Il principio di prevedibilità della responsabilità penale è previsto dall’art. 7 CEDU ed, a seguito sia degli interventi della giurisprudenza convenzionale sia della giurisprudenza interna, ha acquisito una progressiva rilevanza nell’ordinamento nazionale.
A livello nazionale non vi è una norma che prevede il principio di prevedibilità, ma può trovare fondamento in altre norme. Strette connessioni sussistono in primo luogo con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.; in secondo luogo, con suoi i corollari, quali il principio di riserva di legge, tassatività, precisione e determinatezza. Quindi, non è sufficiente che una norma incriminatrice sia prevista per legge, occorrendo, nel contempo, che questa legge sia formulata in maniera chiara e precisa. Tanto più è delineata la fattispecie incriminatrice, riducendo i margini di apprezzamento del giudice, tanto maggiore sarà la prevedibilità delle conseguenze da parte del singolo. Anche la funzione rieducativa della pena, ex art. 27 comma 3, Cost., presuppone un dato legislativo chiaro e prevedibile per esercitare la sua forza. Ancora, il principio di legalità costituisce un inevitabile corollario del principio di colpevolezza così come elaborato nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, dove viene sottolineato che il reo deve essere messo in condizioni di prevedere le conseguenze sanzionatorie del proprio comportamento per autodeterminarsi in maniera consapevole. Il principio di certezza del diritto può anche fungere da fattore ostativo all’efficacia retroattiva del diritto penale. La ratio di tale principio è preservare la libertà personale dei consociati, impedendo al potere legislativo di punire comportamenti che, al momento in cui sono stati posti in essere, non costituivano reato. Pertanto, è volto a tutelare la libertà di autodeterminazione del privato, assicurandogli la piena ed effettiva conoscenza delle conseguenze dei propri comportamenti. Ponendo a confronto l’art. 7 CEDU e l’art. 25, comma secondo, Cost., emerge un contenuto analogo, ma anche delle diversità. Elementi di differenziazione sono la esplicita previsione nel diritto CEDU di una riserva di diritto e non di una riserva di legge e, altresì, il riferimento al diritto internazionale. La CEDU ha evidenziato come la nozione di diritto prevista nell’art. 7 CEDU non ha una valenza ristretta, cioè riferita al solo diritto penale, ma, al contrario, ha una valenza talmente ampia da ricomprendere tanto la legge scritta quanto la giurisprudenza. Se, quindi, nel nostro sistema la fonte legislativa del precetto penale e della sanzione è l’unica garanzia per il cittadino, l’art. 7 CEDU non assegna nessuna rilevanza alla legge. Il sistema convenzionale pone la sua attenzione sulla qualità della previsione, la quale deve essere accessibile per il destinatario e anche prevedibile, cioè capace di consentirgli di intuire le conseguenze giuridiche della propria condotta. Essendo in tale sistema ammesso il diritto di formazione giurisprudenziale, il canone della prevedibilità viene rispettato sia se il precetto e la sanzione penale siano previsti da una legge, sia se siano il frutto del lavoro della giurisprudenza. Si coglie, dunque, il conflitto con il principio di legalità nazionale e il suo corollario, la riserva di legge, che attribuisce le scelte di incriminazione e le scelte sanzionatorie esclusivamente al potere legislativo. Tale diversa configurazione del principio di legalità emerge nella sentenza Contrada c. Italia, dove la CEDU ha censurato l’Italia proprio per la violazione del principio di legalità e dei suoi corollari di irretroattività e tassatività. La Corte era stata investita del compito di valutare se, all’epoca dei fatti, il concorso esterno in associazione mafiosa fosse chiaro, prevedibile e basato su una previsione legale. Nella sentenza in esame la Corte EDU non censura la circostanza che tale incriminazione sia una fattispecie di creazione giurisprudenziale, proprio perché la legalità convenzionale ben ammette la giurisprudenza come possibile fonte di incriminazione, bensì critica il fatto che la condanna per tale fattispecie fosse stata emessa nei confronti del Contrada in violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Nonostante l’evidenza di tale distinzione tra la dimensione interna e quella convenzionale del principio