Articolo a cura dell’Avv.ssa Claudia Martina Venturino
“A casa con i suoi” è un film del 2006 con Matthew McConaughey il quale interpreta un trentacinquenne che vive ancora con i genitori. Il padre e la madre stanchi della situazione, assumono una donna la quale ha come unico scopo quello di convincerlo a diventare indipendente e lasciare il tanto agognato tetto familiare. Un film che, nonostante sia datato e di produzione americana, rispecchia perfettamente lo spaccato italiano e la situazione concretamente vissuta da una moltitudine di giovani ragazzi i quali ritardano sempre di più il distacco dal nido familiare, scegliendo di procrastinare l’indipendenza economica e personale affidandosi, in tal modo, esclusivamente al mantenimento fornito dai propri genitori.
Ancora una volta, la Suprema Corte con un’innovativa pronuncia, nello specifico l’ordinanza n. 17183/2020, ha dimostrato di rimanere al passo coi tempi, di riuscire ad infrangere una moltitudine di stereotipi giurisprudenziali, riconoscendo ai figli piena affidabilità in termini di ottenimento dell’indipendenza economica. È infatti in termini di contributo al mantenimento del figlio maggiorenne che la Cassazione cambia rotta, fornendo un nuovo orientamento sugli oneri a cui sono dovuti i genitori in termini di mantenimento. È pertanto necessario esaminare la vicenda che ha dato origine a tale revirement giurisprudenziale, ovvero il ricorso di una madre teso a tutelare il figlio maggiorenne con lei convivente e con un lavoro precario da insegnante. Tale episodio ha portato la Suprema Corte alla necessità di fornire dei chiarimenti in tema di mantenimento dei figli, laddove sprovvisti di redditi sufficienti al loro mantenimento, analizzando dettagliatamente il panorama normativo di riferimento. Innanzitutto, il dovere di mantenimento dei figli maggiorenni ha trovato un rafforzamento, dapprima nella riforma operata con L. 8 febbraio 2006 n.5 4 che ha dettato una disciplina ad hoc, mediante l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. e poi successivamente, con l’art. 106 D.lgs 154/2013 che ha abrogato il citato art. 155 quinquies c.c. per trasporre il suo contenuto nel nuovo articolo 377 septies c.c. Specificamente, tale norma prevede la possibilità per il Giudicante, valutate le circostanze del caso, di potere disporre nei confronti dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico, disponendone il versamento direttamente all’avente diritto. La norma, così formulata, ha dunque introdotto la possibilità da parte del Giudicante di disporre un assegno di mantenimento nei confronti del maggiorenne, solo a seguito di un giudizio discrezionale, ovvero valutate le circostanze che fondano il presunto diritto. La Corte ha però sottolineato che tale giudizio fattuale, valutabile a seconda del caso concreto prospettatogli, non limita il proprio potere di nomofilachia di cui all’art. 65 Ordinamento Giudiziario, ovvero il potere di fornire parametri di riferimento, basati su principi di uguaglianza, diretti a garantire una corretta interpretazione e un’applicazione uniforme delle norme di legge. Su tali presupposti gli ermellini hanno da un lato sostenuto la correttezza di precedenti pronunce di legittimità tese ad applicare il mantenimento in base alle occupazioni e ai percorsi scolastici dei figli ma, dall’altro, hanno sottolineato l’importanza di parametrare tali criteri all’età degli stessi beneficiari. La Cassazione ha infatti ripreso, a sostegno di tale tesi, una storica pronuncia di legittimità, n. 4108 del 1993, che ha affermato proprio come l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”. Sulla base di tale principio, ritenuto dalla Corte ad oggi ancora condivisibile, si è ritenuto di dovere dare una rivalutazione alla correlazione tra il diritto – dovere di educazione e istruzione della prole al diritto – dovere al mantenimento. Specificamente, la Corte ha ritenuto corretto sia circoscrivere la portata dell’obbligo del mantenimento, parametrandolo al tempo necessario per l’inserimento del giovane all’interno della società, sia limitare le inclinazioni e le aspirazioni del figlio alle condizioni economiche dei genitori. È pertanto evidente che il ragionamento operato dalla Corte di Cassazione abbia spalancato una finestra verso la modernità ancorando il concetto di “funzione educativa del mantenimento” col “principio di autoresponsabilità”, concetto quest’ultimo teso a sensibilizzare i giovani, a farli divenire indipendenti e, soprattutto, cittadini del mondo. Oltretutto la Cassazione ha specificato come, negli anni passati, si erano già intraviste alcune pronunce di legittimità portatrici di un’evoluzione del diritto in merito all’autonomia del figlio e all’impossibilità di ritenere i genitori obbligati al mantenimento sine die, soprattutto in presenza di condizioni logiche e naturali. Ad esempio, a mero titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha ritenuto che il mantenimento dovesse venire meno ogni qual volta i figli fossero stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad ottenere il proprio mantenimento personale, o quando fossero a disposizione di un titolo idoneo a consentirgli il reperimento di un’attività lavorativa o ancora quando avessero raggiunto un’età tale da fare presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a sé stessi (cfr. Cass. Civ. 12477/ 2004). È pertanto evidente che, già da tempo, la giurisprudenza di legittimità aveva cercato di parametrarsi al mutamento dei tempi, coordinando sempre di più il concetto di mantenimento del figlio maggiorenne al concetto di autoresponsabilità. Infatti, con l’avvento della crisi economica e del mutamento delle esigenze del mercato, si è instaurato sempre di più il concetto che il mantenimento non potesse più essere ancorato al reperimento di un’attività professionale ideale e parametrata alle aspirazioni di vita del maggiorenne. Tale aspetto era stato già evidenziato in numerose pronunce giurisprudenziali che avevano per l’appunto specificato come “l’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 12952/2016). Già con tali pronunce si era dunque affermata l’esigenza di ritenere esigibile dal giovane figlio maggiorenne una minima attivazione nella ricerca di un’attività lavorativa tale da renderlo autonomo anche se nell’auspicata volontà di reperire in futuro un lavoro più consono alle proprie aspettative professionali. Ciò posto, la Corte di Cassazione si è dunque interrogata sul concetto di “indipendenza economica” che è ricollegato, ai sensi dell’art. 36 Costituzione, a tutto ciò che occorre per soddisfare le proprie primarie esigenze di vita. Anche la dottrina, sul punto, ha ritenuto fondamentale il concetto di “indipendenza economica” ancorando tale raggiungimento all’obbligo dei figli di ricercare un impiego e specificando come, un atteggiamento contrario, porti ineludibilmente ad un abuso del diritto oltre che alla mala fede oggettiva. In altre parole la dottrina ha sostenuto come il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non possa sussistere laddove “abusivo” o correlato da “mala fede”, ovvero laddove la mancata indipendenza economica sia correlata a delle scelte irragionevoli, oltre che illogiche e basate su un evidente disinteresse al raggiungimento di un certo livello di autonomia. Su tali valutazioni, si rende dunque evidente come non sia necessaria alcuna prescrizione normativa che individui un limite di età per la prosecuzione del mantenimento. Tutto ciò che si rende necessario valutare è la c.d. “capacità lavorativa” parametrata ad un principio di autoresponsabilità del giovane che deve tendere, dunque, in tutti i modi, al raggiungimento della propria emancipazione. Oltretutto la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha altresì chiarito che il figlio maggiorenne che adduca delle scusanti inveritiere al reperimento di un’attività lavorativa debba mantenere una certa cautela nel richiedere un mantenimento ai propri genitori in quanto, proprio quest’ultimo, potrebbe essere ritenuto paradossalmente inadempiente ai sensi dell’art. 315 bis IV comma c.c. che prescrive “di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”. La Corte di Cassazione si è dunque fatta portatrice delle nuove esigenze della collettività, emanando principi che preludono alla modernità, invitando i maggiorenni a ridurre le proprie ambizioni adolescenziali. La Corte di Cassazione ha infatti soppresso la possibilità per i figli di continuare ad utilizzare quale scusante, al mancato raggiungimento di una propria indipendenza economica, la mancanza di posti di lavoro adeguati alle proprie aspirazioni professionali operando un invito specifico ai più giovani a ridimensionare le proprie ambizioni lavorative, all’evidente fine di tutelare i genitori dal continuare a supportare sacrifici economici fino al raggiungimento del posto di lavoro “ideale” del figlio o meglio, dallo stesso idealizzato. Si tratta pertanto di principi ispirati al concetto di autoresponsabilità e tesi ad incentivare la ricerca dei giovani alla dovuta indipendenza economica che, soprattutto in Italia, più che nel resto del mondo, viene spesso ritardata. Ciò premesso è dunque evidente che l’ordinanza espressa dalla Suprema Corte rappresenti, accanto a tutte le riforme intervenute in materia di filiazione, una pietra miliare nella storia del diritto di famiglia collocandosi tra le più importanti decisioni in tema di mantenimento e soprattutto tesa a riposizionare il ruolo dei giovani italiani in concetti di autonomia ed indipendenza che sembrano ad oggi avere perso rilievo e vigore, soprattutto in un Paese in cui il diritto del lavoro è tutelato dai principi Costituzionali ed è teso a garantire al singolo individuo un’esistenza libera e dignitosa. Concludendo, come disse Lev Tolstoj “Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”.
