L’estorsione ed i suoi affini

Articolo a cura dell’Avv.ssa Claudia Bogatto

L’art. 629 c.p. punisce chiunque procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, costringendo taluno a fare od omettere qualcosa mediante violenza o minaccia.
La fattispecie estorsiva è, quindi, strutturata secondo una concatenazione di fatti ben delineata dalla relativa norma incriminatrice, legati tra loro da un rapporto di causa-effetto: la condotta violenta determina una coartazione della volontà della vittima, che viene indotta a disporre del suo patrimonio a favore del proprio aggressore o di terzi, beneficiari per tale via di un indebito profitto.

Estorsione e affini

La sequenza di eventi costitutivi del delitto de quo ne mette in luce l’evidente plurioffensività posto che, alla lesione patrimoniale, che ne determina l’inquadramento sistematico nel titolo XIII del Libro II del Codice penale, si accompagna, precedendola, l’offesa alla libertà di autodeterminarsi della persona offesa, costretta a disporre dei propri beni contro la sua volontà.
Tale connotazione induce a ricondurre l’estorsione nella categoria di origine dottrinale dei “reati in contratto” nei quali, diversamente dai “reati contratto”, non viene sanzionato l’accordo in sé concluso dalle parti, ma la sola condotta del contraente che, con modalità illecite, abbia determinato l’altro ad una pattuizione che altrimenti non avrebbe avallato. Particolarmente, nel contesto della predetta tipologia di fattispecie, quella prevista all’art. 629 c.p. può essere inquadrata tra i “delitti a cooperazione artificiosa della vittima” la quale, invece di essere relegata ad un ruolo meramente passivo, diviene essa stessa, suo malgrado, parte attiva del processo di integrazione del reato. 
Nell’ipotesi estorsiva l’involontaria partecipazione del soggetto passivo è determinata dalla condotta aggressiva perpetrata ai suoi danni mediante l’uso di violenza, sia essa fisica o morale, ovvero di minaccia, da intendersi pacificamente come prospettazione di un male ingiusto, in quanto contrario al diritto ed incidente su interessi tutelati dall’ordinamento.
La condotta descritta dall’art. 629 c.p. risulta, pertanto, strutturata sulla falsariga del delitto di violenza privata. Le due ipotesi criminose sono, infatti, accomunate dalla lesione alla libertà di autodeterminarsi della vittima, costretta a fare od omettere qualcosa, a fronte del comportamento aggressivo dell’agente. Tuttavia, l’estorsione si distingue dal delitto di cui all’art. 610 c.p. per la patrimonialità del proprio oggetto, intesa come sua valutabilità in termini economici, che trova riscontro nell’elemento specializzante dell’ingiusto profitto che, unitamente al danno altrui, costituisce evento finale della fattispecie.
Il rapporto tra le due norme è, quindi, declinabile in termini di genus a species e, più precisamente, di specialità per aggiunta. Invero, la violenza privata, analogamente alla minaccia ex art. 612 c.p., si configura come norma generale e sussidiaria rispetto a molteplici ipotesi criminose, che sulla stessa prevalgono in virtù della regola prevista dall’art. 15 c.p., per la presenza di ulteriori elementi costitutivi dell’illecito. Tuttavia, se la distinzione di tali fattispecie speciali rispetto al genus comune è per lo più agevole, più complessa può risultare la riconduzione della condotta concretamente posta in essere dal reo all’uno piuttosto che all’altro dei diversi delitti a condotta violenta.
Particolarmente, la giurisprudenza si è spesso confrontata con il problema dell’individuazione delle peculiarità dell’estorsione rispetto ad ipotesi ad essa similari sotto il profilo oggettivo, al fine di delinearne con maggior precisione i confini dell’area di punibilità. Nell’ambito di tale disamina sono venuti in rilievo come elementi differenziali, a seconda dei casi, la sussistenza o meno in capo all’autore del reato di una qualifica soggettiva, l’atteggiarsi dell’elemento soggettivo e le diverse modalità con le quali la violenza e la minaccia interferiscono nel processo di formazione della volontà della persona offesa.

Indice

1. Il ruolo del soggetto attivo
2. L’elemento soggettivo
3. L’atteggiarsi della violenza o minaccia

1. Il ruolo del soggetto attivo

Il delitto che presenta maggiori analogie con l’ipotesi di cui all’art. 629 c.p. è, indubbiamente, quello previsto dall’art. 317 c.p. I due reati sono, infatti, accomunati sotto il profilo oggettivo, posto che anche nella concussione l’autore esercita una costrizione della volontà della vittima, per ottenerne un’indebita utilità.
L’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede, invece, nel rilievo che mentre l’estorsione è un reato comune, la concussione è delitto proprio dei pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio; circostanza che, del resto, ne determina l’inquadramento sistematico nel titolo dedicato alle fattispecie offensive della pubblica amministrazione.

2. L’elemento soggettivo

Un’ipotesi frequente nella prassi è quella in cui alla base di una richiesta di denaro formulata con modalità aggressive vi sia un rapporto di credito, che vede la vittima nella posizione debitoria. In tale evenienza si pone il problema della corretta individuazione del titolo di responsabilità dell’autore della condotta violenta o minacciosa, potendo venire in rilievo, alternativamente, il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona ovvero la più grave fattispecie di estorsione.
In merito alla delimitazione dei confini tra le due ipotesi criminose citate, nella giurisprudenza di legittimità si sono formati due orientamenti interpretativi contrapposti.
L’indirizzo maggioritario individua quale elemento differenziale tra i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. il diverso atteggiamento psicologico dell’agente. Secondo tale tesi, infatti, solo in ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni il reo persegue un profitto agendo nella ragionevole convinzione, seppur infondata, di attuare un proprio diritto giudizialmente tutelabile, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di non vantare alcuna posizione di credito legittima, ed anzi, proprio tale coscienza fa sì che lo stesso si determini ad esercitare una coartazione della volontà della vittima per ottenere quanto indebitamente preteso[1]. Nell’ambito di tale orientamento è stato, altresì, evidenziato che anche la minaccia di esercitare un diritto o una facoltà legittima può integrare l’elemento costitutivo del delitto di estorsione ove, invece di risultare strumentale all’ottenimento di quanto effettivamente spettante all’agente, sia finalizzata al conseguimento di un risultato iniquo, perché ampiamente esorbitante ovvero non dovuto[2].
Sul fronte opposto si colloca un filone giurisprudenziale che, invece, ritiene che le due fattispecie in discorso divergano sotto il profilo oggettivo, estrinsecandosi la relativa condotta con diverse modalità. In tal senso, si è sostenuto che si configura il delitto di cui all’art. 393 c.p. quando il comportamento violento o minaccioso è strettamente connesso alla finalità di esercitare un preteso diritto, ponendosi come elemento accidentale rispetto alla pretesa principale dell’agente; si rientra, invece, nell’ambito della più grave ipotesi estorsiva quando la condotta intimidatoria assume un’intensità tale da risultare sproporzionata rispetto ad ogni ragionevole intento di far valere una pretesa legittima, rivelando l’ingiustizia del profitto perseguito dal reo[3].
Il rilevato contrasto giurisprudenziale è stato recentemente risolto dalle Sezioni Unite, che hanno condiviso l’opinione espressa dalla giurisprudenza maggioritaria, affermando che “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento soggettivo: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia”[4].

3. L’atteggiarsi della violenza o minaccia

Come anticipato, l’estorsione è un reato plurioffensivo, essendo la lesione contro il patrimonio l’effetto della previa offesa alla libertà di autodeterminarsi della vittima.
Le medesime coordinate sono, per vero, riscontrabili anche nel delitto di truffa che, analogamente alla fattispecie ex art. 629 c.p., configura un tipico esempio di “reato in contratto” ma, diversamente da essa, non è un’ipotesi criminosa a condotta violenta, bensì fraudolenta. Ciò nonostante, la linea di demarcazione tra i due reati si assottiglia ove venga in considerazione l’ipotesi di truffa aggravata dall’aver il reo ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario previsto all’art. 640, co. 2 n.2 c.p.
Il criterio maggiormente utilizzato in giurisprudenza per distinguere i due reati guarda al diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva ed alla sua incidenza nella sfera soggettiva del soggetto passivo. Si ritiene, infatti, che si configuri il delitto di estorsione quando il pericolo minacciato dal reo, secondo un apprezzamento condotto ex ante, appaia come certo e realizzabile, così da esplicare efficacia coercitiva sulla vittima, mentre si verta nell’ipotesi di truffa aggravata quando la prospettazione del pericolo, irrealizzabile per sua intrinseca inconsistenza, non sia in grado di coartare la volontà del soggetto passivo che, tuttavia, si determina alla prestazione, perché indotto in errore sulla possibilità di sua verificazione[5].
Se l’effetto coercitivo, piuttosto che induttivo, contraddistingue la minaccia estorsiva da quella truffaldina, è, invece, l’intensità della costrizione operata sulla volontà della vittima a segnare il discrimen tra il delitto di cui all’art. 629 c.p. e la rapina: mentre la violenza o la minaccia estorsiva si configurano come relative, residuando un margine di scelta per il soggetto passivo tra il subire il pregiudizio prospettato e liberarsi autonomamente dei propri beni, quelle caratterizzanti la rapina sono di intensità tale da produrre un annullamento pressoché assoluto della volontà della vittima, costringendola ad accettare la sottrazione della res[6].


[1] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 56400/2018
[2] In tal senso, Cass. Pen., Sez. II, sent. 5093/2018
[3] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 1921/2015
[4] Cit. S.S.U.U., sent. 29541/2020
[5] Di recente Cass. Pen., Sez. II, sent. 18542/2020
[6] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 44954/2013

estorsione e affini

La sequenza di eventi costitutivi del delitto de quo ne mette in luce l’evidente plurioffensività posto che, alla lesione patrimoniale, che ne determina l’inquadramento sistematico nel titolo XIII del Libro II del Codice penale, si accompagna, precedendola, l’offesa alla libertà di autodeterminarsi della persona offesa, costretta a disporre dei propri beni contro la sua volontà.
Tale connotazione induce a ricondurre l’estorsione nella categoria di origine dottrinale dei “reati in contratto” nei quali, diversamente dai “reati contratto”, non viene sanzionato l’accordo in sé concluso dalle parti, ma la sola condotta del contraente che, con modalità illecite, abbia determinato l’altro ad una pattuizione che altrimenti non avrebbe avallato. Particolarmente, nel contesto della predetta tipologia di fattispecie, quella prevista all’art. 629 c.p. può essere inquadrata tra i “delitti a cooperazione artificiosa della vittima” la quale, invece di essere relegata ad un ruolo meramente passivo, diviene essa stessa, suo malgrado, parte attiva del processo di integrazione del reato. 
Nell’ipotesi estorsiva l’involontaria partecipazione del soggetto passivo è determinata dalla condotta aggressiva perpetrata ai suoi danni mediante l’uso di violenza, sia essa fisica o morale, ovvero di minaccia, da intendersi pacificamente come prospettazione di un male ingiusto, in quanto contrario al diritto ed incidente su interessi tutelati dall’ordinamento.
La condotta descritta dall’art. 629 c.p. risulta, pertanto, strutturata sulla falsariga del delitto di violenza privata. Le due ipotesi criminose sono, infatti, accomunate dalla lesione alla libertà di autodeterminarsi della vittima, costretta a fare od omettere qualcosa, a fronte del comportamento aggressivo dell’agente. Tuttavia, l’estorsione si distingue dal delitto di cui all’art. 610 c.p. per la patrimonialità del proprio oggetto, intesa come sua valutabilità in termini economici, che trova riscontro nell’elemento specializzante dell’ingiusto profitto che, unitamente al danno altrui, costituisce evento finale della fattispecie.
Il rapporto tra le due norme è, quindi, declinabile in termini di genus a species e, più precisamente, di specialità per aggiunta. Invero, la violenza privata, analogamente alla minaccia ex art. 612 c.p., si configura come norma generale e sussidiaria rispetto a molteplici ipotesi criminose, che sulla stessa prevalgono in virtù della regola prevista dall’art. 15 c.p., per la presenza di ulteriori elementi costitutivi dell’illecito. Tuttavia, se la distinzione di tali fattispecie speciali rispetto al genus comune è per lo più agevole, più complessa può risultare la riconduzione della condotta concretamente posta in essere dal reo all’uno piuttosto che all’altro dei diversi delitti a condotta violenta.
Particolarmente, la giurisprudenza si è spesso confrontata con il problema dell’individuazione delle peculiarità dell’estorsione rispetto ad ipotesi ad essa similari sotto il profilo oggettivo, al fine di delinearne con maggior precisione i confini dell’area di punibilità. Nell’ambito di tale disamina sono venuti in rilievo come elementi differenziali, a seconda dei casi, la sussistenza o meno in capo all’autore del reato di una qualifica soggettiva, l’atteggiarsi dell’elemento soggettivo e le diverse modalità con le quali la violenza e la minaccia interferiscono nel processo di formazione della volontà della persona offesa.

Indice

1. Il ruolo del soggetto attivo
2. L’elemento soggettivo
3. L’atteggiarsi della violenza o minaccia

1. Il ruolo del soggetto attivo

Il delitto che presenta maggiori analogie con l’ipotesi di cui all’art. 629 c.p. è, indubbiamente, quello previsto dall’art. 317 c.p. I due reati sono, infatti, accomunati sotto il profilo oggettivo, posto che anche nella concussione l’autore esercita una costrizione della volontà della vittima, per ottenerne un’indebita utilità.
L’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede, invece, nel rilievo che mentre l’estorsione è un reato comune, la concussione è delitto proprio dei pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio; circostanza che, del resto, ne determina l’inquadramento sistematico nel titolo dedicato alle fattispecie offensive della pubblica amministrazione.

