Indice
1. Il quadro introduttivo.
2. La decisione della Corte di Cassazione
3. Una breve analisi della decisione
1. Il quadro introduttivo
Il Giudice per le indagini preliminari di Chieti emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere, avverso cui il difensore proponeva ricorso al Tribunale del riesame dell’Aquila che confermava la decisione, in relazione a più episodi di furto aggravato di automobili.
In seguito, l’ordinanza del riesame veniva impugnata per Cassazione contestando la mancata motivazione in ordine all’applicazione di una pena superiore di anni tre a conclusione del processo che, a parere della difesa, sarebbe stato contenuto nei limiti dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p.
A conferma di quanto lamentato lo stesso difensore dell’imputato produceva, successivamente, sentenza di condanna a carico del suo assistito pari ad anni due e mesi quattro di reclusione ed euro 800 di multa.
2. La decisione della Corte di Cassazione
La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte annullava senza rinvio la decisione del Tribunale del riesame sulla scorta di alcune interessanti considerazioni su spunto proprio dello scritto difensivo presentato.
Infatti, la Cassazione rifletteva non solo in merito alle formalità circa la corretta motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale della libertà ma, soprattutto, in relazione alla sentenza pronunciata nel procedimento in cui si instaura la misura custodiale.
In sostanza, a parere del Supremo Consesso, la questione non può investire solo una fase genetica del provvedimento, ma anche dinamica.
Muovendosi dal dettato codicistico dell’art. 275 c.p.p., con particolare riferimento al comma 2-bis, i Giudici procedono alla disamina dei principi di proporzionalità ed adeguatezza con riferimento al fatto oggetto di reato ed alla pena prevista.
Viene dunque in rilievo, nella scelta della misura inframuraria, un giudizio prognostico da operare alla luce delle ipotesi circa la condanna, intesa come maggiore ad anni tre, e di cui, ovviamente, il Giudice dovrà dare atto nel provvedimento restrittivo della libertà.
Il problema si pone, però, anche in merito agli effettivi risvolti della vicenda processuale. Sul punto gli Ermellini rilevano una obiettiva lacuna normativa e danno nota del contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto il quale non ha generato una risposta unitaria del diritto vivente.
Un primo orientamento ritiene che la condanna non ultratriennale determini un automatismo in termini di caducazione della misura carceraria.[1]
Altra parte della giurisprudenza, invece, ritiene invece che detta valutazione venga in rilevo solo nella fase genetica e che la sopraggiunta condanna non osti in maniera automatica alla custodia cautelare inframuraria, limitando il dinamismo cautelare con riferimento alle esigenze di cui all’art. 299 c.p.p.
Sul punto i Giudici della Quinta Sezione rimarcano come gli anzidetti principi di proporzionalità ed adeguatezza si debbano considerare non solo nella fase genetica del provvedimento ma anche in quella dinamica, soprattutto nel caso di concreta verificazione di una pena inferiore a tre anni.
Tale riflessione si genera anche alla luce di una considerazione operata dalle Sezioni Unite n. 16085/2011 secondo cui, i criteri posti alla base della misura cautelare, debbono essere non solo valutati al fine dell’emissione della misura ma, altresì, costantemente monitorati allo scopo di verificare, nel caso concreto, le effettive esigenze. La successiva intervenuta sentenza di condanna non può, quindi, essere ignorata anche in base agli stessi artt. 275 comma 2 e 299 c.p.
Da ultimo, la Corte riflette lapidaria sulle censure mosse in merito all’ordinanza del Tribunale del riesame. Consolidata giurisprudenza rileva che, le vicende inerenti al sub procedimento cautelare successive all’emissione del titolo non accedono al titolo stesso, in ordine di legittimità, e nemmeno all’eventuale fase dinnanzi al Tribunale della libertà.
3. Una breve analisi della decisione
L’esegesi della Cassazione si focalizza, principalmente, sul comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. e, proprio sul punto, occorrono alcune brevi considerazioni.
