La Sentenza n. 19597/2020 delle Sezioni Unite: agli interessi di mora si applica la disciplina antiusura

Articolo a cura dell’Avv. Giuseppe Viggiano

Le norme antiusura si applicano anche agli interessi di mora, in quanto la ratio della disciplina de qua è quella di sanzionare qualsiasi promessa di somma usuraia dovuta in relazione al contratto stipulato tra le parti, e non soltanto le clausole concernenti gli interessi concordati quale corrispettivo per la concessione del prestito.

Interessi di mora

È quanto ha statuito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 19597/2020, attraverso la quale gli Ermellini hanno inteso dirimere l’annosa questione sul controllo di usurarietà degli interessi moratori praticati sui contratti di mutuo e di finanziamento.
I differenti orientamenti formatisi in materia avevano determinato una discrasia sistematica che comprometteva il corretto esercizio del diritto di difesa, soprattutto in danno al contraente più debole: il consumatore o beneficiario del finanziamento. Per meglio comprendere la decisione delle Sezioni Unite e lexcursus storico – giuridico, appare necessaria una breve disamina sugli interessi in generale, di cui il Codice Civile non fornisce una nozione specifica.
Parafrasando l’art. 1282 c.c., gli interessi costituiscono certamente prestazioni accessorie rispetto ad una obbligazione pecuniaria principale, che maturano periodicamente in misura percentuale per tutta l’esistenza della obbligazione principale medesima, e sono dovuti dal mutuatario in ragione dell’utilizzo del capitale altrui oppure per via del ritardato pagamento (si veda, ex multis, Cass. civ. 2.10.1980 n. 5343).
Già da tanto appare chiaro che esistono almeno due tipologie di interessi distinti in base alla diversa funzione economica assolta, e proprio questa ripartizione ha determinato un contrasto interpretativo divenuto intollerabile.
Gli interessi corrispettivi – cui l’applicazione della disciplina antiusura è pacifica – costituiscono il compenso che il mutuatario destina al mutuante per i vantaggi conseguiti dal prestito ottenuto; assolvono, dunque, ad una funzione prettamente remunerativa.
Gli interessi di mora, invece, hanno una funzione risarcitoria, mirando a ristorare il mutuante dal ritardato pagamento del mutuatario rispetto alle scadenze pattuite.
Ebbene, secondo un orientamento più che altro di derivazione dottrinale, gli interessi moratori sfuggono al controllo di usurarietà proprio in ragione della diversa funzione assolta.
In primis, l’interpretazione letterale della disciplina codicistica imporrebbe l’esclusione del controllo di usurarietà degli interessi di mora, essendo meramente risarcitori.
In effetti, l’art. 1815 c.c., nel sancire la nullità della clausola contenente interessi usurai, opera un rimando al reato di cui all’art. 644 c.p., che punisce chiunque si fa dare o promettere interessi in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra attività.
Inoltre, anche il D.M. che periodicamente stabilisce il tasso soglia da considerare ai fini dell’usura, non include esplicitamente gli interessi di mora.
Pertanto, sotto il profilo dei rimedi, gli interessi moratori andrebbero ricondotti nella fattispecie della c.d. penale di cui all’art. 1382 c.c., che le parti possono prevedere nel contratto quale risarcimento dovuto per l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento.
In tal caso, il Giudicante adito può diminuire secondo equità l’importo degli interessi di mora quando, ai sensi dell’art. 1384 c.c., il loro ammontare appare manifestamente eccessivo oppure l’obbligazione principale risulta comunque parzialmente eseguita.
La Giurisprudenza di legittimità, invero, ha sposato più costantemente una tesi estensiva (cfr. Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 13 settembre 2019, n. 22890; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442; Cass. 6 marzo 2017, n. 5598; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324), ribaltando – di fatto – la ricostruzione operata dai fautori di quella restrittiva.
