Tra l’uccidere ed il lasciar morire – Corte Costituzionale, sentenza n. 242 del 2019: possibili scenari futuri

Nel presente scritto si intende riflettere, con approccio laico condotto esclusivamente su base tecnico-giuridico, sulla possibilità di introdurre l’eutanasia attiva nel nostro ordinamento alla luce della sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale.

Morire

Indice

1. Premessa
2. Eutanasia: la buona morte
3. L’ordinamento vigente
3.1. La posizione della Corte Costituzionale
4. Possibili scenari futuri
5. Conclusioni

1. Premessa

L’ordinamento giuridico italiano riconosce e garantisce il diritto alla vita quale “primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (Corte Cost., sentenza n. 223 del 1994) in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri, tutelandolo non solo da aggressioni esterne (v. reati di omicidio nelle diverse manifestazioni), ma anche da condotte lesive poste in essere dal titolare del diritto stesso (v. art. 579 cod. pen., omicidio del consenziente ed art. 580 cod. pen., aiuto al suicidio).
Il favor che l’ordinamento costituzionale appresta al diritto alla vita implica necessariamente il rifiuto di considerare al pari esistente un diritto, lato sensu, di morire? In virtù di un principio di bilanciamento degli interessi, è ipotizzabile la coesistenza dei due diritti, solo all’apparenza diametralmente opposti ed inconciliabili?

2. Eutanasia: la buona morte

Dal punto di vista fenomenologico, l’eutanasia può consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione che, allo scopo di eliminare ogni dolore, procura la morte di un uomo.
La distinzione tra azione ed omissione si coglie sul piano della causalità: mentre nell’eutanasia passiva l’omissione del medico si inserisce in un processo causale già messosi in moto autonomamente che conduce alla morte, nell’eutanasia attiva la condotta umana è il fattore causale unico, o concorrente, dell’evento letale. Qui la linea di confine tra letting die e killing: nel primo caso la morte è conseguenza di una malattia che il medico non ne ha impedito l’evolversi, nel secondo è la conseguenza della sua azione[1].
Se è vero che questa distinzione è apprezzabile sul piano naturalistico e morale, lo stesso può dirsi sul piano giuridico, posto che ai sensi dell’art. 40 cod. pen.non impedire un evento […] equivale a cagionarlo”?

3. L’ordinamento vigente

La Legge 22 dicembre 2017, n. 219 rappresenta la prima àncora normativa nel lungo dibattito tra il principio di indisponibilità della vita ed il principio di autodeterminazione. 
Alla luce dei diritti inviolabili dell’uomo, quale quello alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, la legge stabilisce che (1) nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata; (2) ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare un trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia e che (3) il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente.
Qualificando la ventilazione, la nutrizione e l’idratazione artificiale alla stregua di trattamenti sanitari, la legge consacra il diritto a lasciarsi morire.
Il paziente che sia tenuto in vita solo per mezzo di trattamenti sanitari può rinunciare agli stessi, lasciando così che la malattia segua il suo decorso naturale fino alla morte.
In questo àmbito può dirsi che il principio di autodeterminazione prevale rispetto alla vita.