Ancora una volta, la Suprema Corte con un’innovativa pronuncia, nello specifico l’ordinanza n. 17183/2020, ha dimostrato di rimanere al passo coi tempi, di riuscire ad infrangere una moltitudine di stereotipi giurisprudenziali, riconoscendo ai figli piena affidabilità in termini di ottenimento dell’indipendenza economica. È infatti in termini di contributo al mantenimento del figlio maggiorenne che la Cassazione cambia rotta, fornendo un nuovo orientamento sugli oneri a cui sono dovuti i genitori in termini di mantenimento. È pertanto necessario esaminare la vicenda che ha dato origine a tale revirement giurisprudenziale, ovvero il ricorso di una madre teso a tutelare il figlio maggiorenne con lei convivente e con un lavoro precario da insegnante. Tale episodio ha portato la Suprema Corte alla necessità di fornire dei chiarimenti in tema di mantenimento dei figli, laddove sprovvisti di redditi sufficienti al loro mantenimento, analizzando dettagliatamente il panorama normativo di riferimento. Innanzitutto, il dovere di mantenimento dei figli maggiorenni ha trovato un rafforzamento, dapprima nella riforma operata con L. 8 febbraio 2006 n.5 4 che ha dettato una disciplina ad hoc, mediante l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. e poi successivamente, con l’art. 106 D.lgs 154/2013 che ha abrogato il citato art. 155 quinquies c.c. per trasporre il suo contenuto nel nuovo articolo 377 septies c.c. Specificamente, tale norma prevede la possibilità per il Giudicante, valutate le circostanze del caso, di potere disporre nei confronti dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico, disponendone il versamento direttamente all’avente diritto. La norma, così formulata, ha dunque introdotto la possibilità da parte del Giudicante di disporre un assegno di mantenimento nei confronti del maggiorenne, solo a seguito di un giudizio discrezionale, ovvero valutate le circostanze che fondano il presunto diritto. La Corte ha però sottolineato che tale giudizio fattuale, valutabile a seconda del caso concreto prospettatogli, non limita il proprio potere di nomofilachia di cui all’art. 65 Ordinamento Giudiziario, ovvero il potere di fornire parametri di riferimento, basati su principi di uguaglianza, diretti a garantire una corretta interpretazione e un’applicazione uniforme delle norme di legge. Su tali presupposti gli ermellini hanno da un lato sostenuto la correttezza di precedenti pronunce di legittimità tese ad applicare il mantenimento in base alle occupazioni e ai percorsi scolastici dei figli ma, dall’altro, hanno sottolineato l’importanza di parametrare tali criteri all’età degli stessi beneficiari. La Cassazione ha infatti ripreso, a sostegno di tale tesi, una storica pronuncia di legittimità, n. 4108 del 1993, che ha affermato proprio come l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”. Sulla base di tale principio, ritenuto dalla Corte ad oggi ancora condivisibile, si è ritenuto di dovere dare una rivalutazione alla correlazione tra il diritto – dovere di educazione e istruzione della prole al diritto – dovere al mantenimento. Specificamente, la Corte ha ritenuto corretto sia circoscrivere la portata dell’obbligo del mantenimento, parametrandolo al tempo necessario per l’inserimento del giovane all’interno della società, sia limitare le inclinazioni e le aspirazioni del figlio alle condizioni economiche dei genitori. È pertanto evidente che il ragionamento operato dalla Corte di Cassazione abbia spalancato una finestra verso la modernità ancorando il concetto di “funzione educativa del mantenimento” col “principio di autoresponsabilità”, concetto quest’ultimo teso a sensibilizzare i giovani, a farli divenire indipendenti e, soprattutto, cittadini del mondo. Oltretutto la Cassazione ha specificato come, negli anni passati, si erano già intraviste alcune pronunce di legittimità portatrici di un’evoluzione del diritto in merito all’autonomia del figlio e all’impossibilità di ritenere i genitori obbligati al mantenimento sine die, soprattutto in presenza di condizioni logiche e naturali. Ad esempio, a mero titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha ritenuto che il mantenimento dovesse venire meno ogni qual volta i figli fossero stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad ottenere il proprio mantenimento personale, o quando fossero a disposizione di un titolo idoneo a consentirgli il reperimento di un’attività lavorativa o ancora quando avessero raggiunto un’età tale da fare presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a