Pur non costituendo specifica fattispecie incriminatrice, il “cyberbullismo” è punito mediante il ricorso a fattispecie di reato già esistenti nel nostro ordinamento, le quali colpiscono alcuni, ma non tutti, comportamenti rientranti nel fenomeno in esame.
Indice
1. Definizione di bullismo e sue caratteristiche
2. Definizione e fenomenologia del cyberbullismo
3. Il quadro normativo: gli aspetti penalmente rilevanti del cyberbullismo
1. Definizione di bullismo e sue caratteristiche
ll termine “bullismo”, di derivazione anglosassone, è successivamente divenuto di comune utilizzo nella lingua italiana, ove viene utilizzato per descrivere un comportamento spavaldo, arrogante, sfrontato, improntato alla sopraffazione dei più deboli, con riferimenti a violenze fisiche e psicologiche attuate specialmente in ambienti scolastici o giovanili. Una definizione più completa si rinviene nella legge 29 maggio 2017, n. 71, rubricata “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, il cui testo, definitivamente adottato dalla Camera dei deputati in data 17 maggio 2017, è stata pubblicato in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale) n. 127 del 3 giugno 2017, ed entrato in vigore il 18 giugno 2017. Ai sensi della legge appena menzionata, col termine “bullismo” si intendono “l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, a danno di una o più vittime, idonee a provocare in esse sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni o violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni per ragioni di lingua, etnia, religione, orientamento sessuale, aspetto fisico, disabilità o altre condizioni personali e sociali della vittima”.
Le caratteristiche della condotta sono dunque le seguenti:
- Intenzionalità: il bullo agisce con consapevolezza e, spesso, con premeditazione, col preciso intento di arrecare danno alla vittima.
- Persistenza: l’interazione tra bullo e vittima non si esaurisce in un singolo episodio, ma si snoda in una serie di aggressioni reiterate nel tempo.
- Asimmetria di potere: tra il bullo e la vittima vi è una diseguaglianza di forza, dovuta sia alle caratteristiche psicofisiche individuali, sia al fatto che l’agente gode della complicità, o comunque dell’approvazione passiva, del gruppo, mentre la vittima soffre di una situazione di isolamento.
- Dislocazione in un preciso contesto sociale: in particolare il contesto scolastico.
2. Definizione e fenomenologia del cyberbullismo
Il fenomeno del cyberbullismo, di diffusione relativamente recente, contrassegna una particolare modalità di realizzazione di alcuni comportamenti di natura prevaricatoria tipici del bullismo, la cui proiezione nel cyberspazio ne accresce a dismisura le potenzialità offensive. Ai fini della legge 29 maggio 2017, n. 71, sopra menzionata, per cyberbullismo “si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti online aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”.
La legge in questione non introduce una specifica fattispecie incriminatrice; tuttavia nel descrivere che cosa si debba intendere per “cyberbullismo”, il Legislatore ha richiamato una serie di condotte illecite, in larga parte riconducibili a fattispecie di reato già esistenti nel nostro ordinamento, le quali colpiscono alcuni, ma non tutti, comportamenti rientranti nel fenomeno in esame. L’individuazione in concreto della fattispecie consente, comunque, ai minori di chiedere la rimozione, l’oscuramento o il blocco di contenuti, a loro riferiti e diffusi per via telematica, che ritengono essere atti di cyberbullismo (es. foto o video imbarazzanti od offensivi, pagine web o post sui social network in cui si è vittime di minacce, offese, insulti etc.). Le richieste di cancellazione del contenuto vanno inviate al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o dei social media dove sono pubblicate le informazioni, le foto, i video etc. ritenuti atti di cyberbullismo. L’istanza può essere inviata direttamente dal minore se ha più di 14 anni, oppure da chi esercita la responsabilità genitoriale. Il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media che ospita i contenuti ritenuti offensivi risponde ed eventualmente provvede alla richiesta di eliminazione nei tempi previsti dalla legge. Nel caso la richiesta non venga soddisfatta, ci si può rivolgere al Garante per la protezione dei dati personali, che entro 48 ore provvede in merito alla segnalazione. Nei confronti di chi non rispetta le misure disposte dall’Autorità potranno essere applicate le sanzioni previste dal Codice Privacy.
3. Il quadro normativo: gli aspetti penalmente rilevanti del cyberbullismo
Nell’ambito del cyberbullismo, si possono distinguere varie tipologie di condotta.
