La responsabilità penale del naturopata

In una recente pronuncia (Cass. Pen., 28 settembre 2020, n. 26951) la Suprema Corte ha affrontato il problema della responsabilità penale di colui che, sprovvisto di una laurea in medicina ma esercente un’attività professionale ad essa affine, distolga un paziente oncologico dal far ricorso alle cure tradizionali, promettendogli pronta guarigione per mezzo di trattamenti alternativi miracolosi.

Abuso di professione medica

Indice

1. Il fatto
2. L’imputazione ex art. 586 cod. pen.
3. La linea sottile tra il dolo eventuale e la colpa cosciente
4. La decisione della Corte di Cassazione

1. Il fatto

Il titolare di uno studio di naturopatia veniva imputato per il reato di omicidio volontario p.p. dall’art. 575 cod. pen., aggravato dell’aver profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima e dai motivi abietti, per aver cagionato la morte di una donna affetta da una malattia cancerogena.
Nello specifico, la donna, a cui era stato diagnosticato un tumore maligno al seno, si recava presso lo studio del naturopata, il quale, dopo aver preso visione dei referti medici, le prescriveva una terapia a base di diete e applicazione di terre, fanghi e decotti naturali. Nonostante le valutazioni positive del naturopata circa il decorso del trattamento, la donna presentava una condizione fisica generale allarmante, causata dal progressivo peggioramento del quadro clinico (dalla TAC emergeva come il tumore alla mammella si fosse aggravato, qualificandosi come tumore al quarto stadio con metastasi diffuse a distanza).
Chiamata a pronunciarsi circa la penale responsabilità del naturopata, la Corte d’Assise di Parma riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 586 cod. pen. (morte come conseguenza di altro delitto) conseguente al reato di abusivo esercizio della professione medica ex art. 348 cod. pen. e dichiarava di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato estinto per prescrizione. Il dictum veniva confermato dalla Corte d’Assise d’Appello, contro la cui sentenza proponevano ricorso in Cassazione sia il PM che la parte civile. I ricorrenti lamentavano che la sentenza di appello, pur confermativa della decisione di primo grado, aveva diversamente valutato le prove e quindi era pervenuta ad un accertamento diverso da quello che la sentenza di primo grado aveva posto a fondamento della decisione. Stando ai motivi di ricorso, i giudici di merito – erroneamente – non avrebbero ritenuto configurabile il reato di omicidio doloso, assistito dal c.d. dolo eventuale.
La Suprema Corte perveniva ad una sentenza di rigetto con un percorso motivazione che, in tale sede, offre all’interprete uno spunto di riflessione circa la figura del reato di cui all’art. 586 cod. pen. ed il suo rapporto con l’ipotesi di omicidio volontario.

2. L’imputazione ex art. 586 cod. pen.

Il reato di morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto non delinea una particolare figura di reato, ma costituisce un’applicazione del principio generale di cui all’art. 83 cod. pen., imputando all’agente l’evento mortale o lesivo che, sebbene non voluto, sia stato conseguenza della sua azione.
In tema di criterio di imputazione dell’evento, un indirizzo giurisprudenziale ritiene che il rapporto tra delitto base e l’evento non voluto deve essere valutato in termini di pura e semplice causalità materiale, senza che sia necessario espletare alcuna indagine relativa all’elemento soggettivo dell’agente (Cass. Pen., 15 febbraio 1996, n. 6361). Tale orientamento deve essere disatteso.
Alla luce dei principi costituzionali e, nello specifico, del principio di colpevolezza (art. 27 Cost.), l’ordinamento penale non può (o meglio, non potrebbe) conoscere ipotesi di responsabilità oggettiva (Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364), sicché l’art. 586 cod. pen. potrà dirsi costituzionalmente legittimo solo ove sussista un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non voluto all’autore del delitto voluto (Cass. Pen., 7 febbraio 2006, n. 14302).
Al contrario, qualora la morte e le lesioni siano eventi specificatamente avuti di mira e si aggiungono al reato doloso voluto all’origine, oppure quando l’evento mortale e lesivo si sia rappresentato alla mente dell’autore e questi abbia egualmente voluto proseguire nella propria condotta criminosa, l’agente risponderà del delitto di omicidio volontario o di lesioni volontarie in concorso con il delitto inizialmente voluto (Cass. Pen., 6 ottobre 1989, n. 13196).

