Art. 26 – Codice del processo amministrativo

(D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 - Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo - aggiornato al decreto legge del 9 giugno 2021, n. 80)

Spese di giudizio

Art. 26 - codice del processo amministrativo

1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2. In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.
2. Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione.

Art. 26 - Codice del processo amministrativo

1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2. In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.
2. Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione.

Massime

In sede di appello la sindacabilità della statuizione del giudice amministrativo di primo grado sulle spese del giudizio è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale atteso che ciò è espressione della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo. Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 4669 del 5 luglio 2019 (Cons. Stato n. 4669/2019)

Nell’ambito di un giudizio amministrativo la sussistenza di giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla è rimessa al giudice chiamato a decidere la causa il quale è dotato di ampi poteri discrezionali in tal senso. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4058 del 17 giugno 2019 (Cons. Stato n. 4058/2019)

Il giudizio per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali ovvero per escluderla è rimesso al giudice chiamato a decidere la causa il quale è dotato di ampi poteri discrezionali in tal senso. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4057 del 17 giugno 2019 (Cons. Stato n. 4057/2019)

Nell’ambito di un giudizio amministrativo, nell’ipotesi in cui sopraggiungano ragioni ostative all’accoglimento di un ricorso di per sé fondato, il giudice ha ampi poteri discrezionali nella valutazione circa la possibilità che il ricorrente vada ristorato delle spese del giudizio. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4007 del 14 giugno 2019 (Cons. Stato n. 4007/2019)

Il giudice amministrativo pur essendo dotato di ampi poteri discrezionali in ordine alla determinazione delle spese giudiziali non può condannare al pagamento delle stesse la parte risultata vittoriosa in giudizio né può disporre statuizioni abnormi. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4005 del 14 giugno 2019 (Cons. Stato n. 4005/2019)

I giusti motivi, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 del D.Lgs. n. 104/2010, anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 2817 del 30 aprile 2019 (Cons. Stato n. 2817/2019)

La condanna alle spese del giudizio comminata in primo grado, espressiva della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo, è sindacabile in sede di appello limitatamente all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la sua manifesta abnormità. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 1380 del 27 febbraio 2019 (Cons. Stato n. 1380/2019)

È da riformare una sentenza di primo grado che compensa le spese di giudizio sulla base della sussistenza di eccezionali motivi, senza che questi ultimi siano in nessun modo desumibile dalla stessa. I giusti motivi, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 cod. proc. amm., anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione. (Riforma Tar Lazio Roma, sez. III, n. 8898/2018). Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 1094 del 18 febbraio 2019 (Cons. Stato n. 1094/2019)

L’art. 26, comma 2, c.p.a., novellato dal d.lgs. n. 195 del 2011, entrato in vigore l’8 dicembre 2011, dispone che: “Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione”. Tale norma contiene una previsione normativa di chiusura dell’ordinamento processuale amministrativo che consente di approntare, in via generale e residuale, un’adeguata reazione alla violazione del principio internazionale e costituzionale del giusto processo, espressamente richiamato dall’art. 2, comma 1, c.p.a., non diversamente tipizzata; si evita, altresì, la beffa di norme processuali, prescrittive di oneri ed obblighi, ma minus quam perfectae, ossia prive di una sanzione. La norma in questione è in particolare applicabile anche nel caso di violazione del dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), a sua volta corollario del giusto processo, che assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica e che è infatti icasticamente richiamato dal comma 1. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 2852 del 12 giugno 2017 (Cons. Stato n. 2852/2017)

Anche se nel processo amministrativo il giudice ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio, tale discrezionalità è sindacabile in sede di appello nei limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi illogica o errata, alla stregua dell’eventuale motivazione adottata, ovvero tenendo conto da un lato, in punto di diritto, del principio in base al quale, di regola, le spese seguono la soccombenza e dall’altro, in punto di fatto, della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio.

I “giusti motivi”, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., richiamato dall’art. 26 cod. proc. amm., anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione.

È illegittima una sentenza che, nel dichiarare la cessata materia del contendere per un ricorso in materia di diniego di accesso, ha immotivatamente compensato, tra le parti, le spese di giudizio, non potendosi ritenere sufficiente l’affermazione, di stile, secondo la quale “ricorrono, tuttavia, giusti motivi per la compensazione”. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4948 del 24 novembre 2016 (Cons. Stato n. 4948/2016)

Sussiste la competenza del Consiglio di Stato ad esaminare un ricorso per esecuzione del giudicato formatosi su di una sentenza con la quale il Consiglio di Stato stesso ha dichiarato tardivo l’appello principale ed improcedibile l’appello incidentale e, quindi, ha dettato un articolato regime delle spese dello stesso grado di appello, prevedendo anche l’applicazione a carico dell’appellante principale della sanzione prevista dall’art. 26, comma 2, c.p.a.; in questo caso, infatti, non trova applicazione l’art. 113, comma 1, ultimo periodo, c.p.a., che, per incardinare il giudizio di ottemperanza, individua la competenza nel giudice di primo grado anche ove l’ottemperanza concerna «provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado».

