La sentenza pone l’accento sul fatto che il carcere ordinario non sia il luogo adatto per ospitare i soggetti malati.
Il ricorrente in questo caso, che soffriva di un disturbo della personalità e di un disturbo bipolare, era rimasto in detenzione in carcere per quasi due anni – nonostante le decisioni dei tribunali interni affermassero che la sua salute mentale era incompatibile con tale detenzione – prima di essere trasferito in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (REMS), e successivamente ad un servizio psichiatrico carcerario. La Corte ha ritenuto che il detenuto non avesse beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per il trattamento del suo disturbo, in un contesto generale di cattive condizioni di detenzione.
Nella sentenza la Cedu ha stabilito che l’Italia dovrà versare 36.400 euro per danni morali al giovane detenuto.
La vicenda
Nell’estate del 2018 Giacomo Seydou Sy, italiano classe 1994 (nipote del celebre attore Kim Rossi Stuart), affetto da bipolarismo e disturbi della personalità, veniva arrestato per furto, molestie ripetute nei confronti dell’ex fidanzata e resistenza alle forze dell’ordine.
Gli esperti hanno giudicato Giacomo socialmente pericoloso ma anche parzialmente irresponsabile degli atti commessi. Soprattutto però, hanno accertato che il suo stato di salute non era compatibile con la detenzione in una prigione ordinaria. Ciononostante, l’uomo trascorre in carcere, a Rebibbia, due anni. Una delle ragioni è che le autorità non sono state in grado di trovare un’alternativa.
Nonostante le sue condizioni di salute fossero note e giudicate non compatibili con il carcere ordinario, il ragazzo, veniva posto in detenzione preventiva nel carcere di Rebibbia anziché in una struttura in cui avrebbe potuto essere trasferito e dove avrebbe potuto ricevere cure adeguate, come ad esempio in un REMS (Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive). In conseguenza della condanna, il giudice disponeva gli arresti domiciliari, ma Giacomo Seydou Sy li violava. Veniva quindi rinchiuso in un carcere ordinario, nonostante sia i tribunali italiani che la CEDU avessero specificato come quel tipo di detenzione fosse incompatibile con la sua condizione.
In effetti, già nell’aprile del 2020 la Corte Europea di Strasburgo chiedeva all’Italia di trasferirlo in luogo più adatto in considerazione dei problemi psichiatrici di cui il giovane soffre.
Per i trattamenti inumani e degradanti che sono stati riservati al giovane nel carcere di Rebibbia, l’Italia è stata condannata dalla CEDU. Lo Stato italiano dovrà quindi versare un risarcimento di 36.400 euro per danni morali al giovane.
Una lezione per l’Italia e per l’Europa
L’Italia è stata condannata dalla CEDU per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ovvero per trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, secondo la CEDU, il nostro Paese ha violato anche
– l’articolo 5 comma 1 della Convenzione, che riguarda il periodo di detenzione illegittima;
– l’articolo 5 comma 5, relativo al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento;
– l’articolo 6 comma 1, che riguarda il diritto a un processo equo;
– l’articolo 34, ovvero il diritto di ricorso individuale.
Con questa sentenza, che funge da condanna esemplare, viene ribadito un principio importantissimo su cui si fonda un Paese civile:
le carceri non sono adeguate per le persone che sono affette da problemi psichiatrici, che necessitano di trattamenti mirati
Non si può tenere una persona in carcere senza titolo, se il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione e se ha bisogno di cure.
La sentenza della CEDU è un provvedimento importante, che non riguarda solo la risoluzione di un singolo caso, ma fornisce indicazioni su un percorso che Governi e Parlamenti nazionali devono intraprendere per evitare altre condanne in futuro ma soprattutto nuove violazioni dei diritti umani fondamentali.
È quindi fondamentale che i giudici e servizi sociali si confrontino per trovare soluzioni condivise e adeguate per i condannati affetti da problemi mentali.
La legge prevede un giusto percorso di recupero durante lo sconto della pena carceraria, diritto umano spesso al centro dei richiami europei sul nostro Paese, recentemente sollevato anche dal Ministro della giustizia Marta Cartabia nell’ultima relazione al Parlamento e non ultimo sottolineato da Papa Francesco, che qualche tempo fa si è espresso con un fermo “no a condanne senza finestre di speranza”.
Come la Corte aveva già sottolineato in diverse occasioni in passato, i Governi dovrebbero organizzare il loro sistema carcerario in modo tale da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, a prescindere dall’aspetto economico o dalle difficoltà logistiche.
Si tratta di una lezione importante non solo per il nostro Paese ma anche per tutti i Paesi civili che non possono permettersi di definirsi tali senza il rispetto della persona umana anche quando questa sia detenuta. Come insegna Cesare Beccaria nel suo celebre “Dei delitti e delle pene”, la condanna deve mirare alla rieducazione e non allo svilimento del detenuto.