3.1. La posizione della Corte Costituzionale

Il giudice delle leggi, con sentenza n. 242 del 2019, preso atto delle acquisizioni della Legge n. 219 del 2017, ha compiuto un ulteriore passo in avanti e, facendo leva sulla dignità della persona e sul rispetto della sua autodeterminazione anche nei momenti finali dell’esistenza, è penetrato nel campo dell’eutanasia attiva, legittimando e inquadrando nelle linee giuridiche essenziali l’istituto del suicidio medicalmente assistito.
Alla luce del principio di dignità e di autodeterminazione, nonché del principio di uguaglianza, così come il preminente valore della vita non escludeva l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari (anche quando ciò avesse richiesto una condotta attiva da parte di terzi quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore), allo stesso modo non vi era ragione per la quale il medesimo valore dovesse tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale[2].
La Corte osservava come in talune particolari situazioni (persona affetta da malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova intollerabili, tenuta in vita mediante trattamenti di sostegno vitale, ma ancora capace di decisioni consapevoli), per il malato vi sarebbe stata solo la possibilità di sottoporsi alla sedazione profonda continua fino al decorso naturale della malattia. La Corte riteneva che questa unica via obbligata potesse risultare insopportabilmente angusta, poiché avrebbe costretto il paziente a subire “un processo più lento in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.
Il concetto di dignità assumeva una dimensione soggettiva: al malato ormai esausto viene riconosciuto il diritto che venga rispettata la propria personale concezione della dignità, che può comprendere la scelta di liberarsi delle sofferenze accelerando la propria fine.
Nella prospettiva anzi considerata, la morte non si configura più come un destino, ma come un evento che può essere gestito e reso compatibile, nelle modalità del suo compimento ed entro certi limiti anche nei tempi, con le concezioni personali del malato[3].
Il punto di analisi non è più incentrato sul principio di autodeterminazione del singolo in materia sanitaria e dal rifiuto delle cure, ma si spinge oltre, arrivando a configurare nuovi spazi di liceità di condotte di agevolazione al suicidio.

4. Possibili scenari futuri

La Corte ha posto le condizioni giuridiche per un’apertura verso forme di eutanasia attiva, le quali potrebbero essere ricondotte entro la cornice costituzionale che si ricava dalla lettura combinata degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione interpretati alla luce del principio di eguaglianza e del più ampio rispetto della persona umana.
Un’evoluzione normativa in tal senso garantirebbe in modo effettivo l’eguaglianza delle persone tenute in vita da supporti artificiali che, rifiutando consapevolmente gli stessi, decidano di lasciarsi morire, nei casi in cui tale decisione esporrebbe soltanto alcuni a una morte lenta, ritenuta incompatibile con il principio di dignità umana.
In tono aspramente critico, si è osservato come il passaggio dal “diritto alla cura” al “diritto di ottenere trattamenti diretti a determinare la morte” non sia stato in alcun modo argomentato dalla Corte. Se è vero che il “diritto a lasciarsi morire” si giustifica in virtù del “diritto alla terapia”, inteso anche quale diritto al rifiuto della stessa, lo stesso non giustificherebbe forme di eutanasia attiva, a meno di considerare come patologia la vita stessa, che deve essere curata con trattamenti diretti a provocarne la cessazione[4].
La critica non coglie nel segno.
Il diritto alla salute comprende tanto la salute fisica quanto quella psichica, in questo senso terapeutico potrà dirsi anche quell’intervento che, facendosi carico della dimensione psichica della sofferenza, ne comporti la cessazione[5].   

5. Conclusioni

I diritti fondamentali non sono monadi isolate all’interno della Costituzione, l’esercizio dell’uno non implica il disconoscimento dell’altro. Al contrario, vanno valorizzati nell’insieme nella logica del bilanciamento degli interessi, ispirato al principio della dignità umana.
Alla luce del bilanciamento, pur dovendosi escludere un generico diritto a morire, deve riconoscersi un diritto a morire in maniera dignitosa.
Come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale, il Legislatore dovrà intervenire per delineare presupposti e limitazioni per l’esercizio di un siffatto diritto. Un intervento che, contrariamente a questo elaborato, non potrà prescindere da valutazioni etiche e morali.