In primo luogo, viene il rilievo il c.d. cyberbullismo proprio. La condotta vessatoria viene perpetrata ab origine nel mondo digitale e viene punita spesso in modo aggravato rispetto alla omologa condotta, anch’essa penalmente rilevante, realizzabile nel mondo reale. Il cyberbullismo proprio ricomprende i seguenti comportamenti:
1. Flaming: vale a dire pubblicazione di messaggi elettronici dal contenuto aggressivo, violento, volgare, denigratorio, tra due o più contendenti, i quali ingaggiano una vera e propria battaglia verbale in un ambiente informatico (servizi di messaggistica, chat, bacheca di un social network). Si caratterizza per la durata breve, coincidente con la presenza online degli individui coinvolti. Può essere ricondotto nelle fattispecie di: ingiuria (es. invio di insulti alla vittima via sms); diffamazione (es. pubblicazione di messaggi denigratori su social network) o anche, ricorrendone gli elementi costitutivi, atti persecutori (persecuzione vera e propria attuata mediante ripetuti messaggi inoltrati attraverso mezzi informatici o telematici);
2. Harassment: invio di una moltitudine di messaggi informatici a contenuto volgare, aggressivo, minatorio (sms, email, chat, social network eccetera) da parte di uno o più soggetti attivi nei confronti un individuo target. A differenza del flaming, questo fenomeno è caratterizzato dalla “asimmetria di potere” tra le parti (il bullo, o i bulli, da una parte, la vittima dall’altra); nonchè dalla persistenza e dalla reiterazione nel tempo delle condotte aggressive, la cui perpetrazione non dipende dalla presenza online della vittima in un ambiente condiviso. Può essere ricondotto nelle fattispecie di: ingiuria (es. invio di insulti alla vittima via sms); diffamazione (es. pubblicazione di messaggi denigratori su social network) o anche, ricorrendone gli elementi costitutivi, atti persecutori (persecuzione vera e propria attuata mediante ripetuti messaggi inoltrati attraverso mezzi informatici o telematici);
3. Denigration: diffusione informatica o telematica (mediante servizi di messaggistica o su social network) di notizie, fotografie o videoclip, veri o anche artefatti (mediante fotomontaggi) riguardanti comportamenti o situazioni imbarazzanti che coinvolgono la vittima, con lo scopo di ridicolizzarne l’immagine, offenderne la reputazione o violarne comunque la riservatezza. Può essere ricondotto alla diffamazione (si pensi alla creazione di pagine Web o di chat dedicate allo scambio di contenuti digitali atti a ridicolizzare la vittima);
4. Impersonation: si verifica quando il cyber-bullo si impadronisce delle chiavi di accesso ai profili di identità digitale della vittima, clandestinamente o approfittando della fiducia mal riposta di quest’ultima, e ne approfitta per creare nocumento o imbarazzo (ad esempio, inviando messaggi o pubblicando contenuti inopportuni, visualizzabili come se provenissero dalla vittima stessa). Può essere ricondotto:
– la condotta consistente nell’accedere abusivamente ad un profilo digitale altrui protetto da chiavi d’accesso, ad esempio, attraverso la decodificazione o il “furto” della password all’insaputa del titolare, integra di per sé il reato di “accesso abusivo a un sistema informatico”, a prescindere da qualsiasi successivo utilizzo pregiudizievole del profilo stesso;
– l’utilizzo indebito della identità digitale altrui (ad esempio la creazione di un finto profilo Facebook col nome della vittima, oppure l’accesso e uso indebito della casella email) integra il reato di “sostituzione di persona” consistente nel fatto di chi “al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome”.
