I beni culturali immateriali

Articolo a cura dell’Avv. Simone Scalas

Beni culturali

Indice

1. Beni culturali: materiali e immateriali
2. Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
3. Disciplina italiana

1. Beni culturali: materiali e immateriali

Per lunga tradizione, i beni culturali sono stati considerati esclusivamente degli oggetti materiali. I reperti di uno scavo archeologico, una chiesa barocca, tutti accomunati dal fatto di essere degli oggetti fisici. Un salto decisivo si verifica quando, nel grande ambito del patrimonio, vengono incluse anche quelle manifestazioni immateriali, intangibili, che formano gli elementi caratteristici di una cultura.
Fatta questa premessa è necessario dare, subito, una definizione di bene culturale immateriale. Questi ultimi sono beni, come il linguaggio, i canti, le tradizioni, i costumi, le feste e gli spettacoli tradizionali, le fiabe, i proverbi ed i cibi del territorio. Insomma, si tratta di espressioni di identità culturale collettiva che si dicono “volatili”, in quanto ontologicamente prive di substrato materiale o corporeo, nelle quali, il valore ideale estrinsecato è “trascendente”, cioè non si compenetra nell’elemento materiale, e perciò stesso è riproducibile ed indistruttibile1.
Ciò che connota i beni culturali immateriali è la trasmissione orale di generazione in generazione, nella dinamica sociale e culturale; esso è quindi costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro il senso di identità e di continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana2.

2. Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale

Nel quadro internazionale il faro che guida l’intera materia è, sicuramente, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003.
La sopraccitata Convenzione3 nasce per colmare quel vuoto del diritto internazionale, in ambito culturale, di cui si erano fatti portavoce diversi Paesi che avevano mostrato preoccupazione per la continua perdita e erosione del loro patrimonio intangibile.
Si trattava, quindi, di creare una chiara distanza rispetto alla tradizionale concezione secondo cui possono costituire oggetto di tutela solo quegli elementi del patrimonio qui tangi possunt.
Era proprio questo l’atteggiamento culturale per il quale erano rimasti esclusi i patrimoni dell’estremo oriente, o di quelli in via di sviluppo, poveri di monumenti ma ricchi di costumi popolari, folklore, danze, e tradizioni da proteggere4.
A questo scopo l’art. 2 par. 1 della Convenzione definisce il patrimonio culturale immateriale come “le pratiche, le rappresentazioni, le conoscenze, e il know how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Risulta evidente, quindi, l’importanza del ruolo delle comunità o dei gruppi, ruolo successivamente ancor meglio specificato all’art. 15 della Convenzione per quanto attiene al coinvolgimento diretto delle stesse da parte degli Stati. Infatti, un elemento può essere riconosciuto come parte del patrimonio culturale intangibile solo in quanto esso sia “condiviso”, “trasmesso” e “ricreato” dai gruppi o dalle comunità che lo riconoscono come tale, dando loro un “senso di identità”.
Al par. 2 inoltre specifica che tale patrimonio culturale immateriale si articola, tra l’altro, in tradizioni ed espressioni orali, nel linguaggio, nelle arti dello spettacolo, nelle consuetudini sociali, nei riti, nelle cognizioni e nelle prassi relative alla natura e all’universo, nell’artigianato tradizionale.
Si capisce da ciò che il patrimonio culturale immateriale rappresenta una categoria aperta, ed è solo a fini esemplificatori che la Convenzione individua cinque principali ambiti nei quali “tra l’altro” il patrimonio culturale immateriale si può manifestare.
La Convenzione ci permette, però, di individuare tre tratti distintivi dai quali non si può prescindere:
– quello della intangibilità, in quanto beni che prescindono dalla res;
– quello della riferibilità alla “comunità”, in quanto beni che devono essere “riconosciuti” dalle comunità di riferimento;
– quello della “partecipazione comunitaria”, in quanto beni che necessitano di essere “trasmessi” e “ricreati” dalle stesse comunità5.
La Convenzione demanda la valorizzazione della rappresentatività al livello nazionale, in sostanza, rimettendo agli Stati il compito di individuare, con la “partecipazione” di comunità, gruppi e Ong, gli elementi del patrimonio culturale immateriale presenti sul proprio territorio, nonché quello di adottare le misure legislative ed amministrative ritenute necessarie a garantirne la salvaguardia.
Ciò ha comportato che la ratifica della Convenzione, proprio per l’ampio margine di discrezionalità insito nei procedimenti di formazione delle candidature e nell’adozione di misure legislative e amministrative in materia, ha dato vita a sistemi nazionali eterogenei, e non sempre, come nel caso italiano, rispondenti alle finalità enunciate dalla Convenzione.

