Esame testimoniale: divieto di porre domande suggestive e nocive esteso al Giudice

Esame testimoniale

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha scolpito un importantissimo principio in punto di parità delle armi tra tutte le parti processuali, Giudice compreso, al quale anche – nella prospettiva di legittimità in rilievo – si applica il divieto di porre domande nocive o suggestive al testimone.
La decisione del Supremo Collegio si colloca nell’ambito di una vicenda processuale in cui l’imputato, condannato in primo grado per il reato ex art. 609- quater c.p. e assolto per fatti successivi nei confronti della stessa minore, era stato poi condannato in appello anche per il reato ex art. 609-bis c.p.
In particolare, la sentenza di appello veniva cassata in ragione delle irregolarità nella conduzione e nell’assunzione della testimonianza della persona offesa, che si sono riverberate sulla motivazione della sentenza impugnata, viziandola radicalmente.
Richiamando le fonti europee sulle dinamiche di tutela sottese al metodo dell’esame incrociato e raccordandole con i principi costituzionali, la sentenza esamina e contestualizza, nella assunzione della prova dichiarativa, il rapporto tra potere probatorio ufficioso e principio dispositivo, traendo come conseguenza la funzione surrogatoria e residuale del primo rispetto al secondo.
L’iter motivazionale lungo il quale si snoda il decisum di legittimità muove dalla disamina codicistica in materia di esame testimoniale.
In primo luogo, la Corte richiama l’art. 498 c.p.p., a mente del quale l’escussione dei testi avviene mediante domande rivolte direttamente dal pubblico ministero e dai difensori, senza il filtro del giudice, eseguendo cadenze predeterminate: esame diretto – controesame – riesame.
Giova a tal riguardo precisare come l’esame incrociato, quale modalità tipica di escussione della fonte orale, trova ancoraggio nell’art. 111 Cost. nonché nell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu e nell’art. 14, par. 3, lett. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Ancora, si pone l’accento sull’art. 499 c.p.p., il quale indica i criteri cui il giudice deve attenersi nell’ammettere o vietare le domande delle parti:

  • deve vietare in modo assoluto le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte (comma 2);
  • vietare alla parte che ha addotto il teste o che ha un interesse comune con lo stesso di formulare le domande suggestive (comma 3);
  • deve assicurare durante l’esame del teste la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni (comma 6).

Com’è noto, il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua difesa.
Si badi che oggetto del divieto di cui si discorre sono sia le domande suggestive – nel significato che il termine assume nel linguaggio giudiziario di domande che tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una  semplice conferma – sia le domande nocive – cioè quelle finalizzate a manipolare il teste, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta.
È, dunque, chiaro come il divieto in parola, sulla scorta di quanto statuisce il citato art. 499 c.p.p. debba estendersi al giudice, al quale spetta il compito di assicurare – in ogni caso – la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione.
Dal che ne discende che la eventuale inosservanza delle regole stabilite dal codice di rito per assicurare la sincerità e genuinità delle risposte del teste inficia la prova testimoniale, rendendola non genuina e poco attendibile.
Si fa, altresì, riferimento allart. 506 c.p.p., comma 2, il quale prevede il potere del presidente di rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ed alle parti private solo dopo l’esame ed il controesame.
Detta disposizione, con ogni evidenza, costituisce un passaggio nevralgico della pronuncia in commento, atteso che un intervento officioso del giudice con finalità chiarificatrice dei fatti ed in funzione surrogatoria rispetto alle parti, può trovare giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio se – e solo se – non sia stato possibile ottenere i necessari chiarimenti mediante le domande che hanno posto le parti al testimone.
Così disegnato il quadro normativo di riferimento, la Corte di Cassazione, quanto alla vicenda sottoposta al suo scrutinio di legittimità, rileva come le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta ed in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa, ne abbiano gravemente pregiudicato l’attendibilità, di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni dalla stessa rese appaia radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata.
Ed invero, si legge nella sentenza in commento, “le domande rivolte dal consigliere relatore alla testimone – come risulta dalla trascrizione dell’esame testimoniale allegata al ricorso – presentano entrambi gli aspetti di suggestività e di nocività”.
Il Supremo Collegio, riportando pedissequamente la trascrizione di udienza, ha infatti ravvisato che le domande poste dal Giudice indirizzassero la teste verso una mera conferma di quanto chiesto, di fatto manipolandone la memoria.
Tirando le fila, può sostenersi – senza timore di smentita – come la Corte di Cassazione abbia colto l’occasione per stigmatizzare la frequente prassi che alberga durante gli esami testimoniali, che vede i giudici non soltanto intervenire di frequente durante l’esame ed il controesame ma, soprattutto, porre domande altamente suggestive.
Si tratta, a parere di chi scrive, di una fondamentale pronuncia, volta a garantire – anche in una prospettiva europeista – la legalità del metodo probatorio, quale che sia la fonte o il contesto in cui viene applicato.

esame testimoniale

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha scolpito un importantissimo principio in punto di parità delle armi tra tutte le parti processuali, Giudice compreso, al quale anche – nella prospettiva di legittimità in rilievo – si applica il divieto di porre domande nocive o suggestive al testimone.
La decisione del Supremo Collegio si colloca nell’ambito di una vicenda processuale in cui l’imputato, condannato in primo grado per il reato ex art. 609- quater c.p. e assolto per fatti successivi nei confronti della stessa minore, era stato poi condannato in appello anche per il reato ex art. 609-bis c.p.
In particolare, la sentenza di appello veniva cassata in ragione delle irregolarità nella conduzione e nell’assunzione della testimonianza della persona offesa, che si sono riverberate sulla motivazione della sentenza impugnata, viziandola radicalmente.
Richiamando le fonti europee sulle dinamiche di tutela sottese al metodo dell’esame incrociato e raccordandole con i principi costituzionali, la sentenza esamina e contestualizza, nella assunzione della prova dichiarativa, il rapporto tra potere probatorio ufficioso e principio dispositivo, traendo come conseguenza la funzione surrogatoria e residuale del primo rispetto al secondo.
L’iter motivazionale lungo il quale si snoda il decisum di legittimità muove dalla disamina codicistica in materia di esame testimoniale.
In primo luogo, la Corte richiama l’art. 498 c.p.p., a mente del quale l’escussione dei testi avviene mediante domande rivolte direttamente dal pubblico ministero e dai difensori, senza il filtro del giudice, eseguendo cadenze predeterminate: esame diretto – controesame – riesame.
Giova a tal riguardo precisare come l’esame incrociato, quale modalità tipica di escussione della fonte orale, trova ancoraggio nell’art. 111 Cost. nonché nell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu e nell’art. 14, par. 3, lett. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Ancora, si pone l’accento sull’art. 499 c.p.p., il quale indica i criteri cui il giudice deve attenersi nell’ammettere o vietare le domande delle parti:

  • deve vietare in modo assoluto le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte (comma 2);
  • vietare alla parte che ha addotto il teste o che ha un interesse comune con lo stesso di formulare le domande suggestive (comma 3);
  • deve assicurare durante l’esame del teste la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni (comma 6).

Com’è noto, il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua difesa.
Si badi che oggetto del divieto di cui si discorre sono sia le domande suggestive – nel significato che il termine assume nel linguaggio giudiziario di domande che tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una  semplice conferma – sia le domande nocive – cioè quelle finalizzate a manipolare il teste, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta.
È, dunque, chiaro come il divieto in parola, sulla scorta di quanto statuisce il citato art. 499 c.p.p. debba estendersi al giudice, al quale spetta il compito di assicurare – in ogni caso – la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione.
Dal che ne discende che la eventuale inosservanza delle regole stabilite dal codice di rito per assicurare la sincerità e genuinità delle risposte del teste inficia la prova testimoniale, rendendola non genuina e poco attendibile.
Si fa, altresì, riferimento allart. 506 c.p.p., comma 2, il quale prevede il potere del presidente di rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ed alle parti private solo dopo l’esame ed il controesame.
Detta disposizione, con ogni evidenza, costituisce un passaggio nevralgico della pronuncia in commento, atteso che un intervento officioso del giudice con finalità chiarificatrice dei fatti ed in funzione surrogatoria rispetto alle parti, può trovare giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio se – e solo se – non sia stato possibile ottenere i necessari chiarimenti mediante le domande che hanno posto le parti al testimone.
Così disegnato il quadro normativo di riferimento, la Corte di Cassazione, quanto alla vicenda sottoposta al suo scrutinio di legittimità, rileva come le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta ed in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa, ne abbiano gravemente pregiudicato l’attendibilità, di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni dalla stessa rese appaia radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata.
Ed invero, si legge nella sentenza in commento, “le domande rivolte dal consigliere relatore alla testimone – come risulta dalla trascrizione dell’esame testimoniale allegata al ricorso – presentano entrambi gli aspetti di suggestività e di nocività”.
Il Supremo Collegio, riportando pedissequamente la trascrizione di udienza, ha infatti ravvisato che le domande poste dal Giudice indirizzassero la teste verso una mera conferma di quanto chiesto, di fatto manipolandone la memoria.
Tirando le fila, può sostenersi – senza timore di smentita – come la Corte di Cassazione abbia colto l’occasione per stigmatizzare la frequente prassi che alberga durante gli esami testimoniali, che vede i giudici non soltanto intervenire di frequente durante l’esame ed il controesame ma, soprattutto, porre domande altamente suggestive.
Si tratta, a parere di chi scrive, di una fondamentale pronuncia, volta a garantire – anche in una prospettiva europeista – la legalità del metodo probatorio, quale che sia la fonte o il contesto in cui viene applicato.