sé stessi (cfr. Cass. Civ. 12477/ 2004). È pertanto evidente che, già da tempo, la giurisprudenza di legittimità aveva cercato di parametrarsi al mutamento dei tempi, coordinando sempre di più il concetto di mantenimento del figlio maggiorenne al concetto di autoresponsabilità. Infatti, con l’avvento della crisi economica e del mutamento delle esigenze del mercato, si è instaurato sempre di più il concetto che il mantenimento non potesse più essere ancorato al reperimento di un’attività professionale ideale e parametrata alle aspirazioni di vita del maggiorenne. Tale aspetto era stato già evidenziato in numerose pronunce giurisprudenziali che avevano per l’appunto specificato come “l’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 12952/2016). Già con tali pronunce si era dunque affermata l’esigenza di ritenere esigibile dal giovane figlio maggiorenne una minima attivazione nella ricerca di un’attività lavorativa tale da renderlo autonomo anche se nell’auspicata volontà di reperire in futuro un lavoro più consono alle proprie aspettative professionali. Ciò posto, la Corte di Cassazione si è dunque interrogata sul concetto di “indipendenza economica” che è ricollegato, ai sensi dell’art. 36 Costituzione, a tutto ciò che occorre per soddisfare le proprie primarie esigenze di vita. Anche la dottrina, sul punto, ha ritenuto fondamentale il concetto di “indipendenza economica” ancorando tale raggiungimento all’obbligo dei figli di ricercare un impiego e specificando come, un atteggiamento contrario, porti ineludibilmente ad un abuso del diritto oltre che alla mala fede oggettiva. In altre parole la dottrina ha sostenuto come il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non possa sussistere laddove “abusivo” o correlato da “mala fede”, ovvero laddove la mancata indipendenza economica sia correlata a delle scelte irragionevoli, oltre che illogiche e basate su un evidente disinteresse al raggiungimento di un certo livello di autonomia. Su tali valutazioni, si rende dunque evidente come non sia necessaria alcuna prescrizione normativa che individui un limite di età per la prosecuzione del mantenimento. Tutto ciò che si rende necessario valutare è la c.d. “capacità lavorativa” parametrata ad un principio di autoresponsabilità del giovane che deve tendere, dunque, in tutti i modi, al raggiungimento della propria emancipazione. Oltretutto la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha altresì chiarito che il figlio maggiorenne che adduca delle scusanti inveritiere al reperimento di un’attività lavorativa debba mantenere una certa cautela nel richiedere un mantenimento ai propri genitori in quanto, proprio quest’ultimo, potrebbe essere ritenuto paradossalmente inadempiente ai sensi dell’art. 315 bis IV comma c.c. che prescrive “di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”. La Corte di Cassazione si è dunque fatta portatrice delle nuove esigenze della collettività, emanando principi che preludono alla modernità, invitando i maggiorenni a ridurre le proprie ambizioni adolescenziali. La Corte di Cassazione ha infatti soppresso la possibilità per i figli di continuare ad utilizzare quale scusante, al mancato raggiungimento di una propria indipendenza economica, la mancanza di posti di lavoro adeguati alle proprie aspirazioni professionali operando un invito specifico ai più giovani a ridimensionare le proprie ambizioni lavorative, all’evidente fine di tutelare i genitori dal continuare a supportare sacrifici economici fino al raggiungimento del posto di lavoro “ideale” del figlio o meglio, dallo stesso idealizzato. Si tratta pertanto di principi ispirati al concetto di autoresponsabilità e tesi ad incentivare la ricerca dei giovani alla dovuta indipendenza economica che, soprattutto in Italia, più che nel resto del mondo, viene spesso ritardata. Ciò premesso è dunque evidente che l’ordinanza espressa dalla Suprema Corte rappresenti, accanto a tutte le riforme intervenute in materia di filiazione, una pietra miliare nella storia del diritto di famiglia collocandosi tra le più importanti decisioni in tema di mantenimento e soprattutto tesa a riposizionare il ruolo dei giovani italiani in concetti di autonomia ed indipendenza che sembrano ad oggi avere perso rilievo e vigore, soprattutto in un Paese in cui il diritto del lavoro è tutelato dai principi Costituzionali ed è teso a garantire al singolo individuo un’esistenza libera e dignitosa. Concludendo, come disse Lev Tolstoj “Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”.
