Diritto all’istruzione e abuso dei mezzi di correzione: interventi giurisprudenziali

Articolo a cura dell’ Avv.ssa Jlenia Cariglia

Il diritto all’istruzione rappresenta uno dei diritti fondamentali della persona, garantito dalla Costituzione italiana, da sempre promotrice della piena uguaglianza degli individui.

Abuso mezzi di correzione

L’art. 34 della Costituzione recita “la scuola è aperta a tutti”, riconoscendo così “a tutti” il diritto di accedere all’istruzione, quale potente strumento per l’affermazione individuale.
La tematica dell’istruzione, peraltro, trova tutela anche in fonti differenti da quelle puramente interne.
Ed invero, la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” del 2007, la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia” del 1989, la “Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” del 1950 e la “Dichiarazione Universale dei diritti umani” del 1948, dedicano attenzione all’istruzione, identificandola quale caposaldo dell’individuo e colonna portante della società.
Benché la scuola sia concepita come comunità educativa e luogo di crescita, a volte può trasformarsi in un ambiente connotato da prevaricazioni e condotte violente.
In merito al concreto svolgimento dell’opera educativa, da parte degli operatori a ciò preposti, rileva, penalmente, l’articolo 571 c.p., il quale punisce con la pena della reclusione fino a sei mesi, chiunque abusi dei mezzi di correzione o di disciplina, in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o un’arte.
La disposizione di cui in parola, ha il fine di tutelare la dignità della persona, a fortiori del minore, quale soggetto titolare di diritti, tra cui rientra il diritto del medesimo ad uno sviluppo armonico della propria personalità.
Il reato previsto dall’articolo 571 c.p. risulta integrato qualora vengano poste in essere una o più condotte, lesive dell’incolumità psicofisica del soggetto passivo del reato, per finalità educative o disciplinari.
Ai fini della determinazione dell’illecito in esame, assume rilevanza, sia l’elemento oggettivo della fattispecie concreta, cioè la correlazione tra i metodi utilizzati e la finalità educativa o disciplinare, nonché il motivo determinante dell’agente e cioè il fine educativo o disciplinare (Cass. Pen., n. 3536 del 11/04/1996).
Il reato non richiede – quale elemento psicologico – il dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico e cioè la consapevole volontà di realizzare la condotta d’abuso.
Inoltre, tale fattispecie criminosa può esaurirsi in un’unica condotta antigiuridica, oppure in più comportamenti lesivi dell’incolumità psicofisica del soggetto passivo.
Dunque, non si tratta di reato avente natura necessariamente abituale.
Diversamente, la fattispecie delittuosa prevista dal successivo articolo 572 c.p. punisce, con la reclusione da due a sei anni, chi maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Il reato di cui all’articolo 572 c.p., rubricato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, si estrinseca nella coscienza e nella volontà, da parte dell’agente, di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche o morali, in maniera continuativa ed abituale, senza che sia necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso.
Il fatto illecito ex art. 572 c.p., a differenza di quanto previsto dall’art. 571 c.p., è un reato abituale che si concretizza in più comportamenti, commissivi e/o omissivi, i quali possono essere realizzati anche in sequenze non successive, risultando tuttavia collegati tra loro da un nesso di abitualità.
I predetti comportamenti acquistano rilevanza penale per effetto della loro ritualità nel tempo, a nulla rilevando eventuali periodi di normalità o eventuali accordi col soggetto passivo.
Le fattispecie di reato testé analizzate sono state più volte oggetto di esame congiunto da parte della Corte di Cassazione, allo scopo di fornire una inequivoca definizione della locuzione “mezzi di correzione”, rilevante ai fini di una corretta applicazione dell’art. 571 c.p.
La Suprema Corte, con svariate pronunce, si è spinta oltre, giungendo ad identificare il “discrimen” esistente fra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia.
Trattasi di massime giurisprudenziali che si sono evolute nel tempo e dunque col mutare delle epoche storiche di riferimento.
Invero, a seguito dell’emanazione del codice Rocco, la linea di demarcazione tra i due reati veniva individuata nel c.d. “animus corrigendi”, ossia nella volontà, da parte dell’agente, di correggere la persona sottoposta alla propria autorità.
Pertanto, la sola presenza di un intento correttivo, rendeva applicabile l’art. 571 c.p. al caso concreto.
Naturalmente, l’interpretazione era frutto della concezione dominante, che riteneva pienamente legittimo l’utilizzo della vis modica, come mezzo di correzione.
In siffatto contesto, quindi, veniva tollerato l’uso della violenza come mezzo correttivo, mentre integravano il reato di maltrattamenti in famiglia tutti quei comportamenti destinati ad infliggere alla vittima sofferenze psicologiche e fisiche di carattere abituale.
In tempi più recenti, sulla scorta del mutamento del contesto storico-sociale di riferimento, vi è stata una intensa evoluzione giurisprudenziale da parte della Corte di Cassazione, la quale ha bandito, in maniera definitiva, l’utilizzo della violenza come mezzo di correzione e, quindi, come strumento educativo.
In particolare, con la sentenza del 18 marzo 1996, n. 4904, la Corte di Cassazione inaugura un indirizzo giurisprudenziale teso a restringere l’ambito di applicazione dell’art. 571 c.p. e a dar vita ad una nuova lettura dei rapporti fra tale fattispecie penale e quella prevista dall’art. 572 c.p.
Alla luce della sentenza succitata, il termine “correzione” viene usato quale sinonimo  di educazione, con la conseguenza che l’abuso, ex art. 571 c.p., può configurarsi solo laddove vi sia eccesso di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi od educativi, di per sé leciti. Pertanto, la condotta di abuso, ai sensi dell’articolo 571 c.p., presuppone la liceità originaria del mezzo e l’uso improprio del medesimo.
Sulla scorta di quanto sopra, la Corte di Cassazione giunge, altresì, alla determinazione del discrimen tra il reato di cui all’art. 571 c.p. e la diversa fattispecie prevista dall’art. 572 c.p., chiarendo che, in caso di utilizzo – sebbene a scopo educativo – di mezzi di per sé illeciti o in presenza di “continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di maltrattamenti in famiglia” (Cass. Pen., n. 34460 del 12/09/2007 e, più di recente, Cass. Pen., n. 11956 del 15/02/2017).
Da ciò ne è scaturito un restringimento dell’ambito di applicazione dell’art. 571 c.p. ed una diversa lettura dei rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti.
Invero, con una più recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha statuito che “L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da “animus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti” (Cass. Pen., n. 44634 del 31/10/2019).
In sostanza, nessuna forma di violenza può farsi rientrare tra i mezzi correttivi legittimi.
Tale orientamento trova, peraltro, conferma nella sentenza n. 18706 del 2020 della Suprema Corte, secondo cui l’elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può “individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall’agente, atteso che l’uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito” (Sul punto, si veda anche Cass. Pen., n. 11777 del 2020, Cass. Pen., n. 53425 del 22/10/2014 e Cass. Pen., n. 36564 del 10/05/2012).
Alla luce di quanto sopra, l’uso dei mezzi di correzione deve ritenersi appropriato solo nei casi di necessità dell’intervento correttivo, in conseguenza dell’inosservanza, da parte dell’alunno, dei doveri di comportamento su di lui gravanti e, comunque, a condizione che vi sia un rapporto di proporzionalità tra la violazione commessa e l’intervento correttivo adottato.
Diversamente, l’utilizzo di un mezzo di correzione o di disciplina violento, sia essa una violenza fisica oppure psicologica, non è mai consentito, neanche se il fine sia quello educativo.
