Illegittimità dei DPCM Covid-19: una sentenza coraggiosa, ma a corto di ossigeno

Illegittimità dpcm

Indice

1. Introduzione
2. L’impianto motivazionale
3. I difetti dell’interpretazione fornita
4. Il futuro di un tale indirizzo

1. Introduzione

Sta facendo molto discutere in questi giorni una sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, la 54/2021, emessa da Giudice per le indagini preliminari, il quale ha assolto due imputati dal reato di falsità ideologica commessa dal privato in un atto pubblico (nello specifico l’autocertificazione per gli spostamenti nel periodo di c.d. lockdown), in ragione del fatto che il provvedimento amministrativo presupposto dell’autocertificazione, il DPCM per il contenimento dell’emergenza COVID-19, sarebbe da ritenere illegittimo e quindi da disapplicare. In ragione di tale disapplicazione, stante la condotta illecita, questa configurerebbe un “falso innocuo”, ovvero un falso caratterizzato da assenza di antigiuridicità.
Tale conclusione, non appellata dal Pubblico Ministero, ha formato giudicato e potrà essere la base per sostenere la disapplicazione dei DPCM ma anche, come si vedrà, di eventuali atti legislativi specifici, quali i Decreti Legge.

2. L’impianto motivazionale

La Sentenza parte da una valutazione degli effetti sortiti dalla regolamentazione del Governo per fronteggiare l’epidemia, per poi procedere con una logica rigorosa ma, come si tenterà di dimostrare, fallace.
Il punto di partenza è quindi l’effettiva natura del DPCM dell’8 marzo 2020, il quale prevedeva, come noto, il divieto di spostamento delle persone fisiche in entrata ed in uscita dai territori, nonché all’interno dei medesimi territori, indicati nel Decreto stesso.
Tale dicitura, a detta del Giudice, altro non sarebbe che una limitazione della libertà personale, nello specifico un obbligo di permanenza domicialiare, del tutto assimilabile alla detenzione.
In base a tale assunto, il DPCM non starebbe incidendo sul diritto di circolazione dei cittadini, quanto più propriamente sulla loro libertà personale, con ciò violando apertamente il dettato costituzionale che prevede, nel caso dell’art. 13 Cost., un “atto motivato dall’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
A sostegno di tale impostazione il GIP di Reggio Emilia cita la sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 1996 la quale aveva stabilito che il prelievo ematico coattivo integra una violazione della libertà personale che, quindi, può essere effettuato solo in ossequio alle garanzie speciali dell’art. 13 Costituzione. A fortiori si dovrebbe, quindi, ritenere restrittivo della libertà personale un provvedimento che costringa, non direttamente ma di fatto, a rimanere nella propria abitazione, tra l’altro in modo indifferenziato, per tutti i cittadini.
Non sarebbe nemmeno sufficiente ricondurre la limitazione dei diritti dei cittadini nell’alveo del diritto alla circolazione, di cui all’art. 16 Cost., che consentirebbe limitazioni in forza di una legge per motivi di sanità o sicurezza.
In questo caso il Giudice de quo fa riferimento ad una sentenza risalente della Corte Costituzionale, la n. 68 del 1964, la quale affermerebbe una differenza fra l’oggetto della previsione normativa tra la limitazione della libertà personale e del diritto alla circolazione: nel caso del primo la limitazione riguarda le persone ed il loro spostamento, nel secondo caso si tratterebbe di vietare l’accesso a determinati luoghi pericolosi.
Infine, la conclusione logica cui giunge il Tribunale emiliano non può che essere, da un lato, la disapplicazione del DPCM, in quanto trattasi di atto amministrativo illegittimo, dall’altro anche un eventuale riproposizione delle medesime misure, attuate con un vero e proprio atto legislativo, quale il Decreto Legge, non sarebbe sufficiente e dovrebbe essere rimessa questione di legittimità costituzionale dello stesso, in ragione di quanto in merito alla doppia riserva, di legge ma anche di giurisdizione.