Il comma in esame, introdotto dalla l. 332/1995 e rimaneggiato prima con il d.l. 92/2014 poi con la l. 69/2019, prevede il divieto della misura coercitiva inframuraria qualora la pena irrogata in sede di condanna sia inferiore a tre anni. Ciò, a meno che questa non sia disposta quale aggravamento di una precedente misura meno restrittiva o non sia applicata in riferimento ad uno dei reati espressamente previsti dallo stesso dettato codicistico[2] ed in relazione all’inadeguatezza degli arresti domiciliari per mancanza dei luoghi indicati dall’art. 284 c.p.p.
Stante detta precisa formulazione occorre rilevare che, in effetti, manca una statuizione altrettanto chiara e puntuale circa la necessità di effettuare una valutazione della prognosi di condanna, inferiore ad anni tre, in sede di applicazione della misura.
Tale vulnus normativo può essere colmato dall’art. 299 c.p.p. con cui il Giudice effettua una considerazione circa la proporzionalità del titolo emesso qualora vi sia un mutamento delle esigenze cautelari.
Il citato articolo restituisce logicità al sistema che, in assenza di strumenti modificativi, risulterebbe ancorato solo ed esclusivamente ad una prognosi circa l’esito del procedimento.
Tutto ciò non può non leggersi in riferimento alla celebre sentenza Torreggiani contro Italia della Corte EDU, sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU dovuta al sovraffollamento carcerario. Le modifiche imposte all’Italia sul punto si sono concretizzate mediante l’intervento di novella dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., ad opera del d.l. 92/2014, ponendolo in evidente raccordo con l’art. 656 c.p.p., circa la sospensione dell’esecuzione della pena qualora inferiore ad anni tre. La ratio del legislatore è chiara e si costituisce di una indubbia volontà di rendere organica la decompressione carceraria sia in fase cautelare che esecutiva.
Da ultimo una precisazione circa i vizi successivi al momento genetico dell’ordinanza. Questi, alla luce del ragionamento dei Giudici, si differenziano in maniera significativa dalla sopravvenuta sentenza di condanna infratriennale. Infatti, pur coinvolgendo eventuali invalidità dell’atto vengono travolti dalla sentenza che si ripercuote direttamente su una valutazione che avrebbe dovuto essere fatta ora per allora dal Giudice.
[1] Corte di Cassazione, Sezione Feriale, n. 26542 del 13 Agosto 2020
[2] Ci si riferisce agli artt. 423 bis, 527, 612 bis e 612 ter, 624 bis c.p. e art. 4 bis l. 354/1975
Misure cautelari e condanna infratriennale: l’orientamento della sentenza della quinta sezione penale n. 4948 dell’8 febbraio 2021
La Corte di Cassazione si pronuncia sulla custodia cautelare in carcere e sulla valutazione applicativa del limite di condanna infratriennale affermando il principio di diritto secondo cui: “In materia di misure cautelari personali, l’impossibilità di applicare la custodia in carcere laddove sia pronosticabile l’irrogazione di una pena non superiore a tre anni di reclusione, di cui all’art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., costituisce una regola di valutazione della proporzionalità della custodia in carcere di cui va tenuto conto, ai sensi dell’art. 299, comma 2, cod. proc. pen., anche nella fase dinamica della misura cautelare, in particolare allorché sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, pena inferiore al suddetto limite, evenienza che impone la sostituzione della custodia in carcere con altra misura meno afflittiva”.
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1. Il quadro introduttivo.
2. La decisione della Corte di Cassazione
3. Una breve analisi della decisione
1. Il quadro introduttivo
Il Giudice per le indagini preliminari di Chieti emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere, avverso cui il difensore proponeva ricorso al Tribunale del riesame dell’Aquila che confermava la decisione, in relazione a più episodi di furto aggravato di automobili.
In seguito, l’ordinanza del riesame veniva impugnata per Cassazione contestando la mancata motivazione in ordine all’applicazione di una pena superiore di anni tre a conclusione del processo che, a parere della difesa, sarebbe stato contenuto nei limiti dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p.
A conferma di quanto lamentato lo stesso difensore dell’imputato produceva, successivamente, sentenza di condanna a carico del suo assistito pari ad anni due e mesi quattro di reclusione ed euro 800 di multa.