Sotto il profilo interpretativo, infatti, non appare condivisibile l’univocità del significato letterale dell’art. 1815 c.c. così come ricostruito dai sostenitori della tesi restrittiva, in quanto la disposizione de qua (che va letta in combinazione con la L. n. 108/1996 e con il D.L. n. 394/2000 convertito dalla L. n. 24/2001) non fa esplicito riferimento ad alcun tipo di interesse.
Dunque, non può escludersi che il Legislatore abbia voluto – al contrario – ricomprendere nella disciplina in esame anche gli interessi con funzione diversa da quella remunerativa.
La corretta applicazione della norma in esame richiede, pertanto, una interpretazione sistematica che tenga conto dei mutamenti del contesto socio – economico in cui i privati regolano le obbligazioni pecuniarie, con particolare attenzione alla successiva legislazione in materia.
Ebbene, la L. n. 108/1996 – recante disposizioni in materia di usura – si è resa necessaria proprio al fine di ampliare gli strumenti di tutela in favore della parte debole del rapporto contrattuale (il mutuatario o il consumatore), quindi è pacifico che il Legislatore abbia inteso ricomprendere nella valutazione di usurarietà anche gli interessi di mora.
Tale ricostruzione sarebbe ulteriormente confermata dai lavori preparatori della successiva L. n. 24/2001, nei quali si fa esplicito riferimento a tutti gli interessi: moratori, corrispettivi e compensativi.
Tuttavia, la Giurisprudenza in esame si è spinta oltre, rendendo ondivaga la tesi della diversa funzione socio – economica degli interessi applicati: a suffragio del controllo di usurarietà degli interessi di mora, infatti, ha sostenuto che anche questi ultimi costituiscono remunerazione del capitale, differente rispetto a quella degli interessi corrispettivi solamente perché involontaria e indiretta.
Per l’effetto, secondo tale orientamento, non può essere dirimente la circostanza della non inclusione degli interessi di mora nei D.M. che fissano periodicamente il tasso medio, in quanto trattasi di normazione secondaria che deve, anzi, uniformarsi alle Legge che attua, e non il contrario.
Appare chiaro che la laconicità delle disposizioni sin qui citate meriterebbe un ulteriore intervento legislativo, volto a sancire definitivamente un impianto legislativo uniforme e chiaro, perlomeno in ossequio al fondamentale principio di certezza del diritto.
In mancanza, esercitando la propria funzione nomofilattica, è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezione Unite che, con la già citata sentenza del 18/09/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19597, ha sostenuto la tesi estensiva con alcuni correttivi interpretativi.
Gli Ermellini, infatti, non hanno di certo messo in discussione l’impianto interpretativo prefigurato da entrambi gli orientamenti discordanti, ma hanno sottolineato l’indiscutibilità della diversa funzione svolta dagli interessi moratori e quelli corrispettivi, che dunque resta ferma.
Tuttavia, l’esigenza primaria che deve ispirare la contrattazione è quella di tutelare il contraente debole, che il più delle volte non dispone di strumenti conoscitivi necessari a valutare l’abnormità e l’illegittimità degli interessi di mora nelle fasi precedenti la conclusione del contratto.
Dunque, conformemente al dettato Costituzionale di cui all’art. 41 Cost., si rende sempre necessario contemperare il rispetto dell’autonomia contrattuale con le pur fondamentali esigenze di “repressione della criminalità economica”, al fine di tutelare la stessa “stabilità del sistema bancario”.
E certamente queste preoccupazioni hanno ispirato la severa disciplina di cui alla L. n. 108/1996, lasciando trasparire la volontà del Legislatore di tutelare il beneficiario del prestito da qualsiasi somma usuraia convenuta, a prescindere dalla natura e dalla funzione assolta.
Per i contratti di prestito a consumo, inoltre, vale il D.Lgs. n. 206/2005 che ha altresì rafforzato gli strumenti di tutela del consumatore, palesando la crescente necessità di agevolare i soggetti privati nel sempre più complesso settore dei finanziamenti.