3. I difetti dell’interpretazione fornita

Occorre, innanzitutto, sgombrare il campo da una lettura distorta della sentenza del Giudice delle Leggi, per la precisione la n. 68 del 1964, relativa alla differenza fra limitazione del diritto di circolazione e limitazione della libertà personale.
Rispetto a quanto affermato dal Tribunale di Reggio Emilia, la Corte Costituzionale si è trovata a valutare un caso esattamente opposto a quello oggetto del giudizio.
Partendo dal caso di una persona soggetta a foglio di via, la domanda posta alla Corte riguardava la legittimità di una legge che potesse limitare il diritto di circolazione ad un soggetto singolo, piuttosto che ad un gruppo non specificato.
La Corte, proprio qualificando quale presupposta la facoltà di limitare tale diritto ad un gruppo indifferenziato di cittadini ha affermato che l‘art. 16 Cost. è compatibile con tali casi particolari al pari di quelli di carattere generale giustificati da motivi di salute o di sicurezza, facendo espressamente un esempio al riguardo: “Necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose”. Il punto della Corte era, quindi, valutare l’ammissibilità di un’applicazione al singolo cittadino piuttosto che alla generalità, e non distinguere i casi in cui trattasi di limitazione della circolazione ovvero di limitazione della libertà personale. Certamente è presente il riferimento, nella sentenza citata, anche al caso in cui vi sia la “necessità di vietare l’accesso a località infette o pericolanti, o di ordinarne lo sgombero”, tuttavia, tale esempio, se letto correttamente, intende affermare che le ragioni di sanità o sicurezza possono ben essere motivate da ragioni di carattere generale.[1] Non si può ritenere intellettualmente onesto prendere tale esempio quale principio di diritto, riguardando, la Sentenza, esattamente il caso opposto a quello odierno.
Se è innegabile, quindi, il fatto che, tradizionalmente, si distinguono i due articoli sulla base dei soggetti coinvolti, l’art. 13 tutelando da misure individuali arbitrarie, mentre l’art. 16 rivolgendosi ad una massa indistinta, bisogna anche aggiungere che le differenze fra questi due principi non si esauriscono nei destinatari, né tantomeno nella differente modalità richiesta per l’attuazione delle eccezioni.
L’art. 13 Cost. tutela la libertà quale principio assoluto dell’individuo, valido tanto per i cittadini che per gli stranieri e gli apolidi, e che non si esaurisce unicamente nella possibilità o meno di muoversi per il territorio dello Stato, facoltà che difatti è garantita dall’art. 16 Cost., tra l’altro ai soli cittadini. La gravità di una restrizione della libertà non consiste semplicemente nel fatto di rimuovere la libertà di movimento, sebbene questa sia effettivamente inclusa, almeno in qualche misura, ma coinvolge altre sfere della personalità, quali la libertà di manifestazione del pensiero o di comunicare (si pensi alle prescrizioni che vietano l’uso di sistemi di comunicazione con l’esterno nella carcerazione inframuraria), così come anche la stessa integrità fisica (in tal senso va letta la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996 citata dal GIP di Reggio Emilia).