3. Disciplina italiana

La locuzione “bene culturale6 è relativamente recente nella legislazione italiana. Introdotta alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo sotto la spinta del diritto internazionale pattizio, entra in circolo con i lavori della Commissione Franceschini, istituita nel 1964, e diviene di ufficiale utilizzo con il d.l. 14 dicembre 1974, n. 657, conv. nella l. 29 gennaio 1975, n.5, istitutivo del ministero per i Beni culturali e ambientali7.
La nozione attuale di bene culturale risulta desumibile dall’art. 2, comma 2 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 “sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianza aventi valore di civiltà”8.
Ne discende che, a diritto vigente, la nozione di bene culturale presenti i tratti della tipicità, della pluralità e della materialità. È evidente, infatti, come l’art. 2 comma 2 del Codice dei beni culturali abbia riconosciuto un legame indissolubile tra beni culturali e res.
La scelta del legislatore italiano, che vede l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali quasi in contemporanea con la Convenzione Unesco, è stata, quindi, quella di restringere la disciplina ai solo beni culturali materiali.
Anche l’art. 7-bis non si può ritenere un superamento dell’art. 2, infatti, dispone che la categoria dei beni immateriali sussiste in quanto rappresentata da testimonianze materiali, andando in tal modo a modificare il fine stesse della Convenzione Unesco ratificata nel 2007 che, invece, mirava proprio a salvaguardare quei beni culturali non legati alle cose.
Naturalmente, non si deve negare il fatto che quando si esce fuori dall’ambito della “cultura materiale” sorgono le maggiori difficoltà: in questo caso, oggetto della tutela, non è più un bene che ha un supporto materiale. Tutto lo strumentario della proprietà e degli interventi pubblici diretti a limitarla, sono inservibili. Spesso, non c’è neppure un problema di tutela “passiva” o “negativa”: costumi e usi linguistici esistono, da un certo punto in poi, solo in quanto la comunità appresti servizi in cui possano sopravvivere; una loro “conservazione” non è neppure pensabile9.
Inoltre, non si può non considerare che esiste il timore che dilatando l’oggetto di disciplina si possa finire per abbracciare una concezione antropologica di bene culturale e cedere al c.d. Panculturalismo, giungendo così a tutelare l’intera vita sociale10.
Tutto ciò, però, non deve impedire al legislatore di prendere coraggio, affrontare le difficoltà, le paure, e giungere a identificare i beni culturali con la totalità delle espressioni, materiali o immateriali, individuali o collettivi, di una data organizzazione sociale, e farne oggetto di protezione11.


1 S. FANTINI, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 1, 2014, 4.
2 A. BARTOLINI, Beni culturali (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Milano, 6, 2007, 110 ss.
3 Ratificata in Italia con la l. 27 settembre 2007, n, 167
4 C.A. D’ALESSANDRO, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale in Francia. Spunti ricostruttivi, in Federalismi.it, 23, 2018, 3 ss.
5 V. MANZETTI, Il patrimonio culturale immateriale tra ordinamento internazionale, europeo e nazionale. Sunti dall’esperienza spagnola, in Nomos, 3, 2018, 4.
6 Inteso come proiezione oggettiva del regime pubblicistico di tutela del patrimonio artistico e storico. Cfr. T. ALIBRANDI, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, 5.
7 C. BARBATI, M. CAMMELLI e G. SCIUTTO, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, 2.
8 Siamo ancorati ancora alla concezione della l. 1089/39, incentrata sulle “cose d’arte”, legata al bene materiale che supporta fisicamente il valore culturale del bene, e mal si adatta alle influenti interpretazioni che ritengono le attività culturali parte della generale categoria dei beni culturali. Cfr. M. P. CHITI, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, in Aedon, 1, 1998, 1 ss.
9 S. CASSESE, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L’amministrazione dello Stato, Milano, 1976, 178.
10 A. GUALDINI, Primi passi verso una disciplina di settore dei beni immateriali. Il caso del disegno di legge sulle manifestazioni, rievocazioni e giochi storici, in Aedon, 3, 2017, 2 ss.
11 Se la tutela e valorizzazione dei beni culturali tradizionali si articola attraverso vincoli diretti ed indiretti, limiti alla potestà edificatoria e alla libera circolazione giuridica del bene, cioè attraverso un’azione tendente a preservare il bene nella sua identità e nella sua tendenziale immutabilità, al contrario la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si esprime attraverso un’opposta azione volta a “garantirne la vitalità”, il “ravvivamento” dei suoi “vari aspetti”, la sua “trasmissione”, cioè la sua circolazione e il suo continuo ricrearsi. Cfr. A. L. TARASCO, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amministrativo – Consiglio di stato, 7-8, 2008, 2267 ss.