Per tali ragioni, i rimedi offerti dalla disciplina di cui all’art. 1384 c.c. non appaiono sufficienti ad integrare le impellenti esigenze di tutela ricavate dalle plurime rationae legis delle discipline analizzate.
Pertanto, sotto il profilo pratico, nel caso dell’accertato superamento del tasso soglia degli interessi di mora, trova piena applicazione l’art. 1815, comma 2, c.c., che sancisce la nullità della clausola, seppur mediante “una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro”.
In altre parole, la sanzione di non debenza deve essere limitata alla tipologia di interessi valutati come usurai. Di talché, la declaratoria di nullità della clausola disciplinante gli interessi, non comporta automaticamente la totale gratuità del contratto di finanziamento, bensì la sostituzione giudiziale della clausola abusiva.
Infatti, se nell’ambito di un medesimo contratto, gli interessi corrispettivi non superano il tasso soglia, mentre quelli moratori vengono accertati come illeciti, si applica l’art. 1224 c.c., con la conseguenza che il debitore – che deve sempre ispirare il proprio comportamento alla buona fede di cui all’art. 1376 c.c. – dovrà puntualmente corrispondere gli interessi corrispettivi lecitamente concordati.
Tale rimedio, precisa la Corte, è esperibile qualora gli interessi di mora usurai siano stati concretamente praticati dal creditore successivamente al ritardo o all’inadempimento del debitore.
Nulla toglie, infatti, che il creditore possa aver convenuto interessi di mora astrattamente illeciti ma rinunci a richiedere – ad esempio, nella fase del recupero forzoso del proprio credito – gli stessi interessi nella misura pattuita.
Infine, a completamento della motivazione offerta dagli Ermellini, si precisa che l’onore di provare l’usurarietà degli interessi di mora ricade sul debitore, ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Con la conseguenza che il finanziatore dovrà allegare e provare eventuali fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla parte avversaria.
Troncando le fumose questioni ideologiche che hanno diviso la dottrina e la Giurisprudenza sul punto, con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ben armonizzato la necessità di preservare la stabilità del sistema creditizio – che pure assolve ad una funzione di interesse pubblico – con la imprescindibile salvaguardia del beneficiario del prestito, il quale si trova ad affrontare un settore sempre più complesso e a tratti farraginoso.

interessi di mora

È quanto ha statuito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 19597/2020, attraverso la quale gli Ermellini hanno inteso dirimere l’annosa questione sul controllo di usurarietà degli interessi moratori praticati sui contratti di mutuo e di finanziamento.
I differenti orientamenti formatisi in materia avevano determinato una discrasia sistematica che comprometteva il corretto esercizio del diritto di difesa, soprattutto in danno al contraente più debole: il consumatore o beneficiario del finanziamento. Per meglio comprendere la decisione delle Sezioni Unite e lexcursus storico – giuridico, appare necessaria una breve disamina sugli interessi in generale, di cui il Codice Civile non fornisce una nozione specifica.
Parafrasando l’art. 1282 c.c., gli interessi costituiscono certamente prestazioni accessorie rispetto ad una obbligazione pecuniaria principale, che maturano periodicamente in misura percentuale per tutta l’esistenza della obbligazione principale medesima, e sono dovuti dal mutuatario in ragione dell’utilizzo del capitale altrui oppure per via del ritardato pagamento (si veda, ex multis, Cass. civ. 2.10.1980 n. 5343).
Già da tanto appare chiaro che esistono almeno due tipologie di interessi distinti in base alla diversa funzione economica assolta, e proprio questa ripartizione ha determinato un contrasto interpretativo divenuto intollerabile.
Gli interessi corrispettivi – cui l’applicazione della disciplina antiusura è pacifica – costituiscono il compenso che il mutuatario destina al mutuante per i vantaggi conseguiti dal prestito ottenuto; assolvono, dunque, ad una funzione prettamente remunerativa.
Gli interessi di mora, invece, hanno una funzione risarcitoria, mirando a ristorare il mutuante dal ritardato pagamento del mutuatario rispetto alle scadenze pattuite.