“A casa con i suoi”
Articolo a cura dell’Avv.ssa Claudia Martina Venturino
“A casa con i suoi” è un film del 2006 con Matthew McConaughey il quale interpreta un trentacinquenne che vive ancora con i genitori.
Il padre e la madre stanchi della situazione, assumono una donna la quale ha come unico scopo quello di convincerlo a diventare indipendente e lasciare il tanto agognato tetto familiare.
Un film che, nonostante sia datato e di produzione americana, rispecchia perfettamente lo spaccato italiano e la situazione concretamente vissuta da una moltitudine di giovani ragazzi i quali ritardano sempre di più il distacco dal nido familiare, scegliendo di procrastinare l’indipendenza economica e personale affidandosi, in tal modo, esclusivamente al mantenimento fornito dai propri genitori.
Ancora una volta, la Suprema Corte con un’innovativa pronuncia, nello specifico l’ordinanza n. 17183/2020, ha dimostrato di rimanere al passo coi tempi, di riuscire ad infrangere una moltitudine di stereotipi giurisprudenziali, riconoscendo ai figli piena affidabilità in termini di ottenimento dell’indipendenza economica.
È infatti in termini di contributo al mantenimento del figlio maggiorenne che la Cassazione cambia rotta, fornendo un nuovo orientamento sugli oneri a cui sono dovuti i genitori in termini di mantenimento.
È pertanto necessario esaminare la vicenda che ha dato origine a tale revirement giurisprudenziale, ovvero il ricorso di una madre teso a tutelare il figlio maggiorenne con lei convivente e con un lavoro precario da insegnante.
Tale episodio ha portato la Suprema Corte alla necessità di fornire dei chiarimenti in tema di mantenimento dei figli, laddove sprovvisti di redditi sufficienti al loro mantenimento, analizzando dettagliatamente il panorama normativo di riferimento.
Innanzitutto, il dovere di mantenimento dei figli maggiorenni ha trovato un rafforzamento, dapprima nella riforma operata con L. 8 febbraio 2006 n.5 4 che ha dettato una disciplina ad hoc, mediante l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. e poi successivamente, con l’art. 106 D.lgs 154/2013 che ha abrogato il citato art. 155 quinquies c.c. per trasporre il suo contenuto nel nuovo articolo 377 septies c.c.
Specificamente, tale norma prevede la possibilità per il Giudicante, valutate le circostanze del caso, di potere disporre nei confronti dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico, disponendone il versamento direttamente all’avente diritto.
La norma, così formulata, ha dunque introdotto la possibilità da parte del Giudicante di disporre un assegno di mantenimento nei confronti del maggiorenne, solo a seguito di un giudizio discrezionale, ovvero valutate le circostanze che fondano il presunto diritto.
La Corte ha però sottolineato che tale giudizio fattuale, valutabile a seconda del caso concreto prospettatogli, non limita il proprio potere di nomofilachia di cui all’art. 65 Ordinamento Giudiziario, ovvero il potere di fornire parametri di riferimento, basati su principi di uguaglianza, diretti a garantire una corretta interpretazione e un’applicazione uniforme delle norme di legge.
Su tali presupposti gli ermellini hanno da un lato sostenuto la correttezza di precedenti pronunce di legittimità tese ad applicare il mantenimento in base alle occupazioni e ai percorsi scolastici dei figli ma, dall’altro, hanno sottolineato l’importanza di parametrare tali criteri all’età degli stessi beneficiari.
La Cassazione ha infatti ripreso, a sostegno di tale tesi, una storica pronuncia di legittimità, n. 4108 del 1993, che ha affermato proprio come l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.
Sulla base di tale principio, ritenuto dalla Corte ad oggi ancora condivisibile, si è ritenuto di dovere dare una rivalutazione alla correlazione tra il diritto – dovere di educazione e istruzione della prole al diritto – dovere al mantenimento.
Specificamente, la Corte ha ritenuto corretto sia circoscrivere la portata dell’obbligo del mantenimento, parametrandolo al tempo necessario per l’inserimento del giovane all’interno della società, sia limitare le inclinazioni e le aspirazioni del figlio alle condizioni economiche dei genitori.
È pertanto evidente che il ragionamento operato dalla Corte di Cassazione abbia spalancato una finestra verso la modernità ancorando il concetto di “funzione educativa del mantenimento” col “principio di autoresponsabilità”, concetto quest’ultimo teso a sensibilizzare i giovani, a farli divenire indipendenti e, soprattutto, cittadini del mondo.