([1]) M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001.
([2]) Con questa motivazione, la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 cod. pen. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, (1) autonomamente e liberamente formatosi, (2) di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e (3) affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente (4) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
([3]) M.G. Luccioli, Ordinamento giuridico e scelte terapeutiche di fine vita: relazione introduttiva, Corte Suprema di Cassazione, Roma 24.11.2020.
([4]) T.E. Epidendio, L’ordinanza n. 207 del 2018 tra aiuto al suicidio e trasformazioni del ruolo della Corte costituzionale.
([5]) cfr. Codice di Deontologia Medica, art. 3: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana

morire

Indice

1. Premessa
2. Eutanasia: la buona morte
3. L’ordinamento vigente
3.1. La posizione della Corte Costituzionale
4. Possibili scenari futuri
5. Conclusioni

1. Premessa

L’ordinamento giuridico italiano riconosce e garantisce il diritto alla vita quale “primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (Corte Cost., sentenza n. 223 del 1994) in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri, tutelandolo non solo da aggressioni esterne (v. reati di omicidio nelle diverse manifestazioni), ma anche da condotte lesive poste in essere dal titolare del diritto stesso (v. art. 579 cod. pen., omicidio del consenziente ed art. 580 cod. pen., aiuto al suicidio).
Il favor che l’ordinamento costituzionale appresta al diritto alla vita implica necessariamente il rifiuto di considerare al pari esistente un diritto, lato sensu, di morire? In virtù di un principio di bilanciamento degli interessi, è ipotizzabile la coesistenza dei due diritti, solo all’apparenza diametralmente opposti ed inconciliabili?

2. Eutanasia: la buona morte

Dal punto di vista fenomenologico, l’eutanasia può consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione che, allo scopo di eliminare ogni dolore, procura la morte di un uomo.
La distinzione tra azione ed omissione si coglie sul piano della causalità: mentre nell’eutanasia passiva l’omissione del medico si inserisce in un processo causale già messosi in moto autonomamente che conduce alla morte, nell’eutanasia attiva la condotta umana è il fattore causale unico, o concorrente, dell’evento letale. Qui la linea di confine tra letting die e killing: nel primo caso la morte è conseguenza di una malattia che il medico non ne ha impedito l’evolversi, nel secondo è la conseguenza della sua azione[1].
Se è vero che questa distinzione è apprezzabile sul piano naturalistico e morale, lo stesso può dirsi sul piano giuridico, posto che ai sensi dell’art. 40 cod. pen.non impedire un evento […] equivale a cagionarlo”?

3. L’ordinamento vigente

La Legge 22 dicembre 2017, n. 219 rappresenta la prima àncora normativa nel lungo dibattito tra il principio di indisponibilità della vita ed il principio di autodeterminazione. 
Alla luce dei diritti inviolabili dell’uomo, quale quello alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, la legge stabilisce che (1) nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata; (2) ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare un trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia e che (3) il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente.
Qualificando la ventilazione, la nutrizione e l’idratazione artificiale alla stregua di trattamenti sanitari, la legge consacra il diritto a lasciarsi morire.
Il paziente che sia tenuto in vita solo per mezzo di trattamenti sanitari può rinunciare agli stessi, lasciando così che la malattia segua il suo decorso naturale fino alla morte.
In questo àmbito può dirsi che il principio di autodeterminazione prevale rispetto alla vita.