Condanna CEDU all’Italia per maltrattamenti a un detenuto malato
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo (in breve, CEDU) di Strasburgo ha condannato il nostro Paese per maltrattamenti nei confronti di un giovane detenuto che soffre di disturbi psichiatrici e che è stato trattenuto in una prigione ordinaria nonostante i tribunali nazionali, e poi anche la Corte Europea stessa, ne avessero ordinato il trasferimento in un centro dove potesse essere curato.
La sentenza pone l’accento sul fatto che il carcere ordinario non sia il luogo adatto per ospitare i soggetti malati.
Il ricorrente in questo caso, che soffriva di un disturbo della personalità e di un disturbo bipolare, era rimasto in detenzione in carcere per quasi due anni – nonostante le decisioni dei tribunali interni affermassero che la sua salute mentale era incompatibile con tale detenzione – prima di essere trasferito in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (REMS), e successivamente ad un servizio psichiatrico carcerario. La Corte ha ritenuto che il detenuto non avesse beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per il trattamento del suo disturbo, in un contesto generale di cattive condizioni di detenzione.
Nella sentenza la Cedu ha stabilito che l’Italia dovrà versare 36.400 euro per danni morali al giovane detenuto.
La vicenda
Nell’estate del 2018 Giacomo Seydou Sy, italiano classe 1994 (nipote del celebre attore Kim Rossi Stuart), affetto da bipolarismo e disturbi della personalità, veniva arrestato per furto, molestie ripetute nei confronti dell’ex fidanzata e resistenza alle forze dell’ordine.
Gli esperti hanno giudicato Giacomo socialmente pericoloso ma anche parzialmente irresponsabile degli atti commessi. Soprattutto però, hanno accertato che il suo stato di salute non era compatibile con la detenzione in una prigione ordinaria. Ciononostante, l’uomo trascorre in carcere, a Rebibbia, due anni. Una delle ragioni è che le autorità non sono state in grado di trovare un’alternativa.
Nonostante le sue condizioni di salute fossero note e giudicate non compatibili con il carcere ordinario, il ragazzo, veniva posto in detenzione preventiva nel carcere di Rebibbia anziché in una struttura in cui avrebbe potuto essere trasferito e dove avrebbe potuto ricevere cure adeguate, come ad esempio in un REMS (Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive). In conseguenza della condanna, il giudice disponeva gli arresti domiciliari, ma Giacomo Seydou Sy li violava. Veniva quindi rinchiuso in un carcere ordinario, nonostante sia i tribunali italiani che la CEDU avessero specificato come quel tipo di detenzione fosse incompatibile con la sua condizione.
In effetti, già nell’aprile del 2020 la Corte Europea di Strasburgo chiedeva all’Italia di trasferirlo in luogo più adatto in considerazione dei problemi psichiatrici di cui il giovane soffre.
Per i trattamenti inumani e degradanti che sono stati riservati al giovane nel carcere di Rebibbia, l’Italia è stata condannata dalla CEDU. Lo Stato italiano dovrà quindi versare un risarcimento di 36.400 euro per danni morali al giovane.
Una lezione per l’Italia e per l’Europa
L’Italia è stata condannata dalla CEDU per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ovvero per trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, secondo la CEDU, il nostro Paese ha violato anche
– l’articolo 5 comma 1 della Convenzione, che riguarda il periodo di detenzione illegittima;
– l’articolo 5 comma 5, relativo al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento;
– l’articolo 6 comma 1, che riguarda il diritto a un processo equo;
– l’articolo 34, ovvero il diritto di ricorso individuale.
Con questa sentenza, che funge da condanna esemplare, viene ribadito un principio importantissimo su cui si fonda un Paese civile:
Non si può tenere una persona in carcere senza titolo, se il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione e se ha bisogno di cure.
La sentenza della CEDU è un provvedimento importante, che non riguarda solo la risoluzione di un singolo caso, ma fornisce indicazioni su un percorso che Governi e Parlamenti nazionali devono intraprendere per evitare altre condanne in futuro ma soprattutto nuove violazioni dei diritti umani fondamentali.
È quindi fondamentale che i giudici e servizi sociali si confrontino per trovare soluzioni condivise e adeguate per i condannati affetti da problemi mentali.
La legge prevede un giusto percorso di recupero durante lo sconto della pena carceraria, diritto umano spesso al centro dei richiami europei sul nostro Paese, recentemente sollevato anche dal Ministro della giustizia Marta Cartabia nell’ultima relazione al Parlamento e non ultimo sottolineato da Papa Francesco, che qualche tempo fa si è espresso con un fermo “no a condanne senza finestre di speranza”.
Come la Corte aveva già sottolineato in diverse occasioni in passato, i Governi dovrebbero organizzare il loro sistema carcerario in modo tale da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, a prescindere dall’aspetto economico o dalle difficoltà logistiche.