Oltretutto la Cassazione ha specificato come, negli anni passati, si erano già intraviste alcune pronunce di legittimità portatrici di un’evoluzione del diritto in merito all’autonomia del figlio e all’impossibilità di ritenere i genitori obbligati al mantenimento sine die, soprattutto in presenza di condizioni logiche e naturali.
Ad esempio, a mero titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha ritenuto che il mantenimento dovesse venire meno ogni qual volta i figli fossero stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad ottenere il proprio mantenimento personale, o quando fossero a disposizione di un titolo idoneo a consentirgli il reperimento di un’attività lavorativa o ancora quando avessero raggiunto un’età tale da fare presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a sé stessi (cfr. Cass. Civ. 12477/ 2004).
È pertanto evidente che, già da tempo, la giurisprudenza di legittimità aveva cercato di parametrarsi al mutamento dei tempi, coordinando sempre di più il concetto di mantenimento del figlio maggiorenne al concetto di autoresponsabilità.
Infatti, con l’avvento della crisi economica e del mutamento delle esigenze del mercato, si è instaurato sempre di più il concetto che il mantenimento non potesse più essere ancorato al reperimento di un’attività professionale ideale e parametrata alle aspirazioni di vita del maggiorenne.
Tale aspetto era stato già evidenziato in numerose pronunce giurisprudenziali che avevano per l’appunto specificato come “l’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 12952/2016).
Già con tali pronunce si era dunque affermata l’esigenza di ritenere esigibile dal giovane figlio maggiorenne una minima attivazione nella ricerca di un’attività lavorativa tale da renderlo autonomo anche se nell’auspicata volontà di reperire in futuro un lavoro più consono alle proprie aspettative professionali.
Ciò posto, la Corte di Cassazione si è dunque interrogata sul concetto di “indipendenza economica” che è ricollegato, ai sensi dell’art. 36 Costituzione, a tutto ciò che occorre per soddisfare le proprie primarie esigenze di vita.
Anche la dottrina, sul punto, ha ritenuto fondamentale il concetto di “indipendenza economica” ancorando tale raggiungimento all’obbligo dei figli di ricercare un impiego e specificando come, un atteggiamento contrario, porti ineludibilmente ad un abuso del diritto oltre che alla mala fede oggettiva.
In altre parole la dottrina ha sostenuto come il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non possa sussistere laddove “abusivo” o correlato da “mala fede”, ovvero laddove la mancata indipendenza economica sia correlata a delle scelte irragionevoli, oltre che illogiche e basate su un evidente disinteresse al raggiungimento di un certo livello di autonomia.
Su tali valutazioni, si rende dunque evidente come non sia necessaria alcuna prescrizione normativa che individui un limite di età per la prosecuzione del mantenimento.
Tutto ciò che si rende necessario valutare è la c.d. “capacità lavorativa” parametrata ad un principio di autoresponsabilità del giovane che deve tendere, dunque, in tutti i modi, al raggiungimento della propria emancipazione.
Oltretutto la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha altresì chiarito che il figlio maggiorenne che adduca delle scusanti inveritiere al reperimento di un’attività lavorativa debba mantenere una certa cautela nel richiedere un mantenimento ai propri genitori in quanto, proprio quest’ultimo, potrebbe essere ritenuto paradossalmente inadempiente ai sensi dell’art. 315 bis IV comma c.c. che prescrive “di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”.
La Corte di Cassazione si è dunque fatta portatrice delle nuove esigenze della collettività, emanando principi che preludono alla modernità, invitando i maggiorenni a ridurre le proprie ambizioni adolescenziali.
La Corte di Cassazione ha infatti soppresso la possibilità per i figli di continuare ad utilizzare quale scusante, al mancato raggiungimento di una propria indipendenza economica, la mancanza di posti di lavoro adeguati alle proprie aspirazioni professionali operando un invito specifico ai più giovani a ridimensionare le proprie ambizioni lavorative, all’evidente fine di tutelare i genitori dal continuare a supportare sacrifici economici fino al raggiungimento del posto di lavoro “ideale” del figlio o meglio, dallo stesso idealizzato.
Si tratta pertanto di principi ispirati al concetto di autoresponsabilità e tesi ad incentivare la ricerca dei giovani alla dovuta indipendenza economica che, soprattutto in Italia, più che nel resto del mondo, viene spesso ritardata.
Ciò premesso è dunque evidente che l’ordinanza espressa dalla Suprema Corte rappresenti, accanto a tutte le riforme intervenute in materia di filiazione, una pietra miliare nella storia del diritto di famiglia collocandosi tra le più importanti decisioni in tema di mantenimento e soprattutto tesa a riposizionare il ruolo dei giovani italiani in concetti di autonomia ed indipendenza che sembrano ad oggi avere perso rilievo e vigore, soprattutto in un Paese in cui il diritto del lavoro è tutelato dai principi Costituzionali ed è teso a garantire al singolo individuo un’esistenza libera e dignitosa.