di legalità, la valenza più ampia che sta assumendo il principio di legalità nel nostro ordinamento emerge, così come previsto dall’art. 7 CEDU, nella sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione n. 34952/2012 sul tentativo di rapina improprio. Queste Sezioni Unite, basando la loro decisione su una giurisprudenza affermatasi nel tempo, hanno avuto modo di precisare che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della CEDU. Infatti, la giurisprudenza consolidatasi sulla fattispecie del tentativo di rapina impropria ha assunto un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale, poiché ha assicurato la prevedibilità ed accessibilità del risultato interpretativo, in virtù anche delle poche sentenze difformi sulla questione. In particolare, le Sezioni Unite nella sentenza in esame risolvono una questione di diritto avente ad oggetto la condotta di chi, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. Si discute se in tal caso sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ovvero il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia. Sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario e consolidato della Cassazione, tale condotta darebbe vita ad un’ipotesi di tentativo di rapina impropria. Questa impostazione si basa su una lettura logico – sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma 2, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare la forma tentata del reato in questione. Infatti, il delitto di rapina, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, allorché un tentativo di rapina sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e, quindi, un tentativo di rapina impropria. Sotto il profilo della ratio della norma, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio, posto in essere con violenza o minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che, pur sempre usando violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà. L’orientamento minoritario, invece, ritiene che in tal caso non sia ipotizzabile il tentativo di rapina, poiché manca il presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa. Nel caso in cui l’agente non sia riuscito ad effettuare la sottrazione della cosa e successivamente abbia utilizzato minaccia e violenza per fuggire o procurarsi l’impunità si configurano due reati differenti: un tentativo di furto e un autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Tale orientamento si basa principalmente su un’interpretazione letterale dell’art. 628 c.p.; la rapina impropria presuppone la sottrazione della cosa altrui cosa non avvenuta nel caso di specie. Pertanto, non avendo l’agente sottratto la cosa e avendo usato solo successivamente la violenza o la minaccia per procurarsi l’impunibilità, si configura un tentativo di furto in concorso con un altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Analizzati i due orientamenti giurisprudenziali, le Sezioni Unite penali ritengono di non ravvisare argomentazioni idonee a superare l’orientamento maggioritario. Secondo le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” prevista dall’art. 628, co. 2 c.p., intendeva stabilire un nesso causale tra la condotta di aggressione al patrimonio e quella di aggressione alla persona, senza precisare se si tratta di condotte consumate o solo tentate. Quindi, se la rapina impropria costituisce un reato composto, risultante dalla fusione di due reati, la stessa unificazione vale anche nel caso del tentativo di rapina impropria. Inoltre le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione evidenziano che, nell’art. 628, co. 2 c.p., la finalità di assicurarsi il possesso è posta in alternativa a quella di procurarsi l’impunità; quest’ultima finalità, dunque, può sussistere anche senza previa sottrazione della cosa altrui. Sulla base di tali argomentazioni e sulla base di una giurisprudenza consolidata, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione affermano che è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità. Nella fattispecie in esame, essendo il tentativo di rapina impropria il frutto di una giurisprudenza granitica, non vi è la violazione del principio di prevedibilità della responsabilità penale. Di conseguenza, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno chiarito che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 CEDU.