La ratio di tale orientamento risiede nel primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come avveniva in passato, semplice oggetto di protezione, se non addirittura di disposizione, da parte degli adulti. Non può dunque perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo della personalità, mediante l’utilizzo di un mezzo violento che tale fine contraddice.

abuso mezzi di correzione

L’art. 34 della Costituzione recita “la scuola è aperta a tutti”, riconoscendo così “a tutti” il diritto di accedere all’istruzione, quale potente strumento per l’affermazione individuale.
La tematica dell’istruzione, peraltro, trova tutela anche in fonti differenti da quelle puramente interne.
Ed invero, la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” del 2007, la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia” del 1989, la “Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” del 1950 e la “Dichiarazione Universale dei diritti umani” del 1948, dedicano attenzione all’istruzione, identificandola quale caposaldo dell’individuo e colonna portante della società.
Benché la scuola sia concepita come comunità educativa e luogo di crescita, a volte può trasformarsi in un ambiente connotato da prevaricazioni e condotte violente.
In merito al concreto svolgimento dell’opera educativa, da parte degli operatori a ciò preposti, rileva, penalmente, l’articolo 571 c.p., il quale punisce con la pena della reclusione fino a sei mesi, chiunque abusi dei mezzi di correzione o di disciplina, in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o un’arte.
La disposizione di cui in parola, ha il fine di tutelare la dignità della persona, a fortiori del minore, quale soggetto titolare di diritti, tra cui rientra il diritto del medesimo ad uno sviluppo armonico della propria personalità.
Il reato previsto dall’articolo 571 c.p. risulta integrato qualora vengano poste in essere una o più condotte, lesive dell’incolumità psicofisica del soggetto passivo del reato, per finalità educative o disciplinari.
Ai fini della determinazione dell’illecito in esame, assume rilevanza, sia l’elemento oggettivo della fattispecie concreta, cioè la correlazione tra i metodi utilizzati e la finalità educativa o disciplinare, nonché il motivo determinante dell’agente e cioè il fine educativo o disciplinare (Cass. Pen., n. 3536 del 11/04/1996).
Il reato non richiede – quale elemento psicologico – il dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico e cioè la consapevole volontà di realizzare la condotta d’abuso.
Inoltre, tale fattispecie criminosa può esaurirsi in un’unica condotta antigiuridica, oppure in più comportamenti lesivi dell’incolumità psicofisica del soggetto passivo.
Dunque, non si tratta di reato avente natura necessariamente abituale.
Diversamente, la fattispecie delittuosa prevista dal successivo articolo 572 c.p. punisce, con la reclusione da due a sei anni, chi maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Il reato di cui all’articolo 572 c.p., rubricato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, si estrinseca nella coscienza e nella volontà, da parte dell’agente, di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche o morali, in maniera continuativa ed abituale, senza che sia necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso.
Il fatto illecito ex art. 572 c.p., a differenza di quanto previsto dall’art. 571 c.p., è un reato abituale che si concretizza in più comportamenti, commissivi e/o omissivi, i quali possono essere realizzati anche in sequenze non successive, risultando tuttavia collegati tra loro da un nesso di abitualità.
I predetti comportamenti acquistano rilevanza penale per effetto della loro ritualità nel tempo, a nulla rilevando eventuali periodi di normalità o eventuali accordi col soggetto passivo.
Le fattispecie di reato testé analizzate sono state più volte oggetto di esame congiunto da parte della Corte di Cassazione, allo scopo di fornire una inequivoca definizione della locuzione “mezzi di correzione”, rilevante ai fini di una corretta applicazione dell’art. 571 c.p.
La Suprema Corte, con svariate pronunce, si è spinta oltre, giungendo ad identificare il “discrimen” esistente fra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia.
Trattasi di massime giurisprudenziali che si sono evolute nel tempo e dunque col mutare delle epoche storiche di riferimento.
Invero, a seguito dell’emanazione del codice Rocco, la linea di demarcazione tra i due reati veniva individuata nel c.d. “animus corrigendi”, ossia nella volontà, da parte dell’agente, di correggere la persona sottoposta alla propria autorità.
Pertanto, la sola presenza di un intento correttivo, rendeva applicabile l’art. 571 c.p. al caso concreto.
Naturalmente, l’interpretazione era frutto della concezione dominante, che riteneva pienamente legittimo l’utilizzo della vis modica, come mezzo di correzione.
In siffatto contesto, quindi, veniva tollerato l’uso della violenza come mezzo correttivo, mentre integravano il reato di maltrattamenti in famiglia tutti quei comportamenti destinati ad infliggere alla vittima sofferenze psicologiche e fisiche di carattere abituale.
In tempi più recenti, sulla scorta del mutamento del contesto storico-sociale di riferimento, vi è stata una intensa evoluzione giurisprudenziale da parte della Corte di Cassazione, la quale ha bandito, in maniera definitiva, l’utilizzo della violenza come mezzo di correzione e, quindi, come strumento educativo.
In particolare, con la sentenza del 18 marzo 1996, n. 4904, la Corte di Cassazione inaugura un indirizzo giurisprudenziale teso a restringere l’ambito di applicazione dell’art. 571 c.p. e a dar vita ad una nuova lettura dei rapporti fra tale fattispecie penale e quella prevista dall’art. 572 c.p.
Alla luce della sentenza succitata, il termine “correzione” viene usato quale sinonimo  di educazione, con la conseguenza che l’abuso, ex art. 571 c.p., può configurarsi solo laddove vi sia eccesso di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi od educativi, di per sé leciti. Pertanto, la condotta di abuso, ai sensi dell’articolo 571 c.p., presuppone la liceità originaria del mezzo e l’uso improprio del medesimo.
Sulla scorta di quanto sopra, la Corte di Cassazione giunge, altresì, alla determinazione del discrimen tra il reato di cui all’art. 571 c.p. e la diversa fattispecie prevista dall’art. 572 c.p., chiarendo che, in caso di utilizzo – sebbene a scopo educativo – di mezzi di per sé illeciti o in presenza di “continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di maltrattamenti in famiglia” (Cass. Pen., n. 34460 del 12/09/2007 e, più di recente, Cass. Pen., n. 11956 del 15/02/2017).
Da ciò ne è scaturito un restringimento dell’ambito di applicazione dell’art. 571 c.p. ed una diversa lettura dei rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti.
Invero, con una più recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha statuito che “L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da “animus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti” (Cass. Pen., n. 44634 del 31/10/2019).
In sostanza, nessuna forma di violenza può farsi rientrare tra i mezzi correttivi legittimi.
Tale orientamento trova, peraltro, conferma nella sentenza n. 18706 del 2020 della Suprema Corte, secondo cui l’elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può “individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall’agente, atteso che l’uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito” (Sul punto, si veda anche Cass. Pen., n. 11777 del 2020, Cass. Pen., n. 53425 del 22/10/2014 e Cass. Pen., n. 36564 del 10/05/2012).
Alla luce di quanto sopra, l’uso dei mezzi di correzione deve ritenersi appropriato solo nei casi di necessità dell’intervento correttivo, in conseguenza dell’inosservanza, da parte dell’alunno, dei doveri di comportamento su di lui gravanti e, comunque, a condizione che vi sia un rapporto di proporzionalità tra la violazione commessa e l’intervento correttivo adottato.
Diversamente, l’utilizzo di un mezzo di correzione o di disciplina violento, sia essa una violenza fisica oppure psicologica, non è mai consentito, neanche se il fine sia quello educativo.
La ratio di tale orientamento risiede nel primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come avveniva in passato, semplice oggetto di protezione, se non addirittura di disposizione, da parte degli adulti. Non può dunque perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo della personalità, mediante l’utilizzo di un mezzo violento che tale fine contraddice.