Ebbene, secondo un orientamento più che altro di derivazione dottrinale, gli interessi moratori sfuggono al controllo di usurarietà proprio in ragione della diversa funzione assolta.
In primis, l’interpretazione letterale della disciplina codicistica imporrebbe l’esclusione del controllo di usurarietà degli interessi di mora, essendo meramente risarcitori.
In effetti, l’art. 1815 c.c., nel sancire la nullità della clausola contenente interessi usurai, opera un rimando al reato di cui all’art. 644 c.p., che punisce chiunque si fa dare o promettere interessi in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra attività.
Inoltre, anche il D.M. che periodicamente stabilisce il tasso soglia da considerare ai fini dell’usura, non include esplicitamente gli interessi di mora.
Pertanto, sotto il profilo dei rimedi, gli interessi moratori andrebbero ricondotti nella fattispecie della c.d. penale di cui all’art. 1382 c.c., che le parti possono prevedere nel contratto quale risarcimento dovuto per l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento.
In tal caso, il Giudicante adito può diminuire secondo equità l’importo degli interessi di mora quando, ai sensi dell’art. 1384 c.c., il loro ammontare appare manifestamente eccessivo oppure l’obbligazione principale risulta comunque parzialmente eseguita.
La Giurisprudenza di legittimità, invero, ha sposato più costantemente una tesi estensiva (cfr. Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 13 settembre 2019, n. 22890; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442; Cass. 6 marzo 2017, n. 5598; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324), ribaltando – di fatto – la ricostruzione operata dai fautori di quella restrittiva.
Sotto il profilo interpretativo, infatti, non appare condivisibile l’univocità del significato letterale dell’art. 1815 c.c. così come ricostruito dai sostenitori della tesi restrittiva, in quanto la disposizione de qua (che va letta in combinazione con la L. n. 108/1996 e con il D.L. n. 394/2000 convertito dalla L. n. 24/2001) non fa esplicito riferimento ad alcun tipo di interesse.
Dunque, non può escludersi che il Legislatore abbia voluto – al contrario – ricomprendere nella disciplina in esame anche gli interessi con funzione diversa da quella remunerativa.
La corretta applicazione della norma in esame richiede, pertanto, una interpretazione sistematica che tenga conto dei mutamenti del contesto socio – economico in cui i privati regolano le obbligazioni pecuniarie, con particolare attenzione alla successiva legislazione in materia.
Ebbene, la L. n. 108/1996 – recante disposizioni in materia di usura – si è resa necessaria proprio al fine di ampliare gli strumenti di tutela in favore della parte debole del rapporto contrattuale (il mutuatario o il consumatore), quindi è pacifico che il Legislatore abbia inteso ricomprendere nella valutazione di usurarietà anche gli interessi di mora.
Tale ricostruzione sarebbe ulteriormente confermata dai lavori preparatori della successiva L. n. 24/2001, nei quali si fa esplicito riferimento a tutti gli interessi: moratori, corrispettivi e compensativi.
Tuttavia, la Giurisprudenza in esame si è spinta oltre, rendendo ondivaga la tesi della diversa funzione socio – economica degli interessi applicati: a suffragio del controllo di usurarietà degli interessi di mora, infatti, ha sostenuto che anche questi ultimi costituiscono remunerazione del capitale, differente rispetto a quella degli interessi corrispettivi solamente perché involontaria e indiretta.
Per l’effetto, secondo tale orientamento, non può essere dirimente la circostanza della non inclusione degli interessi di mora nei D.M. che fissano periodicamente il tasso medio, in quanto trattasi di normazione secondaria che deve, anzi, uniformarsi alle Legge che attua, e non il contrario.
Appare chiaro che la laconicità delle disposizioni sin qui citate meriterebbe un ulteriore intervento legislativo, volto a sancire definitivamente un impianto legislativo uniforme e chiaro, perlomeno in ossequio al fondamentale principio di certezza del diritto.
In mancanza, esercitando la propria funzione nomofilattica, è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezione Unite che, con la già citata sentenza del 18/09/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19597, ha sostenuto la tesi estensiva con alcuni correttivi interpretativi.
Gli Ermellini, infatti, non hanno di certo messo in discussione l’impianto interpretativo prefigurato da entrambi gli orientamenti discordanti, ma hanno sottolineato l’indiscutibilità della diversa funzione svolta dagli interessi moratori e quelli corrispettivi, che dunque resta ferma.
Tuttavia, l’esigenza primaria che deve ispirare la contrattazione è quella di tutelare il contraente debole, che il più delle volte non dispone di strumenti conoscitivi necessari a valutare l’abnormità e l’illegittimità degli interessi di mora nelle fasi precedenti la conclusione del contratto.
Dunque, conformemente al dettato Costituzionale di cui all’art. 41 Cost., si rende sempre necessario contemperare il rispetto dell’autonomia contrattuale con le pur fondamentali esigenze di “repressione della criminalità economica”, al fine di tutelare la stessa “stabilità del sistema bancario”.
E certamente queste preoccupazioni hanno ispirato la severa disciplina di cui alla L. n. 108/1996, lasciando trasparire la volontà del Legislatore di tutelare il beneficiario del prestito da qualsiasi somma usuraia convenuta, a prescindere dalla natura e dalla funzione assolta.
Per i contratti di prestito a consumo, inoltre, vale il D.Lgs. n. 206/2005 che ha altresì rafforzato gli strumenti di tutela del consumatore, palesando la crescente necessità di agevolare i soggetti privati nel sempre più complesso settore dei finanziamenti.
Per tali ragioni, i rimedi offerti dalla disciplina di cui all’art. 1384 c.c. non appaiono sufficienti ad integrare le impellenti esigenze di tutela ricavate dalle plurime rationae legis delle discipline analizzate.
Pertanto, sotto il profilo pratico, nel caso dell’accertato superamento del tasso soglia degli interessi di mora, trova piena applicazione l’art. 1815, comma 2, c.c., che sancisce la nullità della clausola, seppur mediante “una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro”.
In altre parole, la sanzione di non debenza deve essere limitata alla tipologia di interessi valutati come usurai. Di talché, la declaratoria di nullità della clausola disciplinante gli interessi, non comporta automaticamente la totale gratuità del contratto di finanziamento, bensì la sostituzione giudiziale della clausola abusiva.
Infatti, se nell’ambito di un medesimo contratto, gli interessi corrispettivi non superano il tasso soglia, mentre quelli moratori vengono accertati come illeciti, si applica l’art. 1224 c.c., con la conseguenza che il debitore – che deve sempre ispirare il proprio comportamento alla buona fede di cui all’art. 1376 c.c. – dovrà puntualmente corrispondere gli interessi corrispettivi lecitamente concordati.
Tale rimedio, precisa la Corte, è esperibile qualora gli interessi di mora usurai siano stati concretamente praticati dal creditore successivamente al ritardo o all’inadempimento del debitore.
Nulla toglie, infatti, che il creditore possa aver convenuto interessi di mora astrattamente illeciti ma rinunci a richiedere – ad esempio, nella fase del recupero forzoso del proprio credito – gli stessi interessi nella misura pattuita.
Infine, a completamento della motivazione offerta dagli Ermellini, si precisa che l’onore di provare l’usurarietà degli interessi di mora ricade sul debitore, ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Con la conseguenza che il finanziatore dovrà allegare e provare eventuali fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla parte avversaria.
Troncando le fumose questioni ideologiche che hanno diviso la dottrina e la Giurisprudenza sul punto, con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ben armonizzato la necessità di preservare la stabilità del sistema creditizio – che pure assolve ad una funzione di interesse pubblico – con la imprescindibile salvaguardia del beneficiario del prestito, il quale si trova ad affrontare un settore sempre più complesso e a tratti farraginoso.