Cambiare sesso in Italia: la procedura legale

Ognuno ha il diritto di veder riconosciuta formalmente e giuridicamente la propria identità di genere, lontano dalle discriminazioni che, purtroppo, permangono nella nostra società.
Il riconoscimento giuridico del genere di elezione comporta il diritto di ottenere documenti corrispondenti alla propria identità ed espressione di genere.

Cambiare sesso

Identità di genere

L’identità di genere si riferisce al sesso, femminile o maschile, che una persona sente proprio. L’acquisizione dell’identità di genere avviene generalmente intorno al quarto anno di vita e, se non coincide con il sesso biologico, si verifica una discrepanza.
Si parla allora di persone transessuali e/o transgender.
La persona transessuale avverte l’esigenza di modificare il proprio aspetto e/o la propria espressione di genere accordandoli alla propria interiorità, seguendo un percorso di transizione.
Transgender è invece un termine utilizzato con riferimento a coloro che si percepiscono come appartenenti a entrambi i generi o a un cosiddetto “terzo genere” neutro.
È comprensibile come dalla non coincidenza tra vissuto interiore e aspetto esteriore scaturiscano un profondo senso di disagio e insicurezza, che possono sfociare nella decisione di intraprendere un percorso di transizione.
Questo disagio viene definito in termini medici disforia di genere (DSMV).
Il riconoscimento della disforia quale condizione di disagio e non quale malattia mentale è avvenuto nel 2018 quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha rimosso la disforia di genere dall’elenco delle patologie mentali.

La normativa italiana

In Italia la possibilità di cambiare sesso con una conseguente riattribuzione chirurgica e anagrafica è sancita e regolata dalla legge n. 164 del 1982 e dal decreto legislativo n. 150 del 2011.
La rettificazione avviene con sentenza del tribunale che attribuisce ad una persona un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali.
Il procedimento originario stabilito con la legge del 1982 prevedeva che la domanda per ottenere la rettificazione del sesso fosse introdotta nella forma del ricorso al Tribunale del luogo di residenza che autorizzava con sentenza l’intervento chirurgico per la rettificazione dei caratteri sessuali, ritenuto – all’epoca – condizione imprescindibile per ottenere l’autorizzazione giudiziale alla rettificazione anagrafica.
In una seconda fase veniva quindi accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, e a seguito di verifica positiva, emanato il provvedimento di rettifica della attribuzione di sesso.
Nei casi in cui la riassegnazione chirurgica con modificazioni dei caratteri sessuali fosse già avvenuta, all’estero o comunque senza la formale autorizzazione giudiziaria, si prevedeva che il Tribunale disponesse comunque la rettificazione con sentenza attributiva di un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita.

  • Il decreto legislativo n. 15 del 2011 ha modificato la legge del 1982, rendendo cumulabili le domande: di autorizzazione al trattamento chirurgico demolitivo e
  • di rettificazione degli atti di stato civile in cui recepire l’intervenuta riassegnazione del genere.

Un aspetto da tenere in considerazione è l’approccio medico alla disforia di genere, riconosciuta quale condizione psicologica e non come disturbo mentale solo nel 2018.
Pertanto, nella legge del 1982 l’attenzione de legislatore e dei giudici era concentrata più sull’aspetto fisico del soggetto richiedente, che sulla condizione psicologica ed interiore.
La riforma del 2011 ha previsto che il Tribunale autorizzi l’intervento chirurgico di mutamento di sesso solo ove necessario, ammettendo quindi che l’accoglimento della domanda di rettificazione del genere prescinda dalla trasformazione fisica dell’individuo, e si fondi piuttosto sull’accertamento della condizione personale del richiedente, sulla serietà ed univocità del percorso di transizione e sulla compiutezza dell’esito.
Questo significa che, se la persona ha raggiunto una condizione di benessere psico-fisico e dimostra la propria immedesimazione nel genere percepito e vissuto come irreversibile in sede di colloquio con il giudice, non è obbligatorio che effettui l’intervento chirurgico e può ottenere il cambio del nome e del sesso anagrafico anche se decide di non operarsi.
La Costituzionale nella sentenza n. 221 del 2015 ha affermato che:
Il Giudice può rilevare il completamento della transizione laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari”.