2. L’elemento soggettivo

Un’ipotesi frequente nella prassi è quella in cui alla base di una richiesta di denaro formulata con modalità aggressive vi sia un rapporto di credito, che vede la vittima nella posizione debitoria. In tale evenienza si pone il problema della corretta individuazione del titolo di responsabilità dell’autore della condotta violenta o minacciosa, potendo venire in rilievo, alternativamente, il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona ovvero la più grave fattispecie di estorsione.
In merito alla delimitazione dei confini tra le due ipotesi criminose citate, nella giurisprudenza di legittimità si sono formati due orientamenti interpretativi contrapposti.
L’indirizzo maggioritario individua quale elemento differenziale tra i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. il diverso atteggiamento psicologico dell’agente. Secondo tale tesi, infatti, solo in ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni il reo persegue un profitto agendo nella ragionevole convinzione, seppur infondata, di attuare un proprio diritto giudizialmente tutelabile, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di non vantare alcuna posizione di credito legittima, ed anzi, proprio tale coscienza fa sì che lo stesso si determini ad esercitare una coartazione della volontà della vittima per ottenere quanto indebitamente preteso[1]. Nell’ambito di tale orientamento è stato, altresì, evidenziato che anche la minaccia di esercitare un diritto o una facoltà legittima può integrare l’elemento costitutivo del delitto di estorsione ove, invece di risultare strumentale all’ottenimento di quanto effettivamente spettante all’agente, sia finalizzata al conseguimento di un risultato iniquo, perché ampiamente esorbitante ovvero non dovuto[2].
Sul fronte opposto si colloca un filone giurisprudenziale che, invece, ritiene che le due fattispecie in discorso divergano sotto il profilo oggettivo, estrinsecandosi la relativa condotta con diverse modalità. In tal senso, si è sostenuto che si configura il delitto di cui all’art. 393 c.p. quando il comportamento violento o minaccioso è strettamente connesso alla finalità di esercitare un preteso diritto, ponendosi come elemento accidentale rispetto alla pretesa principale dell’agente; si rientra, invece, nell’ambito della più grave ipotesi estorsiva quando la condotta intimidatoria assume un’intensità tale da risultare sproporzionata rispetto ad ogni ragionevole intento di far valere una pretesa legittima, rivelando l’ingiustizia del profitto perseguito dal reo[3].
Il rilevato contrasto giurisprudenziale è stato recentemente risolto dalle Sezioni Unite, che hanno condiviso l’opinione espressa dalla giurisprudenza maggioritaria, affermando che “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento soggettivo: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia”[4].

3. L’atteggiarsi della violenza o minaccia

Come anticipato, l’estorsione è un reato plurioffensivo, essendo la lesione contro il patrimonio l’effetto della previa offesa alla libertà di autodeterminarsi della vittima.
Le medesime coordinate sono, per vero, riscontrabili anche nel delitto di truffa che, analogamente alla fattispecie ex art. 629 c.p., configura un tipico esempio di “reato in contratto” ma, diversamente da essa, non è un’ipotesi criminosa a condotta violenta, bensì fraudolenta. Ciò nonostante, la linea di demarcazione tra i due reati si assottiglia ove venga in considerazione l’ipotesi di truffa aggravata dall’aver il reo ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario previsto all’art. 640, co. 2 n.2 c.p.
Il criterio maggiormente utilizzato in giurisprudenza per distinguere i due reati guarda al diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva ed alla sua incidenza nella sfera soggettiva del soggetto passivo. Si ritiene, infatti, che si configuri il delitto di estorsione quando il pericolo minacciato dal reo, secondo un apprezzamento condotto ex ante, appaia come certo e realizzabile, così da esplicare efficacia coercitiva sulla vittima, mentre si verta nell’ipotesi di truffa aggravata quando la prospettazione del pericolo, irrealizzabile per sua intrinseca inconsistenza, non sia in grado di coartare la volontà del soggetto passivo che, tuttavia, si determina alla prestazione, perché indotto in errore sulla possibilità di sua verificazione[5].
Se l’effetto coercitivo, piuttosto che induttivo, contraddistingue la minaccia estorsiva da quella truffaldina, è, invece, l’intensità della costrizione operata sulla volontà della vittima a segnare il discrimen tra il delitto di cui all’art. 629 c.p. e la rapina: mentre la violenza o la minaccia estorsiva si configurano come relative, residuando un margine di scelta per il soggetto passivo tra il subire il pregiudizio prospettato e liberarsi autonomamente dei propri beni, quelle caratterizzanti la rapina sono di intensità tale da produrre un annullamento pressoché assoluto della volontà della vittima, costringendola ad accettare la sottrazione della res[6].


[1] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 56400/2018
[2] In tal senso, Cass. Pen., Sez. II, sent. 5093/2018
[3] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 1921/2015
[4] Cit. S.S.U.U., sent. 29541/2020
[5] Di recente Cass. Pen., Sez. II, sent. 18542/2020
[6] Ex multis Cass. Pen., Sez. II, sent. 44954/2013