1. Svolgimento del processo
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di due fratelli, ritenendo i predetti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
Avverso la predetta ordinanza custodiale, gli indagati interponevano ricorso al Tribunale del Riesame, ex art. 309 c.p.p.
Con ordinanza in data 13/08/2020, il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del riesame, respingeva le istanze ex art. 309 c.p.p., confermando la misura carceraria a carico dei due ricorrenti, i quali, però, impugnavano il predetto provvedimento davanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Prima Sezione Penale della Suprema Corte rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.
2. L’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria
Il Tribunale reggino evidenziava che le indagini avevano permesso di accertare l’esistenza, nel territorio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, di un’articolazione di ‘ndrangheta che esercitava il metodo mafioso, mantenendo contatti con i sodalizi presenti nelle aree geografiche limitrofe, controllando e gestendo attività economiche e appalti.
La vicenda fattuale si snoda lungo tutta una serie di questioni, sorte in seno alla consorteria, relative a dissidi interni in merito alle nuove affiliazioni (“battesimi”), caldeggiate da alcuni esponenti e aspramente contrastate da altri.
In questo contesto si pone l’affiliazione dei due indagati. Il Tribunale calabrese riteneva, infatti, che dalle intercettazioni telefoniche risultava chiaro che i due giovani fossero stati affiliati e, pertanto, sulla base di quel solco giurisprudenziale secondo cui, ai fini della partecipazione ad un’associazione mafiosa, è sufficiente il rito di affiliazione, la c.d. “messa a disposizione”, confermava la misura cautelare, ritenendo la mera affiliazione sufficiente a configurare la partecipazione ad un’associazione mafiosa, in quanto, questa, di per sé, è idonea a rafforzare il vincolo associativo e il proposito criminosi dei sodali.
3. Il ricorso per Cassazione
L’ordinanza del Tribunale del Riesame veniva impugnata nanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Difesa sosteneva che la condotta degli indagati non era sufficiente ad essere qualificata alla stregua di una partecipazione all’associazione criminale, poiché il fatto contestato non era idoneo a costituire condotta “associativa”, osservando, inoltre, che la giurisprudenza di legittimità ritiene insufficiente la mera “affiliazione rituale”, essendo necessari “concreti indici fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto con ruolo attivo nel sodalizio” (ex multis, Sez. 5, n. 38786 del 23/05/2017, De Caro, Rv. 271205-01) ovvero di “un qualsivoglia apporto alla vita dell’associazione, tale da far ritenere concretamente avvenuto il suo inserimento con i caratteri della stabilità e della piena consapevolezza”.
4. L’ordinanza della Corte di Cassazione
Con ordinanza del 28 gennaio 2021, la Prima Sezione penale ravvisava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alle due opposte tesi interpretative secondo le quali, rispettivamente, ai fini del riconoscimento della partecipazione ad un’associazione mafiosa è sufficiente la mera affiliazione e quella secondo la quale è, invece, necessario un quid pluris, consistente in atti concreti e specifici del ruolo svolto dall’indagato.
Con provvedimento in data 10 febbraio 2021, il Primo Presidente Aggiunto assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali.
5. Decisione a Sezioni Unite e motivi della decisione
La questione di diritto oggetto della rimessione alle Sezioni Unite è la seguente: “se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato“.
La Corte premette che il problema interpretativo si presenta laddove il compendio probatorio dimostri solo il compimento di meri formalismi rituali e non un contributo causale.
La necessità è quella di trovare un giusto equilibrio tra le due posizioni: evitare di applicare la fattispecie associativa ai casi di mera adesione morale a contesti malavitosi, salvaguardando l’esigenza di non lasciare impunite forme di condotta di particolare allarme sociale.
La sentenza risulta particolarmente significativa in quanto offre lo sforzo di individuare le condotte penalmente rilevanti al fine di inquadrare la fattispecie mafiosa.