beni culturali

Indice

1. Beni culturali: materiali e immateriali
2. Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
3. Disciplina italiana

1. Beni culturali: materiali e immateriali

Per lunga tradizione, i beni culturali sono stati considerati esclusivamente degli oggetti materiali. I reperti di uno scavo archeologico, una chiesa barocca, tutti accomunati dal fatto di essere degli oggetti fisici. Un salto decisivo si verifica quando, nel grande ambito del patrimonio, vengono incluse anche quelle manifestazioni immateriali, intangibili, che formano gli elementi caratteristici di una cultura.
Fatta questa premessa è necessario dare, subito, una definizione di bene culturale immateriale. Questi ultimi sono beni, come il linguaggio, i canti, le tradizioni, i costumi, le feste e gli spettacoli tradizionali, le fiabe, i proverbi ed i cibi del territorio. Insomma, si tratta di espressioni di identità culturale collettiva che si dicono “volatili”, in quanto ontologicamente prive di substrato materiale o corporeo, nelle quali, il valore ideale estrinsecato è “trascendente”, cioè non si compenetra nell’elemento materiale, e perciò stesso è riproducibile ed indistruttibile1.
Ciò che connota i beni culturali immateriali è la trasmissione orale di generazione in generazione, nella dinamica sociale e culturale; esso è quindi costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro il senso di identità e di continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana2.

2. Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale

Nel quadro internazionale il faro che guida l’intera materia è, sicuramente, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003.
La sopraccitata Convenzione3 nasce per colmare quel vuoto del diritto internazionale, in ambito culturale, di cui si erano fatti portavoce diversi Paesi che avevano mostrato preoccupazione per la continua perdita e erosione del loro patrimonio intangibile.
Si trattava, quindi, di creare una chiara distanza rispetto alla tradizionale concezione secondo cui possono costituire oggetto di tutela solo quegli elementi del patrimonio qui tangi possunt.
Era proprio questo l’atteggiamento culturale per il quale erano rimasti esclusi i patrimoni dell’estremo oriente, o di quelli in via di sviluppo, poveri di monumenti ma ricchi di costumi popolari, folklore, danze, e tradizioni da proteggere4.
A questo scopo l’art. 2 par. 1 della Convenzione definisce il patrimonio culturale immateriale come “le pratiche, le rappresentazioni, le conoscenze, e il know how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Risulta evidente, quindi, l’importanza del ruolo delle comunità o dei gruppi, ruolo successivamente ancor meglio specificato all’art. 15 della Convenzione per quanto attiene al coinvolgimento diretto delle stesse da parte degli Stati. Infatti, un elemento può essere riconosciuto come parte del patrimonio culturale intangibile solo in quanto esso sia “condiviso”, “trasmesso” e “ricreato” dai gruppi o dalle comunità che lo riconoscono come tale, dando loro un “senso di identità”.
Al par. 2 inoltre specifica che tale patrimonio culturale immateriale si articola, tra l’altro, in tradizioni ed espressioni orali, nel linguaggio, nelle arti dello spettacolo, nelle consuetudini sociali, nei riti, nelle cognizioni e nelle prassi relative alla natura e all’universo, nell’artigianato tradizionale.
Si capisce da ciò che il patrimonio culturale immateriale rappresenta una categoria aperta, ed è solo a fini esemplificatori che la Convenzione individua cinque principali ambiti nei quali “tra l’altro” il patrimonio culturale immateriale si può manifestare.
La Convenzione ci permette, però, di individuare tre tratti distintivi dai quali non si può prescindere:
– quello della intangibilità, in quanto beni che prescindono dalla res;
– quello della riferibilità alla “comunità”, in quanto beni che devono essere “riconosciuti” dalle comunità di riferimento;
– quello della “partecipazione comunitaria”, in quanto beni che necessitano di essere “trasmessi” e “ricreati” dalle stesse comunità5.
La Convenzione demanda la valorizzazione della rappresentatività al livello nazionale, in sostanza, rimettendo agli Stati il compito di individuare, con la “partecipazione” di comunità, gruppi e Ong, gli elementi del patrimonio culturale immateriale presenti sul proprio territorio, nonché quello di adottare le misure legislative ed amministrative ritenute necessarie a garantirne la salvaguardia.
Ciò ha comportato che la ratifica della Convenzione, proprio per l’ampio margine di discrezionalità insito nei procedimenti di formazione delle candidature e nell’adozione di misure legislative e amministrative in materia, ha dato vita a sistemi nazionali eterogenei, e non sempre, come nel caso italiano, rispondenti alle finalità enunciate dalla Convenzione.