A livello nazionale non vi è una norma che prevede il principio di prevedibilità, ma può trovare fondamento in altre norme. Strette connessioni sussistono in primo luogo con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.; in secondo luogo, con suoi i corollari, quali il principio di riserva di legge, tassatività, precisione e determinatezza. Quindi, non è sufficiente che una norma incriminatrice sia prevista per legge, occorrendo, nel contempo, che questa legge sia formulata in maniera chiara e precisa. Tanto più è delineata la fattispecie incriminatrice, riducendo i margini di apprezzamento del giudice, tanto maggiore sarà la prevedibilità delle conseguenze da parte del singolo. Anche la funzione rieducativa della pena, ex art. 27 comma 3, Cost., presuppone un dato legislativo chiaro e prevedibile per esercitare la sua forza. Ancora, il principio di legalità costituisce un inevitabile corollario del principio di colpevolezza così come elaborato nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, dove viene sottolineato che il reo deve essere messo in condizioni di prevedere le conseguenze sanzionatorie del proprio comportamento per autodeterminarsi in maniera consapevole. Il principio di certezza del diritto può anche fungere da fattore ostativo all’efficacia retroattiva del diritto penale. La ratio di tale principio è preservare la libertà personale dei consociati, impedendo al potere legislativo di punire comportamenti che, al momento in cui sono stati posti in essere, non costituivano reato. Pertanto, è volto a tutelare la libertà di autodeterminazione del privato, assicurandogli la piena ed effettiva conoscenza delle conseguenze dei propri comportamenti. Ponendo a confronto l’art. 7 CEDU e l’art. 25, comma secondo, Cost., emerge un contenuto analogo, ma anche delle diversità. Elementi di differenziazione sono la esplicita previsione nel diritto CEDU di una riserva di diritto e non di una riserva di legge e, altresì, il riferimento al diritto internazionale. La CEDU ha evidenziato come la nozione di diritto prevista nell’art. 7 CEDU non ha una valenza ristretta, cioè riferita al solo diritto penale, ma, al contrario, ha una valenza talmente ampia da ricomprendere tanto la legge scritta quanto la giurisprudenza. Se, quindi, nel nostro sistema la fonte legislativa del precetto penale e della sanzione è l’unica garanzia per il cittadino, l’art. 7 CEDU non assegna nessuna rilevanza alla legge. Il sistema convenzionale pone la sua attenzione sulla qualità della previsione, la quale deve essere accessibile per il destinatario e anche prevedibile, cioè capace di consentirgli di intuire le conseguenze giuridiche della propria condotta. Essendo in tale sistema ammesso il diritto di formazione giurisprudenziale, il canone della prevedibilità viene rispettato sia se il precetto e la sanzione penale siano previsti da una legge, sia se siano il frutto del lavoro della giurisprudenza. Si coglie, dunque, il conflitto con il principio di legalità nazionale e il suo corollario, la riserva di legge, che attribuisce le scelte di incriminazione e le scelte sanzionatorie esclusivamente al potere legislativo. Tale diversa configurazione del principio di legalità emerge nella sentenza Contrada c. Italia, dove la CEDU ha censurato l’Italia proprio per la violazione del principio di legalità e dei suoi corollari di irretroattività e tassatività. La Corte era stata investita del compito di valutare se, all’epoca dei fatti, il concorso esterno in associazione mafiosa fosse chiaro, prevedibile e basato su una previsione legale. Nella sentenza in esame la Corte EDU non censura la circostanza che tale incriminazione sia una fattispecie di creazione giurisprudenziale, proprio perché la legalità convenzionale ben ammette la giurisprudenza come possibile fonte di incriminazione, bensì critica il fatto che la condanna per tale fattispecie fosse stata emessa nei confronti del Contrada in violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Nonostante l’evidenza di tale distinzione tra la dimensione interna e quella convenzionale del principio di legalità, la valenza più ampia che sta assumendo il principio di legalità nel nostro ordinamento emerge, così come previsto dall’art. 7 CEDU, nella sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione n. 34952/2012 sul tentativo di rapina improprio. Queste Sezioni Unite, basando la loro decisione su una giurisprudenza affermatasi nel tempo, hanno avuto modo di precisare che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della CEDU. Infatti, la giurisprudenza consolidatasi sulla fattispecie del tentativo di rapina impropria ha assunto un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale, poiché ha assicurato la prevedibilità ed accessibilità del risultato interpretativo, in virtù anche delle poche sentenze difformi sulla questione. In particolare, le Sezioni Unite nella sentenza in esame risolvono una questione di diritto avente ad oggetto la condotta di chi, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. Si discute se in tal caso sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ovvero il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia. Sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario e consolidato della Cassazione, tale condotta darebbe vita ad un’ipotesi di tentativo di rapina impropria. Questa impostazione si basa su una lettura logico – sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma 2, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare la forma tentata del reato in questione. Infatti, il delitto di rapina, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, allorché un tentativo di rapina sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e, quindi, un tentativo di rapina impropria. Sotto il profilo della ratio della norma, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio, posto in essere con violenza o minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che, pur sempre usando violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà. L’orientamento minoritario, invece, ritiene che in tal caso non sia ipotizzabile il tentativo di rapina, poiché manca il presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa. Nel caso in cui l’agente non sia riuscito ad effettuare la sottrazione della cosa e successivamente abbia utilizzato minaccia e violenza per fuggire o procurarsi l’impunità si configurano due reati differenti: un tentativo di furto e un autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Tale orientamento si basa principalmente su un’interpretazione letterale dell’art. 628 c.p.; la rapina impropria presuppone la sottrazione della cosa altrui cosa non avvenuta nel caso di specie. Pertanto, non avendo l’agente sottratto la cosa e avendo usato solo successivamente la violenza o la minaccia per procurarsi l’impunibilità, si configura un tentativo di furto in concorso con un altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Analizzati i due orientamenti giurisprudenziali, le Sezioni Unite penali ritengono di non ravvisare argomentazioni idonee a superare l’orientamento maggioritario. Secondo le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” prevista dall’art. 628, co. 2 c.p., intendeva stabilire un nesso causale tra la condotta di aggressione al patrimonio e quella di aggressione alla persona, senza precisare se si tratta di condotte consumate o solo tentate. Quindi, se la rapina impropria costituisce un reato composto, risultante dalla fusione di due reati, la stessa unificazione vale anche nel caso del tentativo di rapina impropria. Inoltre le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione evidenziano che, nell’art. 628, co. 2 c.p., la finalità di assicurarsi il possesso è posta in alternativa a quella di procurarsi l’impunità; quest’ultima finalità, dunque, può sussistere anche senza previa sottrazione della cosa altrui. Sulla base di tali argomentazioni e sulla base di una giurisprudenza consolidata, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione affermano che è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità. Nella fattispecie in esame, essendo il tentativo di rapina impropria il frutto di una giurisprudenza granitica, non vi è la violazione del principio di prevedibilità della responsabilità penale. Di conseguenza, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno chiarito che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 CEDU.
La prevedibilità della responsabilità penale e il tentativo di rapina impropria
Articolo a cura della Dott.ssa Eleonora Vignola
Il principio di prevedibilità della responsabilità penale è previsto dall’art. 7 CEDU ed, a seguito sia degli interventi della giurisprudenza convenzionale sia della giurisprudenza interna, ha acquisito una progressiva rilevanza nell’ordinamento nazionale.
A livello nazionale non vi è una norma che prevede il principio di prevedibilità, ma può trovare fondamento in altre norme.
Strette connessioni sussistono in primo luogo con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.; in secondo luogo, con suoi i corollari, quali il principio di riserva di legge, tassatività, precisione e determinatezza. Quindi, non è sufficiente che una norma incriminatrice sia prevista per legge, occorrendo, nel contempo, che questa legge sia formulata in maniera chiara e precisa. Tanto più è delineata la fattispecie incriminatrice, riducendo i margini di apprezzamento del giudice, tanto maggiore sarà la prevedibilità delle conseguenze da parte del singolo.
Anche la funzione rieducativa della pena, ex art. 27 comma 3, Cost., presuppone un dato legislativo chiaro e prevedibile per esercitare la sua forza.
Ancora, il principio di legalità costituisce un inevitabile corollario del principio di colpevolezza così come elaborato nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, dove viene sottolineato che il reo deve essere messo in condizioni di prevedere le conseguenze sanzionatorie del proprio comportamento per autodeterminarsi in maniera consapevole.
Il principio di certezza del diritto può anche fungere da fattore ostativo all’efficacia retroattiva del diritto penale. La ratio di tale principio è preservare la libertà personale dei consociati, impedendo al potere legislativo di punire comportamenti che, al momento in cui sono stati posti in essere, non costituivano reato. Pertanto, è volto a tutelare la libertà di autodeterminazione del privato, assicurandogli la piena ed effettiva conoscenza delle conseguenze dei propri comportamenti.
Ponendo a confronto l’art. 7 CEDU e l’art. 25, comma secondo, Cost., emerge un contenuto analogo, ma anche delle diversità. Elementi di differenziazione sono la esplicita previsione nel diritto CEDU di una riserva di diritto e non di una riserva di legge e, altresì, il riferimento al diritto internazionale.