Si tratta di una lezione importante non solo per il nostro Paese ma anche per tutti i Paesi civili che non possono permettersi di definirsi tali senza il rispetto della persona umana anche quando questa sia detenuta. Come insegna Cesare Beccaria nel suo celebre “Dei delitti e delle pene”, la condanna deve mirare alla rieducazione e non allo svilimento del detenuto.
La sentenza pone l’accento sul fatto che il carcere ordinario non sia il luogo adatto per ospitare i soggetti malati.
Il ricorrente in questo caso, che soffriva di un disturbo della personalità e di un disturbo bipolare, era rimasto in detenzione in carcere per quasi due anni – nonostante le decisioni dei tribunali interni affermassero che la sua salute mentale era incompatibile con tale detenzione – prima di essere trasferito in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (REMS), e successivamente ad un servizio psichiatrico carcerario. La Corte ha ritenuto che il detenuto non avesse beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per il trattamento del suo disturbo, in un contesto generale di cattive condizioni di detenzione.
Nella sentenza la Cedu ha stabilito che l’Italia dovrà versare 36.400 euro per danni morali al giovane detenuto.
La vicenda
Nell’estate del 2018 Giacomo Seydou Sy, italiano classe 1994 (nipote del celebre attore Kim Rossi Stuart), affetto da bipolarismo e disturbi della personalità, veniva arrestato per furto, molestie ripetute nei confronti dell’ex fidanzata e resistenza alle forze dell’ordine.
Gli esperti hanno giudicato Giacomo socialmente pericoloso ma anche parzialmente irresponsabile degli atti commessi. Soprattutto però, hanno accertato che il suo stato di salute non era compatibile con la detenzione in una prigione ordinaria. Ciononostante, l’uomo trascorre in carcere, a Rebibbia, due anni. Una delle ragioni è che le autorità non sono state in grado di trovare un’alternativa.
Nonostante le sue condizioni di salute fossero note e giudicate non compatibili con il carcere ordinario, il ragazzo, veniva posto in detenzione preventiva nel carcere di Rebibbia anziché in una struttura in cui avrebbe potuto essere trasferito e dove avrebbe potuto ricevere cure adeguate, come ad esempio in un REMS (Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive). In conseguenza della condanna, il giudice disponeva gli arresti domiciliari, ma Giacomo Seydou Sy li violava. Veniva quindi rinchiuso in un carcere ordinario, nonostante sia i tribunali italiani che la CEDU avessero specificato come quel tipo di detenzione fosse incompatibile con la sua condizione.
In effetti, già nell’aprile del 2020 la Corte Europea di Strasburgo chiedeva all’Italia di trasferirlo in luogo più adatto in considerazione dei problemi psichiatrici di cui il giovane soffre.
Per i trattamenti inumani e degradanti che sono stati riservati al giovane nel carcere di Rebibbia, l’Italia è stata condannata dalla CEDU. Lo Stato italiano dovrà quindi versare un risarcimento di 36.400 euro per danni morali al giovane.
Una lezione per l’Italia e per l’Europa
L’Italia è stata condannata dalla CEDU per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ovvero per trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, secondo la CEDU, il nostro Paese ha violato anche
– l’articolo 5 comma 1 della Convenzione, che riguarda il periodo di detenzione illegittima;
– l’articolo 5 comma 5, relativo al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento;
– l’articolo 6 comma 1, che riguarda il diritto a un processo equo;
– l’articolo 34, ovvero il diritto di ricorso individuale.
Con questa sentenza, che funge da condanna esemplare, viene ribadito un principio importantissimo su cui si fonda un Paese civile:
Non si può tenere una persona in carcere senza titolo, se il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione e se ha bisogno di cure.
La sentenza della CEDU è un provvedimento importante, che non riguarda solo la risoluzione di un singolo caso, ma fornisce indicazioni su un percorso che Governi e Parlamenti nazionali devono intraprendere per evitare altre condanne in futuro ma soprattutto nuove violazioni dei diritti umani fondamentali.
È quindi fondamentale che i giudici e servizi sociali si confrontino per trovare soluzioni condivise e adeguate per i condannati affetti da problemi mentali.
La legge prevede un giusto percorso di recupero durante lo sconto della pena carceraria, diritto umano spesso al centro dei richiami europei sul nostro Paese, recentemente sollevato anche dal Ministro della giustizia Marta Cartabia nell’ultima relazione al Parlamento e non ultimo sottolineato da Papa Francesco, che qualche tempo fa si è espresso con un fermo “no a condanne senza finestre di speranza”.
Come la Corte aveva già sottolineato in diverse occasioni in passato, i Governi dovrebbero organizzare il loro sistema carcerario in modo tale da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, a prescindere dall’aspetto economico o dalle difficoltà logistiche.
Si tratta di una lezione importante non solo per il nostro Paese ma anche per tutti i Paesi civili che non possono permettersi di definirsi tali senza il rispetto della persona umana anche quando questa sia detenuta. Come insegna Cesare Beccaria nel suo celebre “Dei delitti e delle pene”, la condanna deve mirare alla rieducazione e non allo svilimento del detenuto.
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