2. La decisione della Corte di Cassazione
La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte annullava senza rinvio la decisione del Tribunale del riesame sulla scorta di alcune interessanti considerazioni su spunto proprio dello scritto difensivo presentato.
Infatti, la Cassazione rifletteva non solo in merito alle formalità circa la corretta motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale della libertà ma, soprattutto, in relazione alla sentenza pronunciata nel procedimento in cui si instaura la misura custodiale.
In sostanza, a parere del Supremo Consesso, la questione non può investire solo una fase genetica del provvedimento, ma anche dinamica.
Muovendosi dal dettato codicistico dell’art. 275 c.p.p., con particolare riferimento al comma 2-bis, i Giudici procedono alla disamina dei principi di proporzionalità ed adeguatezza con riferimento al fatto oggetto di reato ed alla pena prevista.
Viene dunque in rilievo, nella scelta della misura inframuraria, un giudizio prognostico da operare alla luce delle ipotesi circa la condanna, intesa come maggiore ad anni tre, e di cui, ovviamente, il Giudice dovrà dare atto nel provvedimento restrittivo della libertà.
Il problema si pone, però, anche in merito agli effettivi risvolti della vicenda processuale. Sul punto gli Ermellini rilevano una obiettiva lacuna normativa e danno nota del contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto il quale non ha generato una risposta unitaria del diritto vivente.
Un primo orientamento ritiene che la condanna non ultratriennale determini un automatismo in termini di caducazione della misura carceraria.[1]
Altra parte della giurisprudenza, invece, ritiene invece che detta valutazione venga in rilevo solo nella fase genetica e che la sopraggiunta condanna non osti in maniera automatica alla custodia cautelare inframuraria, limitando il dinamismo cautelare con riferimento alle esigenze di cui all’art. 299 c.p.p.
Sul punto i Giudici della Quinta Sezione rimarcano come gli anzidetti principi di proporzionalità ed adeguatezza si debbano considerare non solo nella fase genetica del provvedimento ma anche in quella dinamica, soprattutto nel caso di concreta verificazione di una pena inferiore a tre anni.
Tale riflessione si genera anche alla luce di una considerazione operata dalle Sezioni Unite n. 16085/2011 secondo cui, i criteri posti alla base della misura cautelare, debbono essere non solo valutati al fine dell’emissione della misura ma, altresì, costantemente monitorati allo scopo di verificare, nel caso concreto, le effettive esigenze. La successiva intervenuta sentenza di condanna non può, quindi, essere ignorata anche in base agli stessi artt. 275 comma 2 e 299 c.p.
Da ultimo, la Corte riflette lapidaria sulle censure mosse in merito all’ordinanza del Tribunale del riesame. Consolidata giurisprudenza rileva che, le vicende inerenti al sub procedimento cautelare successive all’emissione del titolo non accedono al titolo stesso, in ordine di legittimità, e nemmeno all’eventuale fase dinnanzi al Tribunale della libertà.
3. Una breve analisi della decisione
L’esegesi della Cassazione si focalizza, principalmente, sul comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. e, proprio sul punto, occorrono alcune brevi considerazioni.
Il comma in esame, introdotto dalla l. 332/1995 e rimaneggiato prima con il d.l. 92/2014 poi con la l. 69/2019, prevede il divieto della misura coercitiva inframuraria qualora la pena irrogata in sede di condanna sia inferiore a tre anni. Ciò, a meno che questa non sia disposta quale aggravamento di una precedente misura meno restrittiva o non sia applicata in riferimento ad uno dei reati espressamente previsti dallo stesso dettato codicistico[2] ed in relazione all’inadeguatezza degli arresti domiciliari per mancanza dei luoghi indicati dall’art. 284 c.p.p.
Stante detta precisa formulazione occorre rilevare che, in effetti, manca una statuizione altrettanto chiara e puntuale circa la necessità di effettuare una valutazione della prognosi di condanna, inferiore ad anni tre, in sede di applicazione della misura.
