dall’art. 210, V comma, c.p.p.
3. La valutazione circa la testimonianza della parte offesa
La parte offesa, anche costituita parte civile, può assumere le vesti di testimone.
Soprattutto, in relazione a molteplici fattispecie di reato spesso è la stessa dichiarazione della parte offesa a rappresentare l’unico elemento di prova (si pensi, ad esempio, a una minaccia pronunciata in assenza di ulteriori testimoni…).
È ormai consolidato in giurisprudenza che la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purché sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, ma senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., quindi, in assenza di riscontri esterni attestanti l’attendibilità.
Deve, tuttavia, evidenziarsi che, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, pertanto, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le asserzioni di qualsiasi testimone, rendendosi opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi processuali. Precisamente: in tema di valutazione della prova penale, le dichiarazioni della persona offesa, specie se costituitasi parte civile, non sono assistite da alcuna presunzione di credibilità, con la conseguenza che il giudice deve procedere anche d’ufficio ad una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca del racconto accusatorio, che deve essere confrontato con tutti gli altri elementi processuali, non potendo gravare sull’imputato l’onere di provare la falsità della deposizione.[4]
In altri termini, ai fini della valutazione della testimonianza resa dalla parte offesa – anche se costituita parte civile – non si richiede la sussistenza dei riscontri esterni, bensì solo di riscontri endoprocessuali.
4. Conclusioni circa l’applicabilità della teoria della convergenza del molteplice in relazione alla testimonianza della parte offesa
Si immagini l’ipotesi in cui si proceda per un reato il cui intero impianto accusatorio si basi sulle dichiarazioni rese da due parti offese, entrambe contestualmente vittime dello stesso reato commesso dal medesimo autore.
Tuttavia, le predette dichiarazioni divergono su molteplici elementi, nonostante le parti offese fossero presenti al momento del fatto e abbiano subito direttamente la lesione del proprio bene giuridico.
In un’ipotesi come questa, si può ritenere applicabile la teoria della convergenza del molteplice sfruttandola per superare le discrasie? Oppure è richiesta la totale e perfetta sovrapponibilità delle dichiarazioni perché siano ritenute credibili?
A parere della scrivente, la risoluzione non può che trarre origine dal contesto in cui si sviluppa la stessa teoria: in relazione ai soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. e, spesso, riferita a collaboratori di giustizia. Si tratta, quindi, di soggetti che sono o sono stati – a cagione della loro provenienza da ambienti criminali – coinvolti nei fatti oggetto di esame, tant’è che proprio per questo le loro dichiarazioni possono essere ritenute maggiormente credibili; oltre ai benefici che traggono dall’assumere un atteggiamento collaborativo.
Pertanto, in tale contesto – come già sottolineato – la completa e perfetta sovrapponibilità delle dichiarazioni potrà essere, all’opposto, motivo di sospetto e ledere la credibilità delle dichiarazioni.
In relazione, invece, alle accuse rese dalle parti offese, si renderà necessaria la perfetta coincidenza di quanto dichiarato, anche in riferimento a elementi marginali.
Con la conseguenza che le eventuali discrasie non dovranno essere valutate positivamente come sintomo di sincerità della dichiarazione, bensì considerate ai fini della credibilità intrinseca ed estrinseca delle testimoni.
Inoltre, qualora la parte offesa si sia costituita parte civile – e quindi sia portatrice di un interesse anche semplicemente vendicativo – l’attendibilità dovrà essere valutata più rigorosamente. Pertanto, eventuali discrasie fra i narrati delle due parti civile costituite, a maggior ragione, dovrebbero dimostrare l’inattendibilità delle dichiarazioni.
[1] Cass,. pen., sez. V, 30/06/2020, n. 25940.
[2] Cass. pen., sez. I, 27/02/2013, n. 9408
[3] Cass. pen., sez.VI, 26/11/2008, n. 1091
[4] Corte appello Ancona, 06/10/2020, n.1276