La CEDU ha evidenziato come la nozione di diritto prevista nell’art. 7 CEDU non ha una valenza ristretta, cioè riferita al solo diritto penale, ma, al contrario, ha una valenza talmente ampia da ricomprendere tanto la legge scritta quanto la giurisprudenza.
Se, quindi, nel nostro sistema la fonte legislativa del precetto penale e della sanzione è l’unica garanzia per il cittadino, l’art. 7 CEDU non assegna nessuna rilevanza alla legge. Il sistema convenzionale pone la sua attenzione sulla qualità della previsione, la quale deve essere accessibile per il destinatario e anche prevedibile, cioè capace di consentirgli di intuire le conseguenze giuridiche della propria condotta.
Essendo in tale sistema ammesso il diritto di formazione giurisprudenziale, il canone della prevedibilità viene rispettato sia se il precetto e la sanzione penale siano previsti da una legge, sia se siano il frutto del lavoro della giurisprudenza.
Si coglie, dunque, il conflitto con il principio di legalità nazionale e il suo corollario, la riserva di legge, che attribuisce le scelte di incriminazione e le scelte sanzionatorie esclusivamente al potere legislativo.
Tale diversa configurazione del principio di legalità emerge nella sentenza Contrada c. Italia, dove la CEDU ha censurato l’Italia proprio per la violazione del principio di legalità e dei suoi corollari di irretroattività e tassatività.
La Corte era stata investita del compito di valutare se, all’epoca dei fatti, il concorso esterno in associazione mafiosa fosse chiaro, prevedibile e basato su una previsione legale.
Nella sentenza in esame la Corte EDU non censura la circostanza che tale incriminazione sia una fattispecie di creazione giurisprudenziale, proprio perché la legalità convenzionale ben ammette la giurisprudenza come possibile fonte di incriminazione, bensì critica il fatto che la condanna per tale fattispecie fosse stata emessa nei confronti del Contrada in violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
Nonostante l’evidenza di tale distinzione tra la dimensione interna e quella convenzionale del principio di legalità, la valenza più ampia che sta assumendo il principio di legalità nel nostro ordinamento emerge, così come previsto dall’art. 7 CEDU, nella sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione n. 34952/2012 sul tentativo di rapina improprio. Queste Sezioni Unite, basando la loro decisione su una giurisprudenza affermatasi nel tempo, hanno avuto modo di precisare che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della CEDU.
Infatti, la giurisprudenza consolidatasi sulla fattispecie del tentativo di rapina impropria ha assunto un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale, poiché ha assicurato la prevedibilità ed accessibilità del risultato interpretativo, in virtù anche delle poche sentenze difformi sulla questione.
In particolare, le Sezioni Unite nella sentenza in esame risolvono una questione di diritto avente ad oggetto la condotta di chi, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. Si discute se in tal caso sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ovvero il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia.
Sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario e consolidato della Cassazione, tale condotta darebbe vita ad un’ipotesi di tentativo di rapina impropria. Questa impostazione si basa su una lettura logico – sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma 2, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare la forma tentata del reato in questione. Infatti, il delitto di rapina, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, allorché un tentativo di rapina sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e, quindi, un tentativo di rapina impropria.
Sotto il profilo della ratio della norma, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio, posto in essere con violenza o minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che, pur sempre usando violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
L’orientamento minoritario, invece, ritiene che in tal caso non sia ipotizzabile il tentativo di rapina, poiché manca il presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa. Nel caso in cui l’agente non sia riuscito ad effettuare la sottrazione della cosa e successivamente abbia utilizzato minaccia e violenza per fuggire o procurarsi l’impunità si configurano due reati differenti: un tentativo di furto e un autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Tale orientamento si basa principalmente su un’interpretazione letterale dell’art. 628 c.p.; la rapina impropria presuppone la sottrazione della cosa altrui cosa non avvenuta nel caso di specie. Pertanto, non avendo l’agente sottratto la cosa e avendo usato solo successivamente la violenza o la minaccia per procurarsi l’impunibilità, si configura un tentativo di furto in concorso con un altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Analizzati i due orientamenti giurisprudenziali, le Sezioni Unite penali ritengono di non ravvisare argomentazioni idonee a superare l’orientamento maggioritario.