Tale vulnus normativo può essere colmato dall’art. 299 c.p.p. con cui il Giudice effettua una considerazione circa la proporzionalità del titolo emesso qualora vi sia un mutamento delle esigenze cautelari.
Il citato articolo restituisce logicità al sistema che, in assenza di strumenti modificativi, risulterebbe ancorato solo ed esclusivamente ad una prognosi circa l’esito del procedimento.
Tutto ciò non può non leggersi in riferimento alla celebre sentenza Torreggiani contro Italia della Corte EDU, sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU dovuta al sovraffollamento carcerario. Le modifiche imposte all’Italia sul punto si sono concretizzate mediante l’intervento di novella dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., ad opera del d.l. 92/2014, ponendolo in evidente raccordo con l’art. 656 c.p.p., circa la sospensione dell’esecuzione della pena qualora inferiore ad anni tre. La ratio del legislatore è chiara e si costituisce di una indubbia volontà di rendere organica la decompressione carceraria sia in fase cautelare che esecutiva.
Da ultimo una precisazione circa i vizi successivi al momento genetico dell’ordinanza. Questi, alla luce del ragionamento dei Giudici, si differenziano in maniera significativa dalla sopravvenuta sentenza di condanna infratriennale. Infatti, pur coinvolgendo eventuali invalidità dell’atto vengono travolti dalla sentenza che si ripercuote direttamente su una valutazione che avrebbe dovuto essere fatta ora per allora dal Giudice.
[1] Corte di Cassazione, Sezione Feriale, n. 26542 del 13 Agosto 2020
[2] Ci si riferisce agli artt. 423 bis, 527, 612 bis e 612 ter, 624 bis c.p. e art. 4 bis l. 354/1975
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1. Il quadro introduttivo.
2. La decisione della Corte di Cassazione
3. Una breve analisi della decisione
1. Il quadro introduttivo
Il Giudice per le indagini preliminari di Chieti emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere, avverso cui il difensore proponeva ricorso al Tribunale del riesame dell’Aquila che confermava la decisione, in relazione a più episodi di furto aggravato di automobili.
In seguito, l’ordinanza del riesame veniva impugnata per Cassazione contestando la mancata motivazione in ordine all’applicazione di una pena superiore di anni tre a conclusione del processo che, a parere della difesa, sarebbe stato contenuto nei limiti dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p.
A conferma di quanto lamentato lo stesso difensore dell’imputato produceva, successivamente, sentenza di condanna a carico del suo assistito pari ad anni due e mesi quattro di reclusione ed euro 800 di multa.
2. La decisione della Corte di Cassazione
La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte annullava senza rinvio la decisione del Tribunale del riesame sulla scorta di alcune interessanti considerazioni su spunto proprio dello scritto difensivo presentato.
Infatti, la Cassazione rifletteva non solo in merito alle formalità circa la corretta motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale della libertà ma, soprattutto, in relazione alla sentenza pronunciata nel procedimento in cui si instaura la misura custodiale.
In sostanza, a parere del Supremo Consesso, la questione non può investire solo una fase genetica del provvedimento, ma anche dinamica.
Muovendosi dal dettato codicistico dell’art. 275 c.p.p., con particolare riferimento al comma 2-bis, i Giudici procedono alla disamina dei principi di proporzionalità ed adeguatezza con riferimento al fatto oggetto di reato ed alla pena prevista.
Viene dunque in rilievo, nella scelta della misura inframuraria, un giudizio prognostico da operare alla luce delle ipotesi circa la condanna, intesa come maggiore ad anni tre, e di cui, ovviamente, il Giudice dovrà dare atto nel provvedimento restrittivo della libertà.
Il problema si pone, però, anche in merito agli effettivi risvolti della vicenda processuale. Sul punto gli Ermellini rilevano una obiettiva lacuna normativa e danno nota del contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto il quale non ha generato una risposta unitaria del diritto vivente.
Un primo orientamento ritiene che la condanna non ultratriennale determini un automatismo in termini di caducazione della misura carceraria.[1]
Altra parte della giurisprudenza, invece, ritiene invece che detta valutazione venga in rilevo solo nella fase genetica e che la sopraggiunta condanna non osti in maniera automatica alla custodia cautelare inframuraria, limitando il dinamismo cautelare con riferimento alle esigenze di cui all’art. 299 c.p.p.