3. La linea sottile tra il dolo eventuale e la colpa cosciente

Come poc’anzi accennato, il discrimen tra il reato di omicidio volontario ed il reato di cui all’art. 586 cod. pen. risiede nel diverso atteggiarsi dell’elemento psicologico dell’agente con riferimento all’evento morte. Un’analisi del tutto approssimativa si limiterebbe a constatare che, nel primo caso, l’evento deve essere imputato a titolo di dolo, nel secondo caso a titolo di colpa. Non fosse che il dolo può assumere tre diversi gradi, che dipendono dall’intensità tanto del momento volitivo quanto del momento rappresentativo.
Nulla quaestio con riferimento al dolo intenzionale, laddove l’evento costituisce il fine dell’azione, né al dolo diretto, nel quale l’evento viene previsto come conseguenza certa della condotta ed è, come tale, voluto. Problemi interpretativi pone, invece, il dolo eventuale, dove l’evento, previsto come possibile conseguenza della condotta, è ulteriore rispetto al fine perseguito dall’agente.
In particolare, controversa è la distinzione con l’ipotesi della colpa cosciente, pure caratterizzata dalla previsione dell’evento, rispetto alla quale il criterio distintivo è dato dalla volontà dell’evento, necessario nel dolo e assente nella colpa.
A questa conclusione sono giunte le Sezioni Unite (S.U., 24 aprile 2014, n. 38343, caso ThyssenKrupp), le quali, chiamate a tracciare la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, hanno pronunciato il seguente principio di diritto: “il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.
Considerata la differenza tra colpa cosciente e dolo eventuale, di particolare difficoltà è l’accertamento di tale ultimo stato soggettivo, in quanto l’oggetto di esso non costituisce il fine dell’azione nè una conseguenza certa di essa, bensì solo una possibile conseguenza di essa. In particolare, si tratta di individuare elementi significativi dell’assunzione, da parte del soggetto, dell’evento, non tanto come possibile conseguenza nota, bensì come evento voluto, seppur per conseguire altro fine.
Per la configurabilità del dolo eventuale, occorre, dunque, la dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all’evento oggetto di rappresentazione, costituisce – anche nel dolo eventuale – una componente fondamentale dell’atteggiamento psichico dell’agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo (accettato) dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito.

4. La decisione della Corte di Cassazione

Quanto sopra osservato permette di comprendere al meglio la decisione della Corte di Cassazione con riferimento al tipo di reato ascrivibile al naturopata.
Come anticipato, gli Ermellini hanno disatteso la tesi dei ricorrenti, ritenendo che le sentenze di merito avessero correttamente escluso la sussistenza del dolo di omicidio.
L’imputato non aveva delle conoscenze mediche specifiche, sicché, pur essendo a conoscenza della diagnosi oncologica, non era in grado di rendersi conto della gravità della diagnosi iniziale, né del processo di aggravamento della patologia e quindi del carattere necessario ed indifferibile delle terapie mediche. Veniva quindi escluso il presupposto rappresentativo del dolo, la consapevolezza della probabilità che l’evento morte si verificasse come conseguenza del ritardo nell’accesso alle terapie mediche.
Osserva la Corte che l’imputato non solo non poteva rappresentarsi l’evento sulla base della assenza di conoscenze mediche, nemmeno generiche, ma non poteva neppure volerlo, posto che considerava la naturopatia come alternativa alla scienza medica. Quest’ultima circostanza è di per sé incompatibile con la volontà di cagionare la morte del paziente.
Di converso, tale orientamento culturale integra, nel momento in cui assume la gestione di una condizione patologica, la colpa.
L’elemento colposo – violazione delle norme cautelari – veniva ravvisato proprio nel processo rappresentativo concernente la gravità della diagnosi oncologica e nella relazione istaurata con la persona offesa: l’imputato, privo di abilitazione professionale come medico e privo di competenze mediche, aveva prescritto una terapia della patologia tumorale non riconosciuta dalla scienza medica.

abuso di professione medica

Indice

1. Il fatto
2. L’imputazione ex art. 586 cod. pen.
3. La linea sottile tra il dolo eventuale e la colpa cosciente
4. La decisione della Corte di Cassazione

1. Il fatto

Il titolare di uno studio di naturopatia veniva imputato per il reato di omicidio volontario p.p. dall’art. 575 cod. pen., aggravato dell’aver profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima e dai motivi abietti, per aver cagionato la morte di una donna affetta da una malattia cancerogena.
Nello specifico, la donna, a cui era stato diagnosticato un tumore maligno al seno, si recava presso lo studio del naturopata, il quale, dopo aver preso visione dei referti medici, le prescriveva una terapia a base di diete e applicazione di terre, fanghi e decotti naturali. Nonostante le valutazioni positive del naturopata circa il decorso del trattamento, la donna presentava una condizione fisica generale allarmante, causata dal progressivo peggioramento del quadro clinico (dalla TAC emergeva come il tumore alla mammella si fosse aggravato, qualificandosi come tumore al quarto stadio con metastasi diffuse a distanza).
Chiamata a pronunciarsi circa la penale responsabilità del naturopata, la Corte d’Assise di Parma riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 586 cod. pen. (morte come conseguenza di altro delitto) conseguente al reato di abusivo esercizio della professione medica ex art. 348 cod. pen. e dichiarava di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato estinto per prescrizione. Il dictum veniva confermato dalla Corte d’Assise d’Appello, contro la cui sentenza proponevano ricorso in Cassazione sia il PM che la parte civile. I ricorrenti lamentavano che la sentenza di appello, pur confermativa della decisione di primo grado, aveva diversamente valutato le prove e quindi era pervenuta ad un accertamento diverso da quello che la sentenza di primo grado aveva posto a fondamento della decisione. Stando ai motivi di ricorso, i giudici di merito – erroneamente – non avrebbero ritenuto configurabile il reato di omicidio doloso, assistito dal c.d. dolo eventuale.
La Suprema Corte perveniva ad una sentenza di rigetto con un percorso motivazione che, in tale sede, offre all’interprete uno spunto di riflessione circa la figura del reato di cui all’art. 586 cod. pen. ed il suo rapporto con l’ipotesi di omicidio volontario.

2. L’imputazione ex art. 586 cod. pen.

Il reato di morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto non delinea una particolare figura di reato, ma costituisce un’applicazione del principio generale di cui all’art. 83 cod. pen., imputando all’agente l’evento mortale o lesivo che, sebbene non voluto, sia stato conseguenza della sua azione.
In tema di criterio di imputazione dell’evento, un indirizzo giurisprudenziale ritiene che il rapporto tra delitto base e l’evento non voluto deve essere valutato in termini di pura e semplice causalità materiale, senza che sia necessario espletare alcuna indagine relativa all’elemento soggettivo dell’agente (Cass. Pen., 15 febbraio 1996, n. 6361). Tale orientamento deve essere disatteso.
Alla luce dei principi costituzionali e, nello specifico, del principio di colpevolezza (art. 27 Cost.), l’ordinamento penale non può (o meglio, non potrebbe) conoscere ipotesi di responsabilità oggettiva (Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364), sicché l’art. 586 cod. pen. potrà dirsi costituzionalmente legittimo solo ove sussista un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non voluto all’autore del delitto voluto (Cass. Pen., 7 febbraio 2006, n. 14302).
Al contrario, qualora la morte e le lesioni siano eventi specificatamente avuti di mira e si aggiungono al reato doloso voluto all’origine, oppure quando l’evento mortale e lesivo si sia rappresentato alla mente dell’autore e questi abbia egualmente voluto proseguire nella propria condotta criminosa, l’agente risponderà del delitto di omicidio volontario o di lesioni volontarie in concorso con il delitto inizialmente voluto (Cass. Pen., 6 ottobre 1989, n. 13196).

3. La linea sottile tra il dolo eventuale e la colpa cosciente

Come poc’anzi accennato, il discrimen tra il reato di omicidio volontario ed il reato di cui all’art. 586 cod. pen. risiede nel diverso atteggiarsi dell’elemento psicologico dell’agente con riferimento all’evento morte. Un’analisi del tutto approssimativa si limiterebbe a constatare che, nel primo caso, l’evento deve essere imputato a titolo di dolo, nel secondo caso a titolo di colpa. Non fosse che il dolo può assumere tre diversi gradi, che dipendono dall’intensità tanto del momento volitivo quanto del momento rappresentativo.
Nulla quaestio con riferimento al dolo intenzionale, laddove l’evento costituisce il fine dell’azione, né al dolo diretto, nel quale l’evento viene previsto come conseguenza certa della condotta ed è, come tale, voluto. Problemi interpretativi pone, invece, il dolo eventuale, dove l’evento, previsto come possibile conseguenza della condotta, è ulteriore rispetto al fine perseguito dall’agente.
In particolare, controversa è la distinzione con l’ipotesi della colpa cosciente, pure caratterizzata dalla previsione dell’evento, rispetto alla quale il criterio distintivo è dato dalla volontà dell’evento, necessario nel dolo e assente nella colpa.
A questa conclusione sono giunte le Sezioni Unite (S.U., 24 aprile 2014, n. 38343, caso ThyssenKrupp), le quali, chiamate a tracciare la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, hanno pronunciato il seguente principio di diritto: “il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.
Considerata la differenza tra colpa cosciente e dolo eventuale, di particolare difficoltà è l’accertamento di tale ultimo stato soggettivo, in quanto l’oggetto di esso non costituisce il fine dell’azione nè una conseguenza certa di essa, bensì solo una possibile conseguenza di essa. In particolare, si tratta di individuare elementi significativi dell’assunzione, da parte del soggetto, dell’evento, non tanto come possibile conseguenza nota, bensì come evento voluto, seppur per conseguire altro fine.
Per la configurabilità del dolo eventuale, occorre, dunque, la dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all’evento oggetto di rappresentazione, costituisce – anche nel dolo eventuale – una componente fondamentale dell’atteggiamento psichico dell’agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo (accettato) dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito.

4. La decisione della Corte di Cassazione

Quanto sopra osservato permette di comprendere al meglio la decisione della Corte di Cassazione con riferimento al tipo di reato ascrivibile al naturopata.
Come anticipato, gli Ermellini hanno disatteso la tesi dei ricorrenti, ritenendo che le sentenze di merito avessero correttamente escluso la sussistenza del dolo di omicidio.
L’imputato non aveva delle conoscenze mediche specifiche, sicché, pur essendo a conoscenza della diagnosi oncologica, non era in grado di rendersi conto della gravità della diagnosi iniziale, né del processo di aggravamento della patologia e quindi del carattere necessario ed indifferibile delle terapie mediche. Veniva quindi escluso il presupposto rappresentativo del dolo, la consapevolezza della probabilità che l’evento morte si verificasse come conseguenza del ritardo nell’accesso alle terapie mediche.
Osserva la Corte che l’imputato non solo non poteva rappresentarsi l’evento sulla base della assenza di conoscenze mediche, nemmeno generiche, ma non poteva neppure volerlo, posto che considerava la naturopatia come alternativa alla scienza medica. Quest’ultima circostanza è di per sé incompatibile con la volontà di cagionare la morte del paziente.
Di converso, tale orientamento culturale integra, nel momento in cui assume la gestione di una condizione patologica, la colpa.
L’elemento colposo – violazione delle norme cautelari – veniva ravvisato proprio nel processo rappresentativo concernente la gravità della diagnosi oncologica e nella relazione istaurata con la persona offesa: l’imputato, privo di abilitazione professionale come medico e privo di competenze mediche, aveva prescritto una terapia della patologia tumorale non riconosciuta dalla scienza medica.