Lo stesso Giudice di Reggio Emilia ammette, fra l’altro, che l’art. 13 Cost., postulando un principio di doppia riserva, di legge e di giurisdizione, imporrebbe non solo una previsione legislativa, quindi non un mero atto amministrativo, seppur previsto da un Decreto Legge, ma un atto specifico dell’Autorità Giudiziaria, la quale dovrebbe esprimersi per il caso concreto ed individuale del singolo cittadino costretto alla “detenzione”.
Ebbene, in tal senso si richiamano le interessanti conclusioni di Marco Bignami[2], il quale analizza saggiamente la differenza intercorrente fra l’astrattezza della legge, la quale configura un potere in senso generale, e l’applicazione pratica di quel potere, il quale ben si può tradurre in arbitrio nel caso in cui non vi siano dei limiti specifici cui attenersi. In questi casi, continua l’Autore, non si può che fare affidamento su un soggetto terzo, il Giudice, che ben potrà valutare ed eliminare l’eventuale arbitrio. L’esempio, curiosamente anche utilizzato dal Tribunale di Reggio Emilia in motivazione, cade sul Trattamento Sanitario Obbligatorio, il quale è considerato un atto lesivo della libertà personale. Proprio il TSO permette di comprendere l’errore in cui è incorso il GIP: tale atto è basato su una valutazione medica necessariamente arbitraria, seppur basata su conoscenze scientifiche (comunque non esatte), e necessariamente individuale. È esattamente l’individualità che porta ad una necessità di tutela del singolo che potrebbe subire applicazioni arbitrarie di un potere generale ed astratto.
L’impianto normativo in oggetto, al contrario, non lascerebbe spazio alcuno ad arbitrii di qualsivoglia genere. La legge stessa ha preso atto del pericolo per la salute e predisposto strumenti per contrastare l’epidemia, strumenti che non possono, in ogni caso, giungere alla coercizione fisica. Semmai, potrebbe essere sindacata la modalità con la quale il DPCM ha agito nel concreto, ma tale problema dovrebbe trovare soluzione nella diversa sede del giudice amministrativo.
I rilievi posti nello scritto poc’anzi citato sono, a parere del sottoscritto, assolutamente idonei a fugare ogni dubbio riguardo la possibilità che vi sia una violazione dell‘art. 13 Cost. mascherata da restrizione del diritto alla circolazione. 
D’altronde, in base al ragionamento del giudice emiliano, sarebbero illegittimi tutti i provvedimenti di quarantena giustificati dal contatto con positivi, ovvero per coloro rientranti nel periodo antecente dalla Cina, e stabiliti inizialmente mediante Ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020, e successivamente confermati da ogni singolo provvedimento emesso in materia. In ognuno di tali casi, stando al ragionamento, si imporrebbe un controllo giudiziario sui presupposti che avrebbero portato alla quarantena per ogni singolo caso di positività ovvero di contatto con positivi. Si lascia al lettore la valutazione, anche per la mera applicabilità concreta, di una simile conclusione logica.
Tale conclusione è strettamente connessa, infine, con l’ulteriore tesi sostenuta dal Giudice: nemmeno attraverso un atto legislativo ad hoc si potrebbe superare la doppia riserva prevista dall’art. 13 Cost.
Ancora una volta, partendo dal punto di vista errato, ovvero che la misura voluta dal Governo sarebbe niente di meno che una lesione della libertà personale, l’unico approdo non può che essere quello di considerare necessario il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria per ogni singolo caso. In questo senso non si potrebbe superare il problema sostituendo l’uso dei DPCM con una legge.