Sul punto i Giudici della Quinta Sezione rimarcano come gli anzidetti principi di proporzionalità ed adeguatezza si debbano considerare non solo nella fase genetica del provvedimento ma anche in quella dinamica, soprattutto nel caso di concreta verificazione di una pena inferiore a tre anni.
Tale riflessione si genera anche alla luce di una considerazione operata dalle Sezioni Unite n. 16085/2011 secondo cui, i criteri posti alla base della misura cautelare, debbono essere non solo valutati al fine dell’emissione della misura ma, altresì, costantemente monitorati allo scopo di verificare, nel caso concreto, le effettive esigenze. La successiva intervenuta sentenza di condanna non può, quindi, essere ignorata anche in base agli stessi artt. 275 comma 2 e 299 c.p.
Da ultimo, la Corte riflette lapidaria sulle censure mosse in merito all’ordinanza del Tribunale del riesame. Consolidata giurisprudenza rileva che, le vicende inerenti al sub procedimento cautelare successive all’emissione del titolo non accedono al titolo stesso, in ordine di legittimità, e nemmeno all’eventuale fase dinnanzi al Tribunale della libertà.
3. Una breve analisi della decisione
L’esegesi della Cassazione si focalizza, principalmente, sul comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. e, proprio sul punto, occorrono alcune brevi considerazioni.
Il comma in esame, introdotto dalla l. 332/1995 e rimaneggiato prima con il d.l. 92/2014 poi con la l. 69/2019, prevede il divieto della misura coercitiva inframuraria qualora la pena irrogata in sede di condanna sia inferiore a tre anni. Ciò, a meno che questa non sia disposta quale aggravamento di una precedente misura meno restrittiva o non sia applicata in riferimento ad uno dei reati espressamente previsti dallo stesso dettato codicistico[2] ed in relazione all’inadeguatezza degli arresti domiciliari per mancanza dei luoghi indicati dall’art. 284 c.p.p.
Stante detta precisa formulazione occorre rilevare che, in effetti, manca una statuizione altrettanto chiara e puntuale circa la necessità di effettuare una valutazione della prognosi di condanna, inferiore ad anni tre, in sede di applicazione della misura.
Tale vulnus normativo può essere colmato dall’art. 299 c.p.p. con cui il Giudice effettua una considerazione circa la proporzionalità del titolo emesso qualora vi sia un mutamento delle esigenze cautelari.
Il citato articolo restituisce logicità al sistema che, in assenza di strumenti modificativi, risulterebbe ancorato solo ed esclusivamente ad una prognosi circa l’esito del procedimento.
Tutto ciò non può non leggersi in riferimento alla celebre sentenza Torreggiani contro Italia della Corte EDU, sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU dovuta al sovraffollamento carcerario. Le modifiche imposte all’Italia sul punto si sono concretizzate mediante l’intervento di novella dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., ad opera del d.l. 92/2014, ponendolo in evidente raccordo con l’art. 656 c.p.p., circa la sospensione dell’esecuzione della pena qualora inferiore ad anni tre. La ratio del legislatore è chiara e si costituisce di una indubbia volontà di rendere organica la decompressione carceraria sia in fase cautelare che esecutiva.
Da ultimo una precisazione circa i vizi successivi al momento genetico dell’ordinanza. Questi, alla luce del ragionamento dei Giudici, si differenziano in maniera significativa dalla sopravvenuta sentenza di condanna infratriennale. Infatti, pur coinvolgendo eventuali invalidità dell’atto vengono travolti dalla sentenza che si ripercuote direttamente su una valutazione che avrebbe dovuto essere fatta ora per allora dal Giudice.
[1] Corte di Cassazione, Sezione Feriale, n. 26542 del 13 Agosto 2020
[2] Ci si riferisce agli artt. 423 bis, 527, 612 bis e 612 ter, 624 bis c.p. e art. 4 bis l. 354/1975
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