Secondo le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” prevista dall’art. 628, co. 2 c.p., intendeva stabilire un nesso causale tra la condotta di aggressione al patrimonio e quella di aggressione alla persona, senza precisare se si tratta di condotte consumate o solo tentate. Quindi, se la rapina impropria costituisce un reato composto, risultante dalla fusione di due reati, la stessa unificazione vale anche nel caso del tentativo di rapina impropria.
Inoltre le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione evidenziano che, nell’art. 628, co. 2 c.p., la finalità di assicurarsi il possesso è posta in alternativa a quella di procurarsi l’impunità; quest’ultima finalità, dunque, può sussistere anche senza previa sottrazione della cosa altrui.
Sulla base di tali argomentazioni e sulla base di una giurisprudenza consolidata, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione affermano che è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Nella fattispecie in esame, essendo il tentativo di rapina impropria il frutto di una giurisprudenza granitica, non vi è la violazione del principio di prevedibilità della responsabilità penale. Di conseguenza, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno chiarito che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 CEDU.
A livello nazionale non vi è una norma che prevede il principio di prevedibilità, ma può trovare fondamento in altre norme.
Strette connessioni sussistono in primo luogo con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.; in secondo luogo, con suoi i corollari, quali il principio di riserva di legge, tassatività, precisione e determinatezza. Quindi, non è sufficiente che una norma incriminatrice sia prevista per legge, occorrendo, nel contempo, che questa legge sia formulata in maniera chiara e precisa. Tanto più è delineata la fattispecie incriminatrice, riducendo i margini di apprezzamento del giudice, tanto maggiore sarà la prevedibilità delle conseguenze da parte del singolo.
Anche la funzione rieducativa della pena, ex art. 27 comma 3, Cost., presuppone un dato legislativo chiaro e prevedibile per esercitare la sua forza.
Ancora, il principio di legalità costituisce un inevitabile corollario del principio di colpevolezza così come elaborato nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, dove viene sottolineato che il reo deve essere messo in condizioni di prevedere le conseguenze sanzionatorie del proprio comportamento per autodeterminarsi in maniera consapevole.
Il principio di certezza del diritto può anche fungere da fattore ostativo all’efficacia retroattiva del diritto penale. La ratio di tale principio è preservare la libertà personale dei consociati, impedendo al potere legislativo di punire comportamenti che, al momento in cui sono stati posti in essere, non costituivano reato. Pertanto, è volto a tutelare la libertà di autodeterminazione del privato, assicurandogli la piena ed effettiva conoscenza delle conseguenze dei propri comportamenti.
Ponendo a confronto l’art. 7 CEDU e l’art. 25, comma secondo, Cost., emerge un contenuto analogo, ma anche delle diversità. Elementi di differenziazione sono la esplicita previsione nel diritto CEDU di una riserva di diritto e non di una riserva di legge e, altresì, il riferimento al diritto internazionale.
La CEDU ha evidenziato come la nozione di diritto prevista nell’art. 7 CEDU non ha una valenza ristretta, cioè riferita al solo diritto penale, ma, al contrario, ha una valenza talmente ampia da ricomprendere tanto la legge scritta quanto la giurisprudenza.
Se, quindi, nel nostro sistema la fonte legislativa del precetto penale e della sanzione è l’unica garanzia per il cittadino, l’art. 7 CEDU non assegna nessuna rilevanza alla legge. Il sistema convenzionale pone la sua attenzione sulla qualità della previsione, la quale deve essere accessibile per il destinatario e anche prevedibile, cioè capace di consentirgli di intuire le conseguenze giuridiche della propria condotta.
Essendo in tale sistema ammesso il diritto di formazione giurisprudenziale, il canone della prevedibilità viene rispettato sia se il precetto e la sanzione penale siano previsti da una legge, sia se siano il frutto del lavoro della giurisprudenza.
Si coglie, dunque, il conflitto con il principio di legalità nazionale e il suo corollario, la riserva di legge, che attribuisce le scelte di incriminazione e le scelte sanzionatorie esclusivamente al potere legislativo.
Tale diversa configurazione del principio di legalità emerge nella sentenza Contrada c. Italia, dove la CEDU ha censurato l’Italia proprio per la violazione del principio di legalità e dei suoi corollari di irretroattività e tassatività.
La Corte era stata investita del compito di valutare se, all’epoca dei fatti, il concorso esterno in associazione mafiosa fosse chiaro, prevedibile e basato su una previsione legale.
Nella sentenza in esame la Corte EDU non censura la circostanza che tale incriminazione sia una fattispecie di creazione giurisprudenziale, proprio perché la legalità convenzionale ben ammette la giurisprudenza come possibile fonte di incriminazione, bensì critica il fatto che la condanna per tale fattispecie fosse stata emessa nei confronti del Contrada in violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
Nonostante l’evidenza di tale distinzione tra la dimensione interna e quella convenzionale del principio di legalità, la valenza più ampia che sta assumendo il principio di legalità nel nostro ordinamento emerge, così come previsto dall’art. 7 CEDU, nella sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione n. 34952/2012 sul tentativo di rapina improprio. Queste Sezioni Unite, basando la loro decisione su una giurisprudenza affermatasi nel tempo, hanno avuto modo di precisare che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della CEDU.
Infatti, la giurisprudenza consolidatasi sulla fattispecie del tentativo di rapina impropria ha assunto un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale, poiché ha assicurato la prevedibilità ed accessibilità del risultato interpretativo, in virtù anche delle poche sentenze difformi sulla questione.
In particolare, le Sezioni Unite nella sentenza in esame risolvono una questione di diritto avente ad oggetto la condotta di chi, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. Si discute se in tal caso sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ovvero il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia.
Sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario e consolidato della Cassazione, tale condotta darebbe vita ad un’ipotesi di tentativo di rapina impropria. Questa impostazione si basa su una lettura logico – sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma 2, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare la forma tentata del reato in questione. Infatti, il delitto di rapina, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, allorché un tentativo di rapina sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e, quindi, un tentativo di rapina impropria.
Sotto il profilo della ratio della norma, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio, posto in essere con violenza o minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che, pur sempre usando violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
L’orientamento minoritario, invece, ritiene che in tal caso non sia ipotizzabile il tentativo di rapina, poiché manca il presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa. Nel caso in cui l’agente non sia riuscito ad effettuare la sottrazione della cosa e successivamente abbia utilizzato minaccia e violenza per fuggire o procurarsi l’impunità si configurano due reati differenti: un tentativo di furto e un autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Tale orientamento si basa principalmente su un’interpretazione letterale dell’art. 628 c.p.; la rapina impropria presuppone la sottrazione della cosa altrui cosa non avvenuta nel caso di specie. Pertanto, non avendo l’agente sottratto la cosa e avendo usato solo successivamente la violenza o la minaccia per procurarsi l’impunibilità, si configura un tentativo di furto in concorso con un altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Analizzati i due orientamenti giurisprudenziali, le Sezioni Unite penali ritengono di non ravvisare argomentazioni idonee a superare l’orientamento maggioritario.
Secondo le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” prevista dall’art. 628, co. 2 c.p., intendeva stabilire un nesso causale tra la condotta di aggressione al patrimonio e quella di aggressione alla persona, senza precisare se si tratta di condotte consumate o solo tentate. Quindi, se la rapina impropria costituisce un reato composto, risultante dalla fusione di due reati, la stessa unificazione vale anche nel caso del tentativo di rapina impropria.
Inoltre le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione evidenziano che, nell’art. 628, co. 2 c.p., la finalità di assicurarsi il possesso è posta in alternativa a quella di procurarsi l’impunità; quest’ultima finalità, dunque, può sussistere anche senza previa sottrazione della cosa altrui.
Sulla base di tali argomentazioni e sulla base di una giurisprudenza consolidata, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione affermano che è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Nella fattispecie in esame, essendo il tentativo di rapina impropria il frutto di una giurisprudenza granitica, non vi è la violazione del principio di prevedibilità della responsabilità penale. Di conseguenza, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno chiarito che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 CEDU.
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