La sentenza compie una lunga dissertazione sul reato di cui all’art. 416 bis c.p., che spazia dai lavori preparatori alla stesura della norma, alla definizione della tipologia del reato, se di danno o di pericolo. Viene effettuato un lungo excursus storico delle diverse decisioni di legittimità che, dalla sentenza “Demitry” (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994) alla “Mannino” (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, poi ripresa dalle Sezioni Unite, sent. n. 33748 del 12/07/2005) in avanti, si sono occupate della ricostruzione, in termini esegetici, della qualificazione del concetto di partecipazione alle associazioni mafiose. Quest’ultimo provvedimento risulta importante in quanto ripreso dalla sentenza qui analizzata, secondo cui occorre riprendere, mantenendola ferma, la conclusione cui sono giunte le Sezioni Unite “Mannino”, in virtù della quale va considerato partecipe dell’organizzazione criminale l’affiliato che “prende parte” attiva al fenomeno associativo.
Argomenti in relazione ai quali, in questa sede, non si può che rinviare alla lettura integrale del testo.
Sostiene, quindi, il Supremo Collegio che la partecipazione, più che dalla causalità del comportamento, vada provata dalla rilevanza dello stesso e che, quindi, anche l’adesione mediante l’affiliazione con il rito di ingresso può essere probatoriamente sconfessata da fatti concreti di segno contrario, quali, ad esempio, la disobbedienza o l’allontanamento: “non è possibile ritenere che il possesso di una “dote” equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo: scorciatoie probatorie che facciano leva su ragionamenti meramente presuntivi e deduttivi non possono certo essere utilizzati allo scopo”.
Sulla base di quanto sin qui esposto, la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
“La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.
“Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione“.
Sulla base di tali motivazioni la Corte di Cassazione annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per una nuova valutazione.
6. Conclusioni
Il provvedimento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite segna una svolta interpretativa di estrema rilevanza.
Il mero rito di affiliazione, infatti, e quindi una mera adesione morale al vincolo associativo, di per sé, non è sufficiente ad una condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., in assenza di ulteriori elementi probatori che confermino l’organica, effettiva, concreta e stabile partecipazione dell’affiliato alla vita criminale del gruppo.
Sarà interessante verificare come la giurisprudenza di merito si adeguerà alla nuova visione del Giudice di nomofilachia.
Cassazione penale, Sez. Unite, Sentenza n. 36958 (data ud. 27/05/2021) 11/10/2021 – Associazioni mafiose di cui all’art. 416 bis c.p.
La mera affiliazione non è sufficiente a dimostrare la partecipazione alla consorteria criminale.
Con l’evolversi della c.d. mafie storiche e la loro trasformazione da centri di aggregazione rurale a grandi holding del business, il tema della partecipazione alle associazioni di stampo mafioso è sempre più sentito ed attuale.
La sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 36958 del 27 maggio 2021 interviene sul delicatissimo tema della valutazione delle condotte rivelatrici della partecipazione alle consorterie criminali.
Indice
1. Svolgimento del processo
2. L’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria
3. Il ricorso per Cassazione
4. L’ordinanza della Corte di Cassazione
5. Decisione a Sezioni Unite e motivi della decisione
6. Conclusioni
1. Svolgimento del processo
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di due fratelli, ritenendo i predetti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
Avverso la predetta ordinanza custodiale, gli indagati interponevano ricorso al Tribunale del Riesame, ex art. 309 c.p.p.
Con ordinanza in data 13/08/2020, il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del riesame, respingeva le istanze ex art. 309 c.p.p., confermando la misura carceraria a carico dei due ricorrenti, i quali, però, impugnavano il predetto provvedimento davanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Prima Sezione Penale della Suprema Corte rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.
2. L’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria
Il Tribunale reggino evidenziava che le indagini avevano permesso di accertare l’esistenza, nel territorio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, di un’articolazione di ‘ndrangheta che esercitava il metodo mafioso, mantenendo contatti con i sodalizi presenti nelle aree geografiche limitrofe, controllando e gestendo attività economiche e appalti.