Ai sensi dell’art. 13, comma 6 bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, l’importo del contributo unificato (per le spese degli atti giudiziari) va rimborsato alla parte vittoriosa (che lo ha corrisposto) ed è posto «in ogni caso a carico della parte soccombente» come obbligo ex lege, cioè a prescindere dalla presenza della esplicita statuizione nella sentenza, che ha deciso la causa, e dalla eventuale statuizione di compensazione delle altre spese di giudizio. In particolare il suddetto art. 13, comma 6 bis, dispone che l’onere del pagamento dei suddetti contributi sia posto a carico della parte soccombente “in ogni caso”, cioè (prosegue la norma) “anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio”.

Il legislatore con l’espressione “in ogni caso” contenuta nell’art. 13, comma 6 bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, da un lato, si è riferito alla circostanza che l’obbligo del rimborso a carico del soccombente deriva direttamente ed automaticamente dalla legge, per cui, sul punto, non è necessario l’inserimento di una specifica statuizione della sentenza, mentre, dall’altro, ha stabilito, altresì, che tale obbligo sussiste in capo alla parte soccombente anche quando questa non abbia resistito alla chiamata in giudizio (cioè non si sia costituita), oppure quando sia stata esonerata dal corrispondere le spese di lite alla controparte vittoriosa, avendo il giudice disposto la compensazione delle spese del giudizio tra le parti; in tal senso va intesa la portata della prescrizione che impone a carico della parte soccombente l’onere di rimborsare l’importo del contributo unificato alla parte vittoriosa “in ogni caso”, cioè anche ove sia stata disposta la compensazione giudiziale delle spese e anche se la parte soccombente non si è costituita in giudizio.

Non sussistono i presupposti per dichiarare l’obbligo del rimborso del contributo unificato nel caso in cui la appellata in realtà, non sia parte vittoriosa nel giudizio di appello in cui ha proposto appello incidentale, in quanto la sentenza, avendo dichiarato l’appello principale tardivo (su eccezione della parte appellata e dell’appellante incidentale), non ha potuto far altro che dichiarare improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse l’appello incidentale, trattandosi di impugnazione proposta dalla stessa ricorrente vittoriosa in primo grado (ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.a.) per chiedere (ove fosse accolto l’appello principale) la riforma della sentenza del giudice di primo grado limitatamente alla parte in cui aveva respinto i primi due motivi di ricorso. In questo caso, quindi, poiché la parte appellata, vittoriosa in primo grado, ha scelto di proporre un appello incidentale ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.a. (c.d. dipendente), cioè volto soltanto a mantenere inalterato l’assetto degli interessi delineato dalla sentenza di primo grado e, quindi, legato alla sorte dell’appello principale, è evidente che la dichiarata sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’appello incidentale non è equiparabile ad una pronuncia di accoglimento. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 4167 del 10 ottobre 2016 (Cons. Stato n. 4167/2016)

Nel caso in cui la sentenza abbia indicato specificamente gli oneri accessori nel dispositivo (IVA, CAP e diritto alla restituzione di quanto pagato per contributo unificato), secondo l’art. 2 del D.M. n. 55/2014 devono aggiungersi anche: a) le spese vive documentate in relazione alle singole prestazioni; b) le spese forfettarie nella misura del 15% del compenso totale della prestazione.

Nella prassi corrente dei giudici amministrativi – e salvo che sia espressamente disposto altrimenti – la somma liquidata dal giudice a titolo di “spese” corrisponde a ciò che il D.M. n. 55/2014 denomina “compenso della prestazione professionale”, rimettendone la quantificazione alla discrezionalità del giudice.