4. Il futuro di un tale indirizzo

Tale sentenza, in quanto passata in giudicato, potrà servire certamente quale base per proporre doglianze in moltissimi altri casi simili, tutti coinvolgenti le misure adottate mediante i Decreti del Presidente del Consiglio.
Tuttavia, è altrettanto da ritenere, ma si attende con curiosità i successivi sviluppi giurisprudenziali, che tale interpretazione non abbia l’ossigeno necessario per giungere ad una conferma nelle più alte sedi giurisdizionali italiane. Nel frattempo, pur non trattandosi di una sentenza di legittimità, è da immaginare che vi sarà una corsa, più che legittima, a sfruttare l’apertura fornita da una tale interpretazione del dettato costituzionale.


[1] A voler essere pignoli si potrebbe affermare che lo “sgombero” di cui parla la Corte, sarebbe del tutto analogo al divieto di occupare le strade ed i mezzi pubblici senza un valido motivo.
[2] https://www.questionegiustizia.it/articolo/chiacchiericcio-sulle-liberta-costituzionali-al-tempo-del-coronavirus_07-04-2020.php

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1. Introduzione
2. L’impianto motivazionale
3. I difetti dell’interpretazione fornita
4. Il futuro di un tale indirizzo

1. Introduzione

Sta facendo molto discutere in questi giorni una sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, la 54/2021, emessa da Giudice per le indagini preliminari, il quale ha assolto due imputati dal reato di falsità ideologica commessa dal privato in un atto pubblico (nello specifico l’autocertificazione per gli spostamenti nel periodo di c.d. lockdown), in ragione del fatto che il provvedimento amministrativo presupposto dell’autocertificazione, il DPCM per il contenimento dell’emergenza COVID-19, sarebbe da ritenere illegittimo e quindi da disapplicare. In ragione di tale disapplicazione, stante la condotta illecita, questa configurerebbe un “falso innocuo”, ovvero un falso caratterizzato da assenza di antigiuridicità.
Tale conclusione, non appellata dal Pubblico Ministero, ha formato giudicato e potrà essere la base per sostenere la disapplicazione dei DPCM ma anche, come si vedrà, di eventuali atti legislativi specifici, quali i Decreti Legge.

2. L’impianto motivazionale

La Sentenza parte da una valutazione degli effetti sortiti dalla regolamentazione del Governo per fronteggiare l’epidemia, per poi procedere con una logica rigorosa ma, come si tenterà di dimostrare, fallace.
Il punto di partenza è quindi l’effettiva natura del DPCM dell’8 marzo 2020, il quale prevedeva, come noto, il divieto di spostamento delle persone fisiche in entrata ed in uscita dai territori, nonché all’interno dei medesimi territori, indicati nel Decreto stesso.
Tale dicitura, a detta del Giudice, altro non sarebbe che una limitazione della libertà personale, nello specifico un obbligo di permanenza domicialiare, del tutto assimilabile alla detenzione.
In base a tale assunto, il DPCM non starebbe incidendo sul diritto di circolazione dei cittadini, quanto più propriamente sulla loro libertà personale, con ciò violando apertamente il dettato costituzionale che prevede, nel caso dell’art. 13 Cost., un “atto motivato dall’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
A sostegno di tale impostazione il GIP di Reggio Emilia cita la sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 1996 la quale aveva stabilito che il prelievo ematico coattivo integra una violazione della libertà personale che, quindi, può essere effettuato solo in ossequio alle garanzie speciali dell’art. 13 Costituzione. A fortiori si dovrebbe, quindi, ritenere restrittivo della libertà personale un provvedimento che costringa, non direttamente ma di fatto, a rimanere nella propria abitazione, tra l’altro in modo indifferenziato, per tutti i cittadini.
Non sarebbe nemmeno sufficiente ricondurre la limitazione dei diritti dei cittadini nell’alveo del diritto alla circolazione, di cui all’art. 16 Cost., che consentirebbe limitazioni in forza di una legge per motivi di sanità o sicurezza.
In questo caso il Giudice de quo fa riferimento ad una sentenza risalente della Corte Costituzionale, la n. 68 del 1964, la quale affermerebbe una differenza fra l’oggetto della previsione normativa tra la limitazione della libertà personale e del diritto alla circolazione: nel caso del primo la limitazione riguarda le persone ed il loro spostamento, nel secondo caso si tratterebbe di vietare l’accesso a determinati luoghi pericolosi.
Infine, la conclusione logica cui giunge il Tribunale emiliano non può che essere, da un lato, la disapplicazione del DPCM, in quanto trattasi di atto amministrativo illegittimo, dall’altro anche un eventuale riproposizione delle medesime misure, attuate con un vero e proprio atto legislativo, quale il Decreto Legge, non sarebbe sufficiente e dovrebbe essere rimessa questione di legittimità costituzionale dello stesso, in ragione di quanto in merito alla doppia riserva, di legge ma anche di giurisdizione.