La procedura per la rettificazione del sesso

La domanda giudiziale va proposta al Tribunale del luogo di residenza del richiedente e notificata ad eventuali coniuge e figli.
Nel giudizio è possibile chiedere l’autorizzazione per l’intervento chirurgico di riattribuzione di sesso e la rettificazione del nome e del sesso, oppure solo quest’ultimo.
Ciò che va necessariamente provato, allegando documentazione specifica, è la disforia di genere della persona, nonché la irreversibile immedesimazione nel genere percepito e la eventuale trasformazione corporea avvenuta.
La domanda deve essere corredata da una documentazione psico-diagnostica e da una documentazione medica che attestino il percorso di affermazione di genere, la volontà irreversibile di rettificare il proprio sesso anagrafico, la immedesimazione definitiva e irreversibile nel genere vissuto e percepito come il proprio ed eventualmente la volontà di sottoporsi ad intervento chirurgico di riassegnazione del sesso.
A tale documentazione va anche allegata una perizia endocrinologica, con prescrizione della cura ormonale avviata.
È sempre disposta la audizione personale della parte e la disamina della documentazione medica.
Un aspetto importante è indubbiamente è il percorso psicologico che porta alla diagnosi di disforia di genere. Lo si può intraprendere presso una struttura pubblica o privata.
Entrambe, a percorso concluso, rilasciano una relazione da produrre necessariamente in Tribunale.
Se si sceglie una struttura pubblica (S.S.N.) va detto che queste utilizzano dei protocolli per il percorso di transizione, ossia delle regole standard che i professionisti (psicologi, endocrinologi, psichiatri, ecc.) sono chiamati a rispettare.
Esaminando le pronunce più recenti, emerge una progressiva tendenza a valutare come sufficientemente esaustive e probanti le produzioni documentali della parte, senza la necessità quindi di disporre accertamenti tecnici d’ufficio (C.T.U.).
La comparizione personale del richiedente, con a corredo la documentazione attestante la cura ormonale in atto, può favorire il convincimento del giudice che si ritrova davanti una persona con un aspetto diverso dal genere attribuito sui documenti. Al termine del procedimento, il Tribunale con sentenza, determina il sesso della parte attrice e autorizza il trattamento di riassegnazione chirurgica del sesso, se richiesto, ordinando all’ufficiale di stato civile del Comune dove è stato compilato l’atto di nascita di effettuare la rettificazione nel relativo registro. Questo comporta altresì il cambiamento del nome e di tutti i documenti come il codice fiscale, la patente di guida, gli attestati scolastici, gli atti di proprietà, i contratti di lavoro, le utenze telefoniche.

Effetti sul matrimonio

Secondo l’articolo 4 della legge del 1982, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determinava lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili per le persone che erano precedentemente sposate.
Tuttavia, nel 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale norma, ritenendola in contrasto con il diritto della persona ad autodeterminarsi e, altresì, in contrasto con il diritto della coppia sposata a conservare la dimensione relazionale finora costruita.
Oggi quindi, la rettifica di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, comporta l’automatica conversione del matrimonio in unione civile, se gli originari coniugi abbiano dichiarato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili.
Se, invece, i coniugi non vogliono mantenere il legame di coppia, si scioglie il vincolo matrimoniale e si acquista lo status di divorziati.
Vale la pena notare, tuttavia, che qualora la coppia sia unita civilmente e intervenga una sentenza di rettificazione del sesso, non vi è conversione automatica in matrimonio.
Non è possibile predeterminare la durata del percorso di affermazione di genere poiché varia da persona a persona.
È possibile chiedere al giudice, attraverso istanze e domande di anticipazioni di udienze, che il procedimento, vista la peculiarità e l’urgenza della materia, sia deciso in tempi ragionevoli, seppure non esista garanzia che ciò possa avvenire.
Anche per ciò che riguarda i costi non è possibile fissare una regola generale. Essi, infatti, dipenderanno da alcuni fattori, come ad esempio, se si usufruisce o meno del gratuito patrocinio, dalle tariffe dell’avvocato, dall’eventuale nomina da parte del Tribunale di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU).