Le spese per il giudizio di ottemperanza relativo a decreti ingiuntivi non opposti e divenuti esecutivi non possono essere quelle previste per il giudizio di cognizione davanti al TAR dalla tabella n. 21 allegata al D.M. n. 55/2014, atteso che il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto minore e paragonabile alle procedure esecutive nell’ambito del processo civile. Nel predetto caso, invece, va fatto riferimento ai parametri dettati per le “procedure esecutive mobiliari” dalla tabella n. 16 allegata al citato D.M. n. 55/2014, nella presupposizione che a queste ultime sia assimilabile il ricorso per l’ottemperanza ad un decreto ingiuntivo esecutivo. Infatti il giudizio di ottemperanza ad una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro si riduce, in buona sostanza, alla presentazione della mera richiesta che si dia esecuzione al giudicato. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 1247 del 25 marzo 2016 (Cons. Stato n. 1247/2016)

È illegittima e va riformata una sentenza (nella specie in materia di esecuzione del giudicato) che ha disposto la compensazione integrale delle spese di giudizio, ponendo a carico dell’Amministrazione soccombente la sola rifusione del contributo unificato e le spese del commissario “ad acta”, nel caso in cui – in violazione dell’art. 26 c.p.a. in combinato disposto l’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile (il quale ammette solo in casi particolari la compensazione delle spese) – la sentenza stessa non evidenzi alcuna circostanza che giustifichi la disposta compensazione, ed anzi sottolinei, in sostanza, la manifesta fondatezza delle pretese del ricorrente, e l’ingiustificata inottemperanza dell’Amministrazione all’obbligo di eseguire la sentenza di cui si tratta. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 4769 del 15 ottobre 2015 (Cons. Stato n. 4769/2015)

L’art. 26 comma 2 Cod. proc. amm., come modificato dall’art. 1 comma 1 lett. f) D.L.vo 15 novembre 2011 n. 195 – a norma del quale “il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio…” – introduce una clausola generale destinata ad essere riempita di contenuti dalla giurisprudenza, tenendo presente che sul piano sistematico, si staglia una previsione normativa di chiusura dell’ordinamento processuale amministrativo la quale consente di approntare, in via generale e residuale, un’adeguata reazione alla violazione del principio internazionale e costituzionale del giusto processo, espressamente richiamato dall’art. 2 comma 1 stesso codice, non diversamente tipizzata, di guisa che tutte le violazioni di tale superiore principio ricevano una adeguata sanzione.

L’art. 26 comma 2 Cod. proc. amm., come modificato dall’art. 1 comma 1 lett. f) D.L.vo 15 novembre 2011 n. 195 – a norma del quale “il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio…” – ha natura sanzionatoria, che prescinde da una specifica domanda nonché dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della norma è quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario.

L’art. 26 comma 2 Cod. proc. amm., come modificato dall’art. 1 comma 1 lett. f) D.L.vo 15 novembre 2011 n. 195 – a norma del quale “il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio…” -, si distingue dalla precedente versione: a) per aver introdotto una misura sanzionatoria, in aggiunta a quella indennitaria, in virtù del richiamo operato dall’art. 26 comma 1 all’intero art. 96 Cod. proc. civ. e, pertanto, anche al comma 3 che stabilisce la fattispecie indennitaria madre, dunque cumulabile con una sanzione processuale pecuniaria; b) per l’apparente modificazione dei suoi presupposti di applicabilità, tenendo peraltro presente che la “temerarietà” della condotta processuale comprende in sé anche le fattispecie delle “ragioni manifeste” e degli “orientamenti giurisprudenziali consolidati”. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 1436 del 24 marzo 2014 (Cons. Stato n. 1436/2014)

Tale norma si affianca alle misure previste dalla c.d. legge Pinto (n. 89 del 2001), chiamando la parte che abbia dato corso (o abbia resistito) ad (in) un processo oggettivamente ritenuto ingiustificabile a indennizzare la controparte che è stata costretta a subirlo.

La liquidazione della somma è affidata all’equità, qui intesa nel tradizionale significato di criterio di valutazione giudiziario correttivo o integrativo, teso al contemperamento, nella logica del caso concreto, dei contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 3252 del 31 maggio 2011 (Cons. Stato n. 3252/2011)

Gli eventuali utili conseguiti a ragione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo e della sua durata, ben potrebbero costituire parametro di riferimento, accanto ovviamente, a più tradizionali criteri, come quello del valore della controversia ovvero al riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla parte vincitrice. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 241 del 24 gennaio 2011 (Cons. Stato n. 241/2011)

La condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata, in aggiunta al pagamento delle spese del giudizio, prevista dagli artt. 26 c.p.a e 96 c.p.c. per l’ipotesi che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, postula la totale soccombenza della parte nei cui confronti sia stata proposta l’istanza risarcitoria, con la conseguenza che il suo accoglimento deve intendersi precluso qualora vi sia stata una soccombenza reciproca delle parti, trattandosi di circostanza di per sé idonea ad escludere la mala fede o la colpa grave nell’aver agito o resistito in giudizio. Consiglio di Stato, Sez. Ad. Plen., sentenza n. 3 del 2 dicembre 2010 (Cons. Stato n. 3/2010)

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