La vicenda fattuale si snoda lungo tutta una serie di questioni, sorte in seno alla consorteria, relative a dissidi interni in merito alle nuove affiliazioni (“battesimi”), caldeggiate da alcuni esponenti e aspramente contrastate da altri.
In questo contesto si pone l’affiliazione dei due indagati. Il Tribunale calabrese riteneva, infatti, che dalle intercettazioni telefoniche risultava chiaro che i due giovani fossero stati affiliati e, pertanto, sulla base di quel solco giurisprudenziale secondo cui, ai fini della partecipazione ad un’associazione mafiosa, è sufficiente il rito di affiliazione, la c.d. “messa a disposizione”, confermava la misura cautelare, ritenendo la mera affiliazione sufficiente a configurare la partecipazione ad un’associazione mafiosa, in quanto, questa, di per sé, è idonea a rafforzare il vincolo associativo e il proposito criminosi dei sodali.
3. Il ricorso per Cassazione
L’ordinanza del Tribunale del Riesame veniva impugnata nanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Difesa sosteneva che la condotta degli indagati non era sufficiente ad essere qualificata alla stregua di una partecipazione all’associazione criminale, poiché il fatto contestato non era idoneo a costituire condotta “associativa”, osservando, inoltre, che la giurisprudenza di legittimità ritiene insufficiente la mera “affiliazione rituale”, essendo necessari “concreti indici fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto con ruolo attivo nel sodalizio” (ex multis, Sez. 5, n. 38786 del 23/05/2017, De Caro, Rv. 271205-01) ovvero di “un qualsivoglia apporto alla vita dell’associazione, tale da far ritenere concretamente avvenuto il suo inserimento con i caratteri della stabilità e della piena consapevolezza”.
4. L’ordinanza della Corte di Cassazione
Con ordinanza del 28 gennaio 2021, la Prima Sezione penale ravvisava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alle due opposte tesi interpretative secondo le quali, rispettivamente, ai fini del riconoscimento della partecipazione ad un’associazione mafiosa è sufficiente la mera affiliazione e quella secondo la quale è, invece, necessario un quid pluris, consistente in atti concreti e specifici del ruolo svolto dall’indagato.
Con provvedimento in data 10 febbraio 2021, il Primo Presidente Aggiunto assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali.
5. Decisione a Sezioni Unite e motivi della decisione
La questione di diritto oggetto della rimessione alle Sezioni Unite è la seguente: “se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato“.
La Corte premette che il problema interpretativo si presenta laddove il compendio probatorio dimostri solo il compimento di meri formalismi rituali e non un contributo causale.
La necessità è quella di trovare un giusto equilibrio tra le due posizioni: evitare di applicare la fattispecie associativa ai casi di mera adesione morale a contesti malavitosi, salvaguardando l’esigenza di non lasciare impunite forme di condotta di particolare allarme sociale.
La sentenza risulta particolarmente significativa in quanto offre lo sforzo di individuare le condotte penalmente rilevanti al fine di inquadrare la fattispecie mafiosa.
La sentenza compie una lunga dissertazione sul reato di cui all’art. 416 bis c.p., che spazia dai lavori preparatori alla stesura della norma, alla definizione della tipologia del reato, se di danno o di pericolo. Viene effettuato un lungo excursus storico delle diverse decisioni di legittimità che, dalla sentenza “Demitry” (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994) alla “Mannino” (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, poi ripresa dalle Sezioni Unite, sent. n. 33748 del 12/07/2005) in avanti, si sono occupate della ricostruzione, in termini esegetici, della qualificazione del concetto di partecipazione alle associazioni mafiose. Quest’ultimo provvedimento risulta importante in quanto ripreso dalla sentenza qui analizzata, secondo cui occorre riprendere, mantenendola ferma, la conclusione cui sono giunte le Sezioni Unite “Mannino”, in virtù della quale va considerato partecipe dell’organizzazione criminale l’affiliato che “prende parte” attiva al fenomeno associativo.
Argomenti in relazione ai quali, in questa sede, non si può che rinviare alla lettura integrale del testo.
Sostiene, quindi, il Supremo Collegio che la partecipazione, più che dalla causalità del comportamento, vada provata dalla rilevanza dello stesso e che, quindi, anche l’adesione mediante l’affiliazione con il rito di ingresso può essere probatoriamente sconfessata da fatti concreti di segno contrario, quali, ad esempio, la disobbedienza o l’allontanamento: “non è possibile ritenere che il possesso di una “dote” equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo: scorciatoie probatorie che facciano leva su ragionamenti meramente presuntivi e deduttivi non possono certo essere utilizzati allo scopo”.
Sulla base di quanto sin qui esposto, la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
“La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.
“Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione“.
Sulla base di tali motivazioni la Corte di Cassazione annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per una nuova valutazione.
6. Conclusioni
Il provvedimento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite segna una svolta interpretativa di estrema rilevanza.
Il mero rito di affiliazione, infatti, e quindi una mera adesione morale al vincolo associativo, di per sé, non è sufficiente ad una condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., in assenza di ulteriori elementi probatori che confermino l’organica, effettiva, concreta e stabile partecipazione dell’affiliato alla vita criminale del gruppo.
Sarà interessante verificare come la giurisprudenza di merito si adeguerà alla nuova visione del Giudice di nomofilachia.
1. Svolgimento del processo
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di due fratelli, ritenendo i predetti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
Avverso la predetta ordinanza custodiale, gli indagati interponevano ricorso al Tribunale del Riesame, ex art. 309 c.p.p.
Con ordinanza in data 13/08/2020, il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del riesame, respingeva le istanze ex art. 309 c.p.p., confermando la misura carceraria a carico dei due ricorrenti, i quali, però, impugnavano il predetto provvedimento davanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Prima Sezione Penale della Suprema Corte rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.
2. L’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria
Il Tribunale reggino evidenziava che le indagini avevano permesso di accertare l’esistenza, nel territorio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, di un’articolazione di ‘ndrangheta che esercitava il metodo mafioso, mantenendo contatti con i sodalizi presenti nelle aree geografiche limitrofe, controllando e gestendo attività economiche e appalti.
La vicenda fattuale si snoda lungo tutta una serie di questioni, sorte in seno alla consorteria, relative a dissidi interni in merito alle nuove affiliazioni (“battesimi”), caldeggiate da alcuni esponenti e aspramente contrastate da altri.
In questo contesto si pone l’affiliazione dei due indagati. Il Tribunale calabrese riteneva, infatti, che dalle intercettazioni telefoniche risultava chiaro che i due giovani fossero stati affiliati e, pertanto, sulla base di quel solco giurisprudenziale secondo cui, ai fini della partecipazione ad un’associazione mafiosa, è sufficiente il rito di affiliazione, la c.d. “messa a disposizione”, confermava la misura cautelare, ritenendo la mera affiliazione sufficiente a configurare la partecipazione ad un’associazione mafiosa, in quanto, questa, di per sé, è idonea a rafforzare il vincolo associativo e il proposito criminosi dei sodali.
3. Il ricorso per Cassazione
L’ordinanza del Tribunale del Riesame veniva impugnata nanti la Suprema Corte di Cassazione.
La Difesa sosteneva che la condotta degli indagati non era sufficiente ad essere qualificata alla stregua di una partecipazione all’associazione criminale, poiché il fatto contestato non era idoneo a costituire condotta “associativa”, osservando, inoltre, che la giurisprudenza di legittimità ritiene insufficiente la mera “affiliazione rituale”, essendo necessari “concreti indici fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto con ruolo attivo nel sodalizio” (ex multis, Sez. 5, n. 38786 del 23/05/2017, De Caro, Rv. 271205-01) ovvero di “un qualsivoglia apporto alla vita dell’associazione, tale da far ritenere concretamente avvenuto il suo inserimento con i caratteri della stabilità e della piena consapevolezza”.
4. L’ordinanza della Corte di Cassazione
Con ordinanza del 28 gennaio 2021, la Prima Sezione penale ravvisava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alle due opposte tesi interpretative secondo le quali, rispettivamente, ai fini del riconoscimento della partecipazione ad un’associazione mafiosa è sufficiente la mera affiliazione e quella secondo la quale è, invece, necessario un quid pluris, consistente in atti concreti e specifici del ruolo svolto dall’indagato.
Con provvedimento in data 10 febbraio 2021, il Primo Presidente Aggiunto assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali.
5. Decisione a Sezioni Unite e motivi della decisione
La questione di diritto oggetto della rimessione alle Sezioni Unite è la seguente: “se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato“.
La Corte premette che il problema interpretativo si presenta laddove il compendio probatorio dimostri solo il compimento di meri formalismi rituali e non un contributo causale.
La necessità è quella di trovare un giusto equilibrio tra le due posizioni: evitare di applicare la fattispecie associativa ai casi di mera adesione morale a contesti malavitosi, salvaguardando l’esigenza di non lasciare impunite forme di condotta di particolare allarme sociale.
La sentenza risulta particolarmente significativa in quanto offre lo sforzo di individuare le condotte penalmente rilevanti al fine di inquadrare la fattispecie mafiosa.
La sentenza compie una lunga dissertazione sul reato di cui all’art. 416 bis c.p., che spazia dai lavori preparatori alla stesura della norma, alla definizione della tipologia del reato, se di danno o di pericolo. Viene effettuato un lungo excursus storico delle diverse decisioni di legittimità che, dalla sentenza “Demitry” (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994) alla “Mannino” (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, poi ripresa dalle Sezioni Unite, sent. n. 33748 del 12/07/2005) in avanti, si sono occupate della ricostruzione, in termini esegetici, della qualificazione del concetto di partecipazione alle associazioni mafiose. Quest’ultimo provvedimento risulta importante in quanto ripreso dalla sentenza qui analizzata, secondo cui occorre riprendere, mantenendola ferma, la conclusione cui sono giunte le Sezioni Unite “Mannino”, in virtù della quale va considerato partecipe dell’organizzazione criminale l’affiliato che “prende parte” attiva al fenomeno associativo.
Argomenti in relazione ai quali, in questa sede, non si può che rinviare alla lettura integrale del testo.
Sostiene, quindi, il Supremo Collegio che la partecipazione, più che dalla causalità del comportamento, vada provata dalla rilevanza dello stesso e che, quindi, anche l’adesione mediante l’affiliazione con il rito di ingresso può essere probatoriamente sconfessata da fatti concreti di segno contrario, quali, ad esempio, la disobbedienza o l’allontanamento: “non è possibile ritenere che il possesso di una “dote” equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo: scorciatoie probatorie che facciano leva su ragionamenti meramente presuntivi e deduttivi non possono certo essere utilizzati allo scopo”.
Sulla base di quanto sin qui esposto, la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
“La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.
“Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione“.
Sulla base di tali motivazioni la Corte di Cassazione annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per una nuova valutazione.
6. Conclusioni
Il provvedimento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite segna una svolta interpretativa di estrema rilevanza.
Il mero rito di affiliazione, infatti, e quindi una mera adesione morale al vincolo associativo, di per sé, non è sufficiente ad una condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., in assenza di ulteriori elementi probatori che confermino l’organica, effettiva, concreta e stabile partecipazione dell’affiliato alla vita criminale del gruppo.
Sarà interessante verificare come la giurisprudenza di merito si adeguerà alla nuova visione del Giudice di nomofilachia.
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