Si ha, invece, il c.d. cyberbullismo improprio, quando un episodio di bullismo attuato nella vita reale già di per sé penalmente rilevante viene documentato da immagini o riprese successivamente diffuse in rete, dando luogo ad ulteriori profili di rilevanza penale. Il cyberbullismo improprio ricomprende il cyberbashing o happy slapping (rientrante nella denigration) consistente nella videoripresa delle angherie e dei soprusi perpetrati dai bulli nei confronti della vittima (percosse, insulti, costringimenti a subire o a porre in essere attività ridicolizzanti, anche a sfondo sessuale) e alla successiva pubblicazione per via informatica, sempre al fine di pregiudicare l’immagine della vittima dinanzi ad una platea più vasta. Può essere ricondotto:
– delitto di diffamazione (art. 595 c.p.) che punisce l’offesa arrecata all’altrui reputazione mediante comunicazione effettuata a più persone: non v’è dubbio infatti che la diffusione in rete di episodi di questo genere rappresenti una “comunicazione” a più destinatari, suscettibile di arrecare un danno alla reputazione della vittima. Sotto quest’ultimo profilo, risulta altresì applicabile l’aggravante prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p., che prevede un considerevole aumento di pena qualora il fatto sia commesso “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”;
– delitto di “trattamento illecito dei dati personali”, previsto dall’art. 167 del D. Lgs. 196/2003 c.d. “codice della privacy”, il quale punisce chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione delle regole dettate dal codice stesso, e in particolare in assenza del consenso del titolare dei dati, “se dal fatto deriva nocumento” a quest’ultimo; e se il fatto consiste nella “comunicazione o diffusione” dei dati stessi, la pena è aumentata. A questo riguardo, senz’altro l’immissione delle immagini o dei video degli atti di bullismo integra l’ipotesi della “comunicazione o diffusione”, e determina altresì un apprezzabile “nocumento” per il soggetto passivo, in ragione del pregiudizio arrecato sia alla riservatezza, sia all’integrità dell’immagine di quest’ultimo.
Il panorama è completato dal cyberbullismo ibrido, che si realizza quando il materiale digitale (immagini, video) che documenta un episodio della vita reale, di per sé penalmente irrilevante, viene immesso in rete, con conseguente assunzione di rilevanza penale della condotta di diffusione non autorizzata del materiale medesimo, in quanto pregiudizievole per la riservatezza della vittima o per l’integrità della sua immagine. Il cyberbullismo ibrido ricomprende il seguente comportamento: il c.d. Outing and trickery che consta nella ricezione o detenzione di dati o immagini “sensibili” della vittima, inviati da quest’ultima o comunque realizzati con il suo consenso (si pensi alle immagini a contenuto sessualmente esplicito scambiate consensualmente durante una relazione affettiva) e alla successiva pubblicazione, questa volta senza il consenso della vittima o addirittura contro il suo espresso dissenso, attraverso circuiti informatici (specialmente chat e social network), con l’effetto di renderle visibili ad una moltitudine di utenti. È possibile ricondurlo alla fattispecie di Revenge Porn, neo introdotta all’art. 612 ter c.p. Questa fattispecie risulta essere applicabile qualsiasi sia l’età della vittima, non essendo necessario che il fatto sia commesso ai danni di un minore. La minore età della vittima determina invece conseguenze sanzionatorie ben più gravi qualora le immagini sessualmente connotate siano state realizzate senza il consenso del soggetto passivo, vuoi a sua insaputa, vuoi a dispetto del suo espresso dissenso. Infatti, qualora il soggetto ripreso abusivamente non abbia raggiunto il diciottesimo anno d’età troverà applicazione la fattispecie di pornografia minorile (art. 603 comma 1 c.p.). La successiva diffusione per via telematica (sms, chat) o pubblicazione informatica (social network, YouTube, Google video eccetera) dei contenuti medesimi, anche da parte di chi li ha ricevuti senza partecipare alla loro produzione, integrerà il reato di diffusione o distribuzione di materiale pedopornografico (art. 603 comma 3 c.p.). E persino chi si limita a procurarsi o a detenere materiale pedopornografico (prodotto senza il consenso del minore, nei termini di cui si è detto) finisce per commettere un illecito penale, punibile ai sensi dell’art. 600 quater c.p. Pertanto, anche i membri di una chat all’interno della quale si era deciso di condividere immagini pornografiche maliziosamente “carpite” auna vittima minorenne, magari legata sentimentalmente ad uno dei partecipanti, rischiano di incorrere in conseguenze penali, per il solo e semplice fatto di aver consapevolmente ricevuto e immagazzinato sul proprio smartphone il materiale in questione. Quest’ultimo esempio, sintetizza i rischi connessi all’uso dilagante dei circuiti informatici di cui si è detto all’inizio dell’indagine: rischi che incombono in modo particolare sugli di adolescenti i quali, per la loro ingenuità, per la loro avventatezza, o per la loro appartenenza alla “generazione perennemente connessa”, possono assumere assai facilmente sia le vesti di vittima sia quelle di autore dei gravi e molteplici reati riconducibili al fenomeno del cyberbullismo.