3.1. La posizione della Corte Costituzionale

Il giudice delle leggi, con sentenza n. 242 del 2019, preso atto delle acquisizioni della Legge n. 219 del 2017, ha compiuto un ulteriore passo in avanti e, facendo leva sulla dignità della persona e sul rispetto della sua autodeterminazione anche nei momenti finali dell’esistenza, è penetrato nel campo dell’eutanasia attiva, legittimando e inquadrando nelle linee giuridiche essenziali l’istituto del suicidio medicalmente assistito.
Alla luce del principio di dignità e di autodeterminazione, nonché del principio di uguaglianza, così come il preminente valore della vita non escludeva l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari (anche quando ciò avesse richiesto una condotta attiva da parte di terzi quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore), allo stesso modo non vi era ragione per la quale il medesimo valore dovesse tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale[2].
La Corte osservava come in talune particolari situazioni (persona affetta da malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova intollerabili, tenuta in vita mediante trattamenti di sostegno vitale, ma ancora capace di decisioni consapevoli), per il malato vi sarebbe stata solo la possibilità di sottoporsi alla sedazione profonda continua fino al decorso naturale della malattia. La Corte riteneva che questa unica via obbligata potesse risultare insopportabilmente angusta, poiché avrebbe costretto il paziente a subire “un processo più lento in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.
Il concetto di dignità assumeva una dimensione soggettiva: al malato ormai esausto viene riconosciuto il diritto che venga rispettata la propria personale concezione della dignità, che può comprendere la scelta di liberarsi delle sofferenze accelerando la propria fine.
Nella prospettiva anzi considerata, la morte non si configura più come un destino, ma come un evento che può essere gestito e reso compatibile, nelle modalità del suo compimento ed entro certi limiti anche nei tempi, con le concezioni personali del malato[3].
Il punto di analisi non è più incentrato sul principio di autodeterminazione del singolo in materia sanitaria e dal rifiuto delle cure, ma si spinge oltre, arrivando a configurare nuovi spazi di liceità di condotte di agevolazione al suicidio.

4. Possibili scenari futuri

La Corte ha posto le condizioni giuridiche per un’apertura verso forme di eutanasia attiva, le quali potrebbero essere ricondotte entro la cornice costituzionale che si ricava dalla lettura combinata degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione interpretati alla luce del principio di eguaglianza e del più ampio rispetto della persona umana.
Un’evoluzione normativa in tal senso garantirebbe in modo effettivo l’eguaglianza delle persone tenute in vita da supporti artificiali che, rifiutando consapevolmente gli stessi, decidano di lasciarsi morire, nei casi in cui tale decisione esporrebbe soltanto alcuni a una morte lenta, ritenuta incompatibile con il principio di dignità umana.
In tono aspramente critico, si è osservato come il passaggio dal “diritto alla cura” al “diritto di ottenere trattamenti diretti a determinare la morte” non sia stato in alcun modo argomentato dalla Corte. Se è vero che il “diritto a lasciarsi morire” si giustifica in virtù del “diritto alla terapia”, inteso anche quale diritto al rifiuto della stessa, lo stesso non giustificherebbe forme di eutanasia attiva, a meno di considerare come patologia la vita stessa, che deve essere curata con trattamenti diretti a provocarne la cessazione[4].
La critica non coglie nel segno.
Il diritto alla salute comprende tanto la salute fisica quanto quella psichica, in questo senso terapeutico potrà dirsi anche quell’intervento che, facendosi carico della dimensione psichica della sofferenza, ne comporti la cessazione[5].   

5. Conclusioni

I diritti fondamentali non sono monadi isolate all’interno della Costituzione, l’esercizio dell’uno non implica il disconoscimento dell’altro. Al contrario, vanno valorizzati nell’insieme nella logica del bilanciamento degli interessi, ispirato al principio della dignità umana.
Alla luce del bilanciamento, pur dovendosi escludere un generico diritto a morire, deve riconoscersi un diritto a morire in maniera dignitosa.
Come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale, il Legislatore dovrà intervenire per delineare presupposti e limitazioni per l’esercizio di un siffatto diritto. Un intervento che, contrariamente a questo elaborato, non potrà prescindere da valutazioni etiche e morali.


([1]) M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001.
([2]) Con questa motivazione, la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 cod. pen. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, (1) autonomamente e liberamente formatosi, (2) di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e (3) affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente (4) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
([3]) M.G. Luccioli, Ordinamento giuridico e scelte terapeutiche di fine vita: relazione introduttiva, Corte Suprema di Cassazione, Roma 24.11.2020.
([4]) T.E. Epidendio, L’ordinanza n. 207 del 2018 tra aiuto al suicidio e trasformazioni del ruolo della Corte costituzionale.
([5]) cfr. Codice di Deontologia Medica, art. 3: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana