Indice
1. Massima
2. La questione
3. Il fatto
4. La decisione impugnata
5. I motivi di ricorso
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
1. Massima
“I dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.
2. La questione
Il problema ermeneutico nasce dalla formulazione dell’art. 646 c.p. che punisce l’interversio possessionis operata su denaro o cose mobili altrui; ovvero la condotta consistente nell’attuare su beni di proprietà altrui atti dispositivi uti dominus con l’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Sintetizzando ed eviscerando il percorso logico argomentativo seguito dalla S.C. si proverà a spiegare come essa giunge alla enunciazione del principio di diritto sopra esposto.
3. Il fatto
La vicenda processuale ha a oggetto le condotte poste in essere dal dipendente di una società che dopo aver presentato le dimissioni veniva assunto da una nuova azienda operante nello stesso settore; prima di dimettersi egli aveva restituito il p.c. aziendale a lui affidato con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, che successivamente venivano in parte ritrovati sul suo pc.
4. La decisione impugnata
La Corte d’appello di Torino con sentenza del 14.6.2018 aveva parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale di Torino il 30.6.2017, nei confronti dell’imputato, assolvendolo dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. e affermandone la responsabilità in relazione al delitto di cui all’art. 646 c.p. (solo per una parte dei beni indicati nell’originaria imputazione), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, con revoca delle precedenti statuizioni civili che venivano sostituite con la condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e con la concessione di una provvisionale, in riferimento alla riconosciuta responsabilità per il solo delitto di appropriazione indebita.
La vicenda oggetto del processo riguardava, come detto, le condotte poste in essere dall’imputato, già dipendente della società omissis, che dopo essersi dimesso da quella società veniva assunto da una nuova compagine societaria, di recente costituzione, operante nello stesso settore. Prima di presentare le dimissioni l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, così provocando il malfunzionamento del sistema informatico aziendale e impossessandosi dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell’imputato su computer da lui utilizzati.
5. I motivi di ricorso
La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo:
1. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver ritenuto in modo erroneo che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essi essere qualificati come cose mobili.
2. mancanza e manifesta illogicità della motivazione, rispetto alla prova dell’esistenza dei dati informatici oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato.
Proponeva ricorso per cassazione anche la difesa della parte civile, deducendo:
1. mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla pronuncia di assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. perché la sentenza non aveva osservato l’obbligo di motivazione rafforzata, necessario per il ribaltamento della sentenza di condanna pronunciata in primo grado rispetto al dato della cancellazione dei messaggi di posta elettronica aziendale, impossibili da recuperare, così come dell’interruzione della procedura di back up.
2. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver escluso la sentenza la responsabilità dell’imputato, in relazione all’appropriazione indebita del data base esistente sul computer aziendale.
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
La S.C. è arrivata a ritenere infondato il primo motivo di ricorso avanzato dalla difesa dell’imputato; il presupposto da cui muove il Collegio è la definizione di “cosa mobile” inquadrata nel contesto storico dei giorni nostri, e avallata da quello che la Corte costituzionale ebbe a definire come “fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali”.
Non è la prima volta che gli Ermellini si confrontano con il tema della riconducibilità dei dati informatici nel novero delle “cose mobili” proprio con riguardo al delitto di appropriazione indebita; è stato in passato affermato invero che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale (Sez. 2, n. 33839 del 12/07/2011, Simone, Rv. 251179), salvo che la condotta abbia a oggetto i documenti che rappresentino detti beni (Sez. 5, n. 47105 del 30/09/2014, Capuzzimati, Rv. 261917).
Queste pronunce, rispetto al delitto di appropriazione indebita, traggono spunto dal tenore letterale della norma incriminatrice che, come detto, individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; e dalla nozione di “cosa mobile”, che nel diritto penale è caratterizzata dalla necessità che la res sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani); da ciò conseguirebbe l’esclusione delle entità immateriali dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione.
Tuttavia, ad avviso della Sezione II occorre guardare oltre; occorre ridefinire i files considerando innanzitutto la loro struttura di insieme di dati numerici tra loro collegati che assumono carattere materiale per esempio nella rappresentazione grafica, visiva e sonora; bisogna altresì ricordare della trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dal web.
Ancora, occorre più in generale “(re)interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio”.
Nel caso di specie occorrerebbe reinterpretare la categoria delle cose mobili.
Rileva dunque la Corte che sebbene i files non siano materialmente percettibili dal punto di vista sensoriale, possiedono una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui esso può essere conservato ed elaborato.
Pertanto l’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, che conduce alla conclusione che il dato informatico non possiede i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non sarebbe; al contrario se la analisi si focalizza su una nozione di dato informatico elaborata mediante gli insegnamenti delle altre scienze, si approda a conclusioni diametralmente opposte.
È vero che resta insuperabile la impossibilità di materiale apprensione del dato informatico, ma il quesito che si pone la Corte è se tale requisito sia davvero fondamentale al fine della qualificazione del file quale cosa mobile e quindi di bene suscettibile di condotte di appropriazione indebita. La risposta è negativa e si fonda sulla circostanza che il mutato panorama delle attività che l’uomo pone in essere avvalendosi delle apparecchiature informatiche impone la necessità di ridefinire nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.
Su tale presupposto la dottrina più autorevole è arrivata a ritenere che “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.
I files infatti “viaggiano” da un supporto informatico all’altro e nel web, vengono custoditi in ambienti virtuali (ex i cloud), e sono suscettibili di definizione con riguardo alla loro estensione e la capacità di contenere dati.
La Corte pone infine la sua interpretazione innanzi a un ultimo esame; si pone invero il dubbio se tale ricostruzione sia in contrasto con il principio di legalità, e i suoi corollari della tassatività e della determinatezza.
Se quest’ultimo non pare compromesso in alcun senso, per corroborare il rispetto del principio di tassatività della propria interpretazione la S.C. richiama gli insegnamenti della Giurisprudenza Costituzionale; questa informa che non si crea “un vulnus nel parametro costituzionale evocato, mediante l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici” se la descrizione consente di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e permette altresì al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata precetto in essa contenuto (cfr. Corte cost., n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).
Dunque “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce” (Corte cost., n. 327 del 2008).
È infine auspicabile che questa pronuncia tracci il solco per il futuro e che il procedimento logico/interpretativo da essa adottato sia preso a modello anche per la rielaborazione di ulteriori categorie e fattispecie, nella prospettiva di un diritto penale più aderente all’epoca in cui viviamo.
L’appropriazione indebita di dati informatici
Articolo a cura dell’Avv. Marco Napolitano
Con sentenza n. 11959/2020 la II Sezione Penale della Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sul tema della configurabilità del delitto di appropriazione indebita nel caso di sottrazione di dati informatici afferma, in controtendenza con altro precedente orientamento, che i file possono essere considerati “cose mobili” e che sono dunque suscettibili di appropriazione indebita.
Indice
1. Massima
2. La questione
3. Il fatto
4. La decisione impugnata
5. I motivi di ricorso
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
1. Massima
“I dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.
2. La questione
Il problema ermeneutico nasce dalla formulazione dell’art. 646 c.p. che punisce l’interversio possessionis operata su denaro o cose mobili altrui; ovvero la condotta consistente nell’attuare su beni di proprietà altrui atti dispositivi uti dominus con l’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Sintetizzando ed eviscerando il percorso logico argomentativo seguito dalla S.C. si proverà a spiegare come essa giunge alla enunciazione del principio di diritto sopra esposto.
3. Il fatto
La vicenda processuale ha a oggetto le condotte poste in essere dal dipendente di una società che dopo aver presentato le dimissioni veniva assunto da una nuova azienda operante nello stesso settore; prima di dimettersi egli aveva restituito il p.c. aziendale a lui affidato con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, che successivamente venivano in parte ritrovati sul suo pc.
4. La decisione impugnata
La Corte d’appello di Torino con sentenza del 14.6.2018 aveva parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale di Torino il 30.6.2017, nei confronti dell’imputato, assolvendolo dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. e affermandone la responsabilità in relazione al delitto di cui all’art. 646 c.p. (solo per una parte dei beni indicati nell’originaria imputazione), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, con revoca delle precedenti statuizioni civili che venivano sostituite con la condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e con la concessione di una provvisionale, in riferimento alla riconosciuta responsabilità per il solo delitto di appropriazione indebita.
La vicenda oggetto del processo riguardava, come detto, le condotte poste in essere dall’imputato, già dipendente della società omissis, che dopo essersi dimesso da quella società veniva assunto da una nuova compagine societaria, di recente costituzione, operante nello stesso settore. Prima di presentare le dimissioni l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, così provocando il malfunzionamento del sistema informatico aziendale e impossessandosi dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell’imputato su computer da lui utilizzati.
5. I motivi di ricorso
La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo:
1. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver ritenuto in modo erroneo che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essi essere qualificati come cose mobili.
2. mancanza e manifesta illogicità della motivazione, rispetto alla prova dell’esistenza dei dati informatici oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato.
Proponeva ricorso per cassazione anche la difesa della parte civile, deducendo:
1. mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla pronuncia di assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. perché la sentenza non aveva osservato l’obbligo di motivazione rafforzata, necessario per il ribaltamento della sentenza di condanna pronunciata in primo grado rispetto al dato della cancellazione dei messaggi di posta elettronica aziendale, impossibili da recuperare, così come dell’interruzione della procedura di back up.
2. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver escluso la sentenza la responsabilità dell’imputato, in relazione all’appropriazione indebita del data base esistente sul computer aziendale.
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
La S.C. è arrivata a ritenere infondato il primo motivo di ricorso avanzato dalla difesa dell’imputato; il presupposto da cui muove il Collegio è la definizione di “cosa mobile” inquadrata nel contesto storico dei giorni nostri, e avallata da quello che la Corte costituzionale ebbe a definire come “fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali”.
Non è la prima volta che gli Ermellini si confrontano con il tema della riconducibilità dei dati informatici nel novero delle “cose mobili” proprio con riguardo al delitto di appropriazione indebita; è stato in passato affermato invero che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale (Sez. 2, n. 33839 del 12/07/2011, Simone, Rv. 251179), salvo che la condotta abbia a oggetto i documenti che rappresentino detti beni (Sez. 5, n. 47105 del 30/09/2014, Capuzzimati, Rv. 261917).
Queste pronunce, rispetto al delitto di appropriazione indebita, traggono spunto dal tenore letterale della norma incriminatrice che, come detto, individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; e dalla nozione di “cosa mobile”, che nel diritto penale è caratterizzata dalla necessità che la res sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani); da ciò conseguirebbe l’esclusione delle entità immateriali dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione.
Tuttavia, ad avviso della Sezione II occorre guardare oltre; occorre ridefinire i files considerando innanzitutto la loro struttura di insieme di dati numerici tra loro collegati che assumono carattere materiale per esempio nella rappresentazione grafica, visiva e sonora; bisogna altresì ricordare della trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dal web.
Ancora, occorre più in generale “(re)interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio”.
Nel caso di specie occorrerebbe reinterpretare la categoria delle cose mobili.
Rileva dunque la Corte che sebbene i files non siano materialmente percettibili dal punto di vista sensoriale, possiedono una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui esso può essere conservato ed elaborato.
Pertanto l’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, che conduce alla conclusione che il dato informatico non possiede i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non sarebbe; al contrario se la analisi si focalizza su una nozione di dato informatico elaborata mediante gli insegnamenti delle altre scienze, si approda a conclusioni diametralmente opposte.
È vero che resta insuperabile la impossibilità di materiale apprensione del dato informatico, ma il quesito che si pone la Corte è se tale requisito sia davvero fondamentale al fine della qualificazione del file quale cosa mobile e quindi di bene suscettibile di condotte di appropriazione indebita. La risposta è negativa e si fonda sulla circostanza che il mutato panorama delle attività che l’uomo pone in essere avvalendosi delle apparecchiature informatiche impone la necessità di ridefinire nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.
Su tale presupposto la dottrina più autorevole è arrivata a ritenere che “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.
I files infatti “viaggiano” da un supporto informatico all’altro e nel web, vengono custoditi in ambienti virtuali (ex i cloud), e sono suscettibili di definizione con riguardo alla loro estensione e la capacità di contenere dati.
La Corte pone infine la sua interpretazione innanzi a un ultimo esame; si pone invero il dubbio se tale ricostruzione sia in contrasto con il principio di legalità, e i suoi corollari della tassatività e della determinatezza.
Se quest’ultimo non pare compromesso in alcun senso, per corroborare il rispetto del principio di tassatività della propria interpretazione la S.C. richiama gli insegnamenti della Giurisprudenza Costituzionale; questa informa che non si crea “un vulnus nel parametro costituzionale evocato, mediante l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici” se la descrizione consente di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e permette altresì al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata precetto in essa contenuto (cfr. Corte cost., n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).
Dunque “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce” (Corte cost., n. 327 del 2008).
È infine auspicabile che questa pronuncia tracci il solco per il futuro e che il procedimento logico/interpretativo da essa adottato sia preso a modello anche per la rielaborazione di ulteriori categorie e fattispecie, nella prospettiva di un diritto penale più aderente all’epoca in cui viviamo.
Indice
1. Massima
2. La questione
3. Il fatto
4. La decisione impugnata
5. I motivi di ricorso
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
1. Massima
“I dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.
2. La questione
Il problema ermeneutico nasce dalla formulazione dell’art. 646 c.p. che punisce l’interversio possessionis operata su denaro o cose mobili altrui; ovvero la condotta consistente nell’attuare su beni di proprietà altrui atti dispositivi uti dominus con l’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Sintetizzando ed eviscerando il percorso logico argomentativo seguito dalla S.C. si proverà a spiegare come essa giunge alla enunciazione del principio di diritto sopra esposto.
3. Il fatto
La vicenda processuale ha a oggetto le condotte poste in essere dal dipendente di una società che dopo aver presentato le dimissioni veniva assunto da una nuova azienda operante nello stesso settore; prima di dimettersi egli aveva restituito il p.c. aziendale a lui affidato con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, che successivamente venivano in parte ritrovati sul suo pc.
4. La decisione impugnata
La Corte d’appello di Torino con sentenza del 14.6.2018 aveva parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale di Torino il 30.6.2017, nei confronti dell’imputato, assolvendolo dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. e affermandone la responsabilità in relazione al delitto di cui all’art. 646 c.p. (solo per una parte dei beni indicati nell’originaria imputazione), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, con revoca delle precedenti statuizioni civili che venivano sostituite con la condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e con la concessione di una provvisionale, in riferimento alla riconosciuta responsabilità per il solo delitto di appropriazione indebita.
La vicenda oggetto del processo riguardava, come detto, le condotte poste in essere dall’imputato, già dipendente della società omissis, che dopo essersi dimesso da quella società veniva assunto da una nuova compagine societaria, di recente costituzione, operante nello stesso settore. Prima di presentare le dimissioni l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, così provocando il malfunzionamento del sistema informatico aziendale e impossessandosi dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell’imputato su computer da lui utilizzati.
5. I motivi di ricorso
La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo:
1. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver ritenuto in modo erroneo che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essi essere qualificati come cose mobili.
2. mancanza e manifesta illogicità della motivazione, rispetto alla prova dell’esistenza dei dati informatici oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato.
Proponeva ricorso per cassazione anche la difesa della parte civile, deducendo:
1. mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla pronuncia di assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. perché la sentenza non aveva osservato l’obbligo di motivazione rafforzata, necessario per il ribaltamento della sentenza di condanna pronunciata in primo grado rispetto al dato della cancellazione dei messaggi di posta elettronica aziendale, impossibili da recuperare, così come dell’interruzione della procedura di back up.
2. violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver escluso la sentenza la responsabilità dell’imputato, in relazione all’appropriazione indebita del data base esistente sul computer aziendale.
6. La sentenza, un nuovo approccio interpretativo
La S.C. è arrivata a ritenere infondato il primo motivo di ricorso avanzato dalla difesa dell’imputato; il presupposto da cui muove il Collegio è la definizione di “cosa mobile” inquadrata nel contesto storico dei giorni nostri, e avallata da quello che la Corte costituzionale ebbe a definire come “fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali”.
Non è la prima volta che gli Ermellini si confrontano con il tema della riconducibilità dei dati informatici nel novero delle “cose mobili” proprio con riguardo al delitto di appropriazione indebita; è stato in passato affermato invero che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale (Sez. 2, n. 33839 del 12/07/2011, Simone, Rv. 251179), salvo che la condotta abbia a oggetto i documenti che rappresentino detti beni (Sez. 5, n. 47105 del 30/09/2014, Capuzzimati, Rv. 261917).
Queste pronunce, rispetto al delitto di appropriazione indebita, traggono spunto dal tenore letterale della norma incriminatrice che, come detto, individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; e dalla nozione di “cosa mobile”, che nel diritto penale è caratterizzata dalla necessità che la res sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani); da ciò conseguirebbe l’esclusione delle entità immateriali dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione.
Tuttavia, ad avviso della Sezione II occorre guardare oltre; occorre ridefinire i files considerando innanzitutto la loro struttura di insieme di dati numerici tra loro collegati che assumono carattere materiale per esempio nella rappresentazione grafica, visiva e sonora; bisogna altresì ricordare della trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dal web.
Ancora, occorre più in generale “(re)interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio”.
Nel caso di specie occorrerebbe reinterpretare la categoria delle cose mobili.
Rileva dunque la Corte che sebbene i files non siano materialmente percettibili dal punto di vista sensoriale, possiedono una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui esso può essere conservato ed elaborato.
Pertanto l’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, che conduce alla conclusione che il dato informatico non possiede i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non sarebbe; al contrario se la analisi si focalizza su una nozione di dato informatico elaborata mediante gli insegnamenti delle altre scienze, si approda a conclusioni diametralmente opposte.
È vero che resta insuperabile la impossibilità di materiale apprensione del dato informatico, ma il quesito che si pone la Corte è se tale requisito sia davvero fondamentale al fine della qualificazione del file quale cosa mobile e quindi di bene suscettibile di condotte di appropriazione indebita. La risposta è negativa e si fonda sulla circostanza che il mutato panorama delle attività che l’uomo pone in essere avvalendosi delle apparecchiature informatiche impone la necessità di ridefinire nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.
Su tale presupposto la dottrina più autorevole è arrivata a ritenere che “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.
I files infatti “viaggiano” da un supporto informatico all’altro e nel web, vengono custoditi in ambienti virtuali (ex i cloud), e sono suscettibili di definizione con riguardo alla loro estensione e la capacità di contenere dati.
La Corte pone infine la sua interpretazione innanzi a un ultimo esame; si pone invero il dubbio se tale ricostruzione sia in contrasto con il principio di legalità, e i suoi corollari della tassatività e della determinatezza.
Se quest’ultimo non pare compromesso in alcun senso, per corroborare il rispetto del principio di tassatività della propria interpretazione la S.C. richiama gli insegnamenti della Giurisprudenza Costituzionale; questa informa che non si crea “un vulnus nel parametro costituzionale evocato, mediante l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici” se la descrizione consente di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e permette altresì al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata precetto in essa contenuto (cfr. Corte cost., n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).
Dunque “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce” (Corte cost., n. 327 del 2008).
È infine auspicabile che questa pronuncia tracci il solco per il futuro e che il procedimento logico/interpretativo da essa adottato sia preso a modello anche per la rielaborazione di ulteriori categorie e fattispecie, nella prospettiva di un diritto penale più aderente all’epoca in cui viviamo.
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Misure di prevenzione: anche l’avviso del Questore sotto la lente della Corte Costituzionale
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