3. Disciplina italiana

La locuzione “bene culturale6 è relativamente recente nella legislazione italiana. Introdotta alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo sotto la spinta del diritto internazionale pattizio, entra in circolo con i lavori della Commissione Franceschini, istituita nel 1964, e diviene di ufficiale utilizzo con il d.l. 14 dicembre 1974, n. 657, conv. nella l. 29 gennaio 1975, n.5, istitutivo del ministero per i Beni culturali e ambientali7.
La nozione attuale di bene culturale risulta desumibile dall’art. 2, comma 2 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 “sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianza aventi valore di civiltà”8.
Ne discende che, a diritto vigente, la nozione di bene culturale presenti i tratti della tipicità, della pluralità e della materialità. È evidente, infatti, come l’art. 2 comma 2 del Codice dei beni culturali abbia riconosciuto un legame indissolubile tra beni culturali e res.
La scelta del legislatore italiano, che vede l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali quasi in contemporanea con la Convenzione Unesco, è stata, quindi, quella di restringere la disciplina ai solo beni culturali materiali.
Anche l’art. 7-bis non si può ritenere un superamento dell’art. 2, infatti, dispone che la categoria dei beni immateriali sussiste in quanto rappresentata da testimonianze materiali, andando in tal modo a modificare il fine stesse della Convenzione Unesco ratificata nel 2007 che, invece, mirava proprio a salvaguardare quei beni culturali non legati alle cose.
Naturalmente, non si deve negare il fatto che quando si esce fuori dall’ambito della “cultura materiale” sorgono le maggiori difficoltà: in questo caso, oggetto della tutela, non è più un bene che ha un supporto materiale. Tutto lo strumentario della proprietà e degli interventi pubblici diretti a limitarla, sono inservibili. Spesso, non c’è neppure un problema di tutela “passiva” o “negativa”: costumi e usi linguistici esistono, da un certo punto in poi, solo in quanto la comunità appresti servizi in cui possano sopravvivere; una loro “conservazione” non è neppure pensabile9.
Inoltre, non si può non considerare che esiste il timore che dilatando l’oggetto di disciplina si possa finire per abbracciare una concezione antropologica di bene culturale e cedere al c.d. Panculturalismo, giungendo così a tutelare l’intera vita sociale10.
Tutto ciò, però, non deve impedire al legislatore di prendere coraggio, affrontare le difficoltà, le paure, e giungere a identificare i beni culturali con la totalità delle espressioni, materiali o immateriali, individuali o collettivi, di una data organizzazione sociale, e farne oggetto di protezione11.


1 S. FANTINI, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 1, 2014, 4.
2 A. BARTOLINI, Beni culturali (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Milano, 6, 2007, 110 ss.
3 Ratificata in Italia con la l. 27 settembre 2007, n, 167
4 C.A. D’ALESSANDRO, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale in Francia. Spunti ricostruttivi, in Federalismi.it, 23, 2018, 3 ss.
5 V. MANZETTI, Il patrimonio culturale immateriale tra ordinamento internazionale, europeo e nazionale. Sunti dall’esperienza spagnola, in Nomos, 3, 2018, 4.
6 Inteso come proiezione oggettiva del regime pubblicistico di tutela del patrimonio artistico e storico. Cfr. T. ALIBRANDI, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, 5.
7 C. BARBATI, M. CAMMELLI e G. SCIUTTO, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, 2.
8 Siamo ancorati ancora alla concezione della l. 1089/39, incentrata sulle “cose d’arte”, legata al bene materiale che supporta fisicamente il valore culturale del bene, e mal si adatta alle influenti interpretazioni che ritengono le attività culturali parte della generale categoria dei beni culturali. Cfr. M. P. CHITI, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, in Aedon, 1, 1998, 1 ss.
9 S. CASSESE, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L’amministrazione dello Stato, Milano, 1976, 178.
10 A. GUALDINI, Primi passi verso una disciplina di settore dei beni immateriali. Il caso del disegno di legge sulle manifestazioni, rievocazioni e giochi storici, in Aedon, 3, 2017, 2 ss.
11 Se la tutela e valorizzazione dei beni culturali tradizionali si articola attraverso vincoli diretti ed indiretti, limiti alla potestà edificatoria e alla libera circolazione giuridica del bene, cioè attraverso un’azione tendente a preservare il bene nella sua identità e nella sua tendenziale immutabilità, al contrario la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si esprime attraverso un’opposta azione volta a “garantirne la vitalità”, il “ravvivamento” dei suoi “vari aspetti”, la sua “trasmissione”, cioè la sua circolazione e il suo continuo ricrearsi. Cfr. A. L. TARASCO, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amministrativo – Consiglio di stato, 7-8, 2008, 2267 ss.