3. I difetti dell’interpretazione fornita

Occorre, innanzitutto, sgombrare il campo da una lettura distorta della sentenza del Giudice delle Leggi, per la precisione la n. 68 del 1964, relativa alla differenza fra limitazione del diritto di circolazione e limitazione della libertà personale.
Rispetto a quanto affermato dal Tribunale di Reggio Emilia, la Corte Costituzionale si è trovata a valutare un caso esattamente opposto a quello oggetto del giudizio.
Partendo dal caso di una persona soggetta a foglio di via, la domanda posta alla Corte riguardava la legittimità di una legge che potesse limitare il diritto di circolazione ad un soggetto singolo, piuttosto che ad un gruppo non specificato.
La Corte, proprio qualificando quale presupposta la facoltà di limitare tale diritto ad un gruppo indifferenziato di cittadini ha affermato che l‘art. 16 Cost. è compatibile con tali casi particolari al pari di quelli di carattere generale giustificati da motivi di salute o di sicurezza, facendo espressamente un esempio al riguardo: “Necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose”. Il punto della Corte era, quindi, valutare l’ammissibilità di un’applicazione al singolo cittadino piuttosto che alla generalità, e non distinguere i casi in cui trattasi di limitazione della circolazione ovvero di limitazione della libertà personale. Certamente è presente il riferimento, nella sentenza citata, anche al caso in cui vi sia la “necessità di vietare l’accesso a località infette o pericolanti, o di ordinarne lo sgombero”, tuttavia, tale esempio, se letto correttamente, intende affermare che le ragioni di sanità o sicurezza possono ben essere motivate da ragioni di carattere generale.[1] Non si può ritenere intellettualmente onesto prendere tale esempio quale principio di diritto, riguardando, la Sentenza, esattamente il caso opposto a quello odierno.
Se è innegabile, quindi, il fatto che, tradizionalmente, si distinguono i due articoli sulla base dei soggetti coinvolti, l’art. 13 tutelando da misure individuali arbitrarie, mentre l’art. 16 rivolgendosi ad una massa indistinta, bisogna anche aggiungere che le differenze fra questi due principi non si esauriscono nei destinatari, né tantomeno nella differente modalità richiesta per l’attuazione delle eccezioni.
L’art. 13 Cost. tutela la libertà quale principio assoluto dell’individuo, valido tanto per i cittadini che per gli stranieri e gli apolidi, e che non si esaurisce unicamente nella possibilità o meno di muoversi per il territorio dello Stato, facoltà che difatti è garantita dall’art. 16 Cost., tra l’altro ai soli cittadini. La gravità di una restrizione della libertà non consiste semplicemente nel fatto di rimuovere la libertà di movimento, sebbene questa sia effettivamente inclusa, almeno in qualche misura, ma coinvolge altre sfere della personalità, quali la libertà di manifestazione del pensiero o di comunicare (si pensi alle prescrizioni che vietano l’uso di sistemi di comunicazione con l’esterno nella carcerazione inframuraria), così come anche la stessa integrità fisica (in tal senso va letta la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996 citata dal GIP di Reggio Emilia).
Lo stesso Giudice di Reggio Emilia ammette, fra l’altro, che l’art. 13 Cost., postulando un principio di doppia riserva, di legge e di giurisdizione, imporrebbe non solo una previsione legislativa, quindi non un mero atto amministrativo, seppur previsto da un Decreto Legge, ma un atto specifico dell’Autorità Giudiziaria, la quale dovrebbe esprimersi per il caso concreto ed individuale del singolo cittadino costretto alla “detenzione”.