Concludendo, come disse Lev Tolstoj “Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”.
Ancora una volta, la Suprema Corte con un’innovativa pronuncia, nello specifico l’ordinanza n. 17183/2020, ha dimostrato di rimanere al passo coi tempi, di riuscire ad infrangere una moltitudine di stereotipi giurisprudenziali, riconoscendo ai figli piena affidabilità in termini di ottenimento dell’indipendenza economica.
È infatti in termini di contributo al mantenimento del figlio maggiorenne che la Cassazione cambia rotta, fornendo un nuovo orientamento sugli oneri a cui sono dovuti i genitori in termini di mantenimento.
È pertanto necessario esaminare la vicenda che ha dato origine a tale revirement giurisprudenziale, ovvero il ricorso di una madre teso a tutelare il figlio maggiorenne con lei convivente e con un lavoro precario da insegnante.
Tale episodio ha portato la Suprema Corte alla necessità di fornire dei chiarimenti in tema di mantenimento dei figli, laddove sprovvisti di redditi sufficienti al loro mantenimento, analizzando dettagliatamente il panorama normativo di riferimento.
Innanzitutto, il dovere di mantenimento dei figli maggiorenni ha trovato un rafforzamento, dapprima nella riforma operata con L. 8 febbraio 2006 n.5 4 che ha dettato una disciplina ad hoc, mediante l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. e poi successivamente, con l’art. 106 D.lgs 154/2013 che ha abrogato il citato art. 155 quinquies c.c. per trasporre il suo contenuto nel nuovo articolo 377 septies c.c.
Specificamente, tale norma prevede la possibilità per il Giudicante, valutate le circostanze del caso, di potere disporre nei confronti dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico, disponendone il versamento direttamente all’avente diritto.
La norma, così formulata, ha dunque introdotto la possibilità da parte del Giudicante di disporre un assegno di mantenimento nei confronti del maggiorenne, solo a seguito di un giudizio discrezionale, ovvero valutate le circostanze che fondano il presunto diritto.
La Corte ha però sottolineato che tale giudizio fattuale, valutabile a seconda del caso concreto prospettatogli, non limita il proprio potere di nomofilachia di cui all’art. 65 Ordinamento Giudiziario, ovvero il potere di fornire parametri di riferimento, basati su principi di uguaglianza, diretti a garantire una corretta interpretazione e un’applicazione uniforme delle norme di legge.
Su tali presupposti gli ermellini hanno da un lato sostenuto la correttezza di precedenti pronunce di legittimità tese ad applicare il mantenimento in base alle occupazioni e ai percorsi scolastici dei figli ma, dall’altro, hanno sottolineato l’importanza di parametrare tali criteri all’età degli stessi beneficiari.
La Cassazione ha infatti ripreso, a sostegno di tale tesi, una storica pronuncia di legittimità, n. 4108 del 1993, che ha affermato proprio come l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.
Sulla base di tale principio, ritenuto dalla Corte ad oggi ancora condivisibile, si è ritenuto di dovere dare una rivalutazione alla correlazione tra il diritto – dovere di educazione e istruzione della prole al diritto – dovere al mantenimento.
Specificamente, la Corte ha ritenuto corretto sia circoscrivere la portata dell’obbligo del mantenimento, parametrandolo al tempo necessario per l’inserimento del giovane all’interno della società, sia limitare le inclinazioni e le aspirazioni del figlio alle condizioni economiche dei genitori.
È pertanto evidente che il ragionamento operato dalla Corte di Cassazione abbia spalancato una finestra verso la modernità ancorando il concetto di “funzione educativa del mantenimento” col “principio di autoresponsabilità”, concetto quest’ultimo teso a sensibilizzare i giovani, a farli divenire indipendenti e, soprattutto, cittadini del mondo.
Oltretutto la Cassazione ha specificato come, negli anni passati, si erano già intraviste alcune pronunce di legittimità portatrici di un’evoluzione del diritto in merito all’autonomia del figlio e all’impossibilità di ritenere i genitori obbligati al mantenimento sine die, soprattutto in presenza di condizioni logiche e naturali.
Ad esempio, a mero titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha ritenuto che il mantenimento dovesse venire meno ogni qual volta i figli fossero stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad ottenere il proprio mantenimento personale, o quando fossero a disposizione di un titolo idoneo a consentirgli il reperimento di un’attività lavorativa o ancora quando avessero raggiunto un’età tale da fare presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a sé stessi (cfr. Cass. Civ. 12477/ 2004).
È pertanto evidente che, già da tempo, la giurisprudenza di legittimità aveva cercato di parametrarsi al mutamento dei tempi, coordinando sempre di più il concetto di mantenimento del figlio maggiorenne al concetto di autoresponsabilità.
Infatti, con l’avvento della crisi economica e del mutamento delle esigenze del mercato, si è instaurato sempre di più il concetto che il mantenimento non potesse più essere ancorato al reperimento di un’attività professionale ideale e parametrata alle aspirazioni di vita del maggiorenne.
Tale aspetto era stato già evidenziato in numerose pronunce giurisprudenziali che avevano per l’appunto specificato come “l’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 12952/2016).
Già con tali pronunce si era dunque affermata l’esigenza di ritenere esigibile dal giovane figlio maggiorenne una minima attivazione nella ricerca di un’attività lavorativa tale da renderlo autonomo anche se nell’auspicata volontà di reperire in futuro un lavoro più consono alle proprie aspettative professionali.
Ciò posto, la Corte di Cassazione si è dunque interrogata sul concetto di “indipendenza economica” che è ricollegato, ai sensi dell’art. 36 Costituzione, a tutto ciò che occorre per soddisfare le proprie primarie esigenze di vita.
Anche la dottrina, sul punto, ha ritenuto fondamentale il concetto di “indipendenza economica” ancorando tale raggiungimento all’obbligo dei figli di ricercare un impiego e specificando come, un atteggiamento contrario, porti ineludibilmente ad un abuso del diritto oltre che alla mala fede oggettiva.
In altre parole la dottrina ha sostenuto come il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non possa sussistere laddove “abusivo” o correlato da “mala fede”, ovvero laddove la mancata indipendenza economica sia correlata a delle scelte irragionevoli, oltre che illogiche e basate su un evidente disinteresse al raggiungimento di un certo livello di autonomia.
Su tali valutazioni, si rende dunque evidente come non sia necessaria alcuna prescrizione normativa che individui un limite di età per la prosecuzione del mantenimento.
Tutto ciò che si rende necessario valutare è la c.d. “capacità lavorativa” parametrata ad un principio di autoresponsabilità del giovane che deve tendere, dunque, in tutti i modi, al raggiungimento della propria emancipazione.
Oltretutto la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha altresì chiarito che il figlio maggiorenne che adduca delle scusanti inveritiere al reperimento di un’attività lavorativa debba mantenere una certa cautela nel richiedere un mantenimento ai propri genitori in quanto, proprio quest’ultimo, potrebbe essere ritenuto paradossalmente inadempiente ai sensi dell’art. 315 bis IV comma c.c. che prescrive “di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”.
La Corte di Cassazione si è dunque fatta portatrice delle nuove esigenze della collettività, emanando principi che preludono alla modernità, invitando i maggiorenni a ridurre le proprie ambizioni adolescenziali.
La Corte di Cassazione ha infatti soppresso la possibilità per i figli di continuare ad utilizzare quale scusante, al mancato raggiungimento di una propria indipendenza economica, la mancanza di posti di lavoro adeguati alle proprie aspirazioni professionali operando un invito specifico ai più giovani a ridimensionare le proprie ambizioni lavorative, all’evidente fine di tutelare i genitori dal continuare a supportare sacrifici economici fino al raggiungimento del posto di lavoro “ideale” del figlio o meglio, dallo stesso idealizzato.
Si tratta pertanto di principi ispirati al concetto di autoresponsabilità e tesi ad incentivare la ricerca dei giovani alla dovuta indipendenza economica che, soprattutto in Italia, più che nel resto del mondo, viene spesso ritardata.
Ciò premesso è dunque evidente che l’ordinanza espressa dalla Suprema Corte rappresenti, accanto a tutte le riforme intervenute in materia di filiazione, una pietra miliare nella storia del diritto di famiglia collocandosi tra le più importanti decisioni in tema di mantenimento e soprattutto tesa a riposizionare il ruolo dei giovani italiani in concetti di autonomia ed indipendenza che sembrano ad oggi avere perso rilievo e vigore, soprattutto in un Paese in cui il diritto del lavoro è tutelato dai principi Costituzionali ed è teso a garantire al singolo individuo un’esistenza libera e dignitosa.
Concludendo, come disse Lev Tolstoj “Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”.
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