cambiare sesso

Identità di genere

L’identità di genere si riferisce al sesso, femminile o maschile, che una persona sente proprio. L’acquisizione dell’identità di genere avviene generalmente intorno al quarto anno di vita e, se non coincide con il sesso biologico, si verifica una discrepanza.
Si parla allora di persone transessuali e/o transgender.
La persona transessuale avverte l’esigenza di modificare il proprio aspetto e/o la propria espressione di genere accordandoli alla propria interiorità, seguendo un percorso di transizione.
Transgender è invece un termine utilizzato con riferimento a coloro che si percepiscono come appartenenti a entrambi i generi o a un cosiddetto “terzo genere” neutro.
È comprensibile come dalla non coincidenza tra vissuto interiore e aspetto esteriore scaturiscano un profondo senso di disagio e insicurezza, che possono sfociare nella decisione di intraprendere un percorso di transizione.
Questo disagio viene definito in termini medici disforia di genere (DSMV).
Il riconoscimento della disforia quale condizione di disagio e non quale malattia mentale è avvenuto nel 2018 quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha rimosso la disforia di genere dall’elenco delle patologie mentali.

La normativa italiana

In Italia la possibilità di cambiare sesso con una conseguente riattribuzione chirurgica e anagrafica è sancita e regolata dalla legge n. 164 del 1982 e dal decreto legislativo n. 150 del 2011.
La rettificazione avviene con sentenza del tribunale che attribuisce ad una persona un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali.
Il procedimento originario stabilito con la legge del 1982 prevedeva che la domanda per ottenere la rettificazione del sesso fosse introdotta nella forma del ricorso al Tribunale del luogo di residenza che autorizzava con sentenza l’intervento chirurgico per la rettificazione dei caratteri sessuali, ritenuto – all’epoca – condizione imprescindibile per ottenere l’autorizzazione giudiziale alla rettificazione anagrafica.
In una seconda fase veniva quindi accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, e a seguito di verifica positiva, emanato il provvedimento di rettifica della attribuzione di sesso.
Nei casi in cui la riassegnazione chirurgica con modificazioni dei caratteri sessuali fosse già avvenuta, all’estero o comunque senza la formale autorizzazione giudiziaria, si prevedeva che il Tribunale disponesse comunque la rettificazione con sentenza attributiva di un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita.

  • Il decreto legislativo n. 15 del 2011 ha modificato la legge del 1982, rendendo cumulabili le domande: di autorizzazione al trattamento chirurgico demolitivo e
  • di rettificazione degli atti di stato civile in cui recepire l’intervenuta riassegnazione del genere.

Un aspetto da tenere in considerazione è l’approccio medico alla disforia di genere, riconosciuta quale condizione psicologica e non come disturbo mentale solo nel 2018.
Pertanto, nella legge del 1982 l’attenzione de legislatore e dei giudici era concentrata più sull’aspetto fisico del soggetto richiedente, che sulla condizione psicologica ed interiore.
La riforma del 2011 ha previsto che il Tribunale autorizzi l’intervento chirurgico di mutamento di sesso solo ove necessario, ammettendo quindi che l’accoglimento della domanda di rettificazione del genere prescinda dalla trasformazione fisica dell’individuo, e si fondi piuttosto sull’accertamento della condizione personale del richiedente, sulla serietà ed univocità del percorso di transizione e sulla compiutezza dell’esito.
Questo significa che, se la persona ha raggiunto una condizione di benessere psico-fisico e dimostra la propria immedesimazione nel genere percepito e vissuto come irreversibile in sede di colloquio con il giudice, non è obbligatorio che effettui l’intervento chirurgico e può ottenere il cambio del nome e del sesso anagrafico anche se decide di non operarsi.
La Costituzionale nella sentenza n. 221 del 2015 ha affermato che:
Il Giudice può rilevare il completamento della transizione laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari”.