Ebbene, in tal senso si richiamano le interessanti conclusioni di Marco Bignami[2], il quale analizza saggiamente la differenza intercorrente fra l’astrattezza della legge, la quale configura un potere in senso generale, e l’applicazione pratica di quel potere, il quale ben si può tradurre in arbitrio nel caso in cui non vi siano dei limiti specifici cui attenersi. In questi casi, continua l’Autore, non si può che fare affidamento su un soggetto terzo, il Giudice, che ben potrà valutare ed eliminare l’eventuale arbitrio. L’esempio, curiosamente anche utilizzato dal Tribunale di Reggio Emilia in motivazione, cade sul Trattamento Sanitario Obbligatorio, il quale è considerato un atto lesivo della libertà personale. Proprio il TSO permette di comprendere l’errore in cui è incorso il GIP: tale atto è basato su una valutazione medica necessariamente arbitraria, seppur basata su conoscenze scientifiche (comunque non esatte), e necessariamente individuale. È esattamente l’individualità che porta ad una necessità di tutela del singolo che potrebbe subire applicazioni arbitrarie di un potere generale ed astratto.
L’impianto normativo in oggetto, al contrario, non lascerebbe spazio alcuno ad arbitrii di qualsivoglia genere. La legge stessa ha preso atto del pericolo per la salute e predisposto strumenti per contrastare l’epidemia, strumenti che non possono, in ogni caso, giungere alla coercizione fisica. Semmai, potrebbe essere sindacata la modalità con la quale il DPCM ha agito nel concreto, ma tale problema dovrebbe trovare soluzione nella diversa sede del giudice amministrativo.
I rilievi posti nello scritto poc’anzi citato sono, a parere del sottoscritto, assolutamente idonei a fugare ogni dubbio riguardo la possibilità che vi sia una violazione dell‘art. 13 Cost. mascherata da restrizione del diritto alla circolazione. 
D’altronde, in base al ragionamento del giudice emiliano, sarebbero illegittimi tutti i provvedimenti di quarantena giustificati dal contatto con positivi, ovvero per coloro rientranti nel periodo antecente dalla Cina, e stabiliti inizialmente mediante Ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020, e successivamente confermati da ogni singolo provvedimento emesso in materia. In ognuno di tali casi, stando al ragionamento, si imporrebbe un controllo giudiziario sui presupposti che avrebbero portato alla quarantena per ogni singolo caso di positività ovvero di contatto con positivi. Si lascia al lettore la valutazione, anche per la mera applicabilità concreta, di una simile conclusione logica.
Tale conclusione è strettamente connessa, infine, con l’ulteriore tesi sostenuta dal Giudice: nemmeno attraverso un atto legislativo ad hoc si potrebbe superare la doppia riserva prevista dall’art. 13 Cost.
Ancora una volta, partendo dal punto di vista errato, ovvero che la misura voluta dal Governo sarebbe niente di meno che una lesione della libertà personale, l’unico approdo non può che essere quello di considerare necessario il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria per ogni singolo caso. In questo senso non si potrebbe superare il problema sostituendo l’uso dei DPCM con una legge.

4. Il futuro di un tale indirizzo

Tale sentenza, in quanto passata in giudicato, potrà servire certamente quale base per proporre doglianze in moltissimi altri casi simili, tutti coinvolgenti le misure adottate mediante i Decreti del Presidente del Consiglio.
Tuttavia, è altrettanto da ritenere, ma si attende con curiosità i successivi sviluppi giurisprudenziali, che tale interpretazione non abbia l’ossigeno necessario per giungere ad una conferma nelle più alte sedi giurisdizionali italiane. Nel frattempo, pur non trattandosi di una sentenza di legittimità, è da immaginare che vi sarà una corsa, più che legittima, a sfruttare l’apertura fornita da una tale interpretazione del dettato costituzionale.


[1] A voler essere pignoli si potrebbe affermare che lo “sgombero” di cui parla la Corte, sarebbe del tutto analogo al divieto di occupare le strade ed i mezzi pubblici senza un valido motivo.
[2] https://www.questionegiustizia.it/articolo/chiacchiericcio-sulle-liberta-costituzionali-al-tempo-del-coronavirus_07-04-2020.php