La procedura per la rettificazione del sesso

La domanda giudiziale va proposta al Tribunale del luogo di residenza del richiedente e notificata ad eventuali coniuge e figli.
Nel giudizio è possibile chiedere l’autorizzazione per l’intervento chirurgico di riattribuzione di sesso e la rettificazione del nome e del sesso, oppure solo quest’ultimo.
Ciò che va necessariamente provato, allegando documentazione specifica, è la disforia di genere della persona, nonché la irreversibile immedesimazione nel genere percepito e la eventuale trasformazione corporea avvenuta.
La domanda deve essere corredata da una documentazione psico-diagnostica e da una documentazione medica che attestino il percorso di affermazione di genere, la volontà irreversibile di rettificare il proprio sesso anagrafico, la immedesimazione definitiva e irreversibile nel genere vissuto e percepito come il proprio ed eventualmente la volontà di sottoporsi ad intervento chirurgico di riassegnazione del sesso.
A tale documentazione va anche allegata una perizia endocrinologica, con prescrizione della cura ormonale avviata.
È sempre disposta la audizione personale della parte e la disamina della documentazione medica.
Un aspetto importante è indubbiamente è il percorso psicologico che porta alla diagnosi di disforia di genere. Lo si può intraprendere presso una struttura pubblica o privata.
Entrambe, a percorso concluso, rilasciano una relazione da produrre necessariamente in Tribunale.
Se si sceglie una struttura pubblica (S.S.N.) va detto che queste utilizzano dei protocolli per il percorso di transizione, ossia delle regole standard che i professionisti (psicologi, endocrinologi, psichiatri, ecc.) sono chiamati a rispettare.
Esaminando le pronunce più recenti, emerge una progressiva tendenza a valutare come sufficientemente esaustive e probanti le produzioni documentali della parte, senza la necessità quindi di disporre accertamenti tecnici d’ufficio (C.T.U.).
La comparizione personale del richiedente, con a corredo la documentazione attestante la cura ormonale in atto, può favorire il convincimento del giudice che si ritrova davanti una persona con un aspetto diverso dal genere attribuito sui documenti. Al termine del procedimento, il Tribunale con sentenza, determina il sesso della parte attrice e autorizza il trattamento di riassegnazione chirurgica del sesso, se richiesto, ordinando all’ufficiale di stato civile del Comune dove è stato compilato l’atto di nascita di effettuare la rettificazione nel relativo registro. Questo comporta altresì il cambiamento del nome e di tutti i documenti come il codice fiscale, la patente di guida, gli attestati scolastici, gli atti di proprietà, i contratti di lavoro, le utenze telefoniche.

Effetti sul matrimonio

Secondo l’articolo 4 della legge del 1982, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determinava lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili per le persone che erano precedentemente sposate.
Tuttavia, nel 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale norma, ritenendola in contrasto con il diritto della persona ad autodeterminarsi e, altresì, in contrasto con il diritto della coppia sposata a conservare la dimensione relazionale finora costruita.
Oggi quindi, la rettifica di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, comporta l’automatica conversione del matrimonio in unione civile, se gli originari coniugi abbiano dichiarato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili.
Se, invece, i coniugi non vogliono mantenere il legame di coppia, si scioglie il vincolo matrimoniale e si acquista lo status di divorziati.
Vale la pena notare, tuttavia, che qualora la coppia sia unita civilmente e intervenga una sentenza di rettificazione del sesso, non vi è conversione automatica in matrimonio.
Non è possibile predeterminare la durata del percorso di affermazione di genere poiché varia da persona a persona.
È possibile chiedere al giudice, attraverso istanze e domande di anticipazioni di udienze, che il procedimento, vista la peculiarità e l’urgenza della materia, sia deciso in tempi ragionevoli, seppure non esista garanzia che ciò possa avvenire.
Anche per ciò che riguarda i costi non è possibile fissare una regola generale. Essi, infatti, dipenderanno da alcuni fattori, come ad esempio, se si usufruisce o meno del gratuito patrocinio, dalle tariffe dell’avvocato, dall’eventuale nomina da parte del Tribunale di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU).