(1) L’art. 71 del D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia, prevede che le pene stabilite per i delitti di cui a questo articolo, sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. In ogni caso si procede d’ufficio e quando i delitti di cui al comma 1 del predetto art. 71, per i quali è consentito l’arresto in flagranza, sono commessi da persone sottoposte alla misura di prevenzione, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto anche fuori dei casi di flagranza. Alla pena è aggiunta una misura di sicurezza detentiva.
Arresto: obbligatorio in flagranza. | 380 c.p.p. |
Fermo di indiziato di delitto: consentito. | 384 c.p.p. |
Misure cautelari personali: consentite. | 280, 287 c.p.p. |
Autorità giudiziaria competente: Corte di assise; nell’ipotesi di delitto tentato, comunque aggravato ex artt. 576, 577 c.p., Tribunale collegiale. | 5 c.p.p.; 33 bis c.p.p. |
Procedibilità: d’ufficio. | 50 c.p.p. |
In caso di annullamento parziale della sentenza di appello per vizio di motivazione sulla ritenuta sussistenza del dolo (nella specie di omicidio volontario piuttosto che preterintenzionale) non è consentito al giudice del rinvio – cui è devoluta, per effetto della diversa qualificazione giuridica del reato, anche la rideterminazione della pena – escludere un’aggravante relativa alla condotta, comunque qualificata, già ritenuta sussistente dalla pronuncia annullata e non specificamente contestata con l’atto di appello, quando la sentenza di annullamento si sia limitata a dichiarare assorbito il motivo difensivo relativo al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche su tale aggravante, sulla cui configurabilità deve ritenersi formato il giudicato. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 34983 del 9 dicembre 2020 (Cass. pen. n. 34893/2020)
In tema di concorso di persone nel reato, il successivo accertamento della partecipazione di un agente ulteriore rispetto ai soggetti per i quali è stata già esercitata l’azione penale, non dà luogo ad un potenziale contrasto tra giudicati, neppure in modo virtuale ed in astratto, tenuto conto del diverso stadio in cui pendono i procedimenti e della piena conciliabilità dei fatti storici, nè dispiega preclusione alcuna nel procedimento successivamente instaurato, mentre consente in quello pendente l’introduzione di una diversa configurazione dei ruoli tra i concorrenti. (Fattispecie in cui, dopo la condanna in primo grado di due imputati quali autori materiali di un omicidio, a seguito di una nuova ricostruzione della dinamica del delitto ad uno di essi veniva attribuito il ruolo di autista, essendo stato individuato come co-esecutore un terzo soggetto). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 34853 del 7 dicembre 2020 (Cass. pen. n. 34853/2020)
La fattispecie scriminante della legittima difesa, risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 26 aprile 2019 n. 36, postula quali requisiti aggiuntivi rispetto a quello della proporzione, di cui al primo comma dell’art. 52 cod. pen., la commissione di una violazione di domicilio da parte dell’aggressore; la presenza legittima dell’agente nei luoghi dell’illecita intrusione predatoria o dell’illecito intrattenimento e uno specifico “animus defendendi”, per cui alla finalità difensiva deve necessariamente corrispondere, sul piano oggettivo, il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata. (In applicazione del principio, la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva escluso la legittima difesa nella condotta dell’imputato che, constatata l’intrusione nel proprio domicilio commerciale in orario di chiusura mentre si trovava nella soprastante abitazione, aveva prelevato la pistola legittimamente detenuta, raggiunto il negozio ed esploso due colpi in aria, tre colpi all’indirizzo della autovettura dei malviventi mettendola fuori uso, alcuni colpi contro l’ingresso del negozio e all’indirizzo del soggetto che ne era uscito). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 21794 del 21 luglio 2020 (Cass. pen. n. 21794/2020)
In tema di reato impossibile, l’inidoneità dell’azione – da valutarsi con riferimento al tempo del commesso reato in base al criterio di accertamento della prognosi postuma – deve essere assoluta, nel senso che la condotta dell’agente deve essere priva di astratta determinabilità causale nella produzione dell’evento, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato, indipendentemente da cause estranee o estrinseche, ancorché riferibili all’agente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato che, nel corso di una rapina, dopo aver sottratto una pistola alla persona offesa, aveva premuto più volte il grilletto senza riuscire a far fuoco per l’inserimento del dispositivo di sicurezza manuale dell’arma). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 870 del 13 gennaio 2020 (Cass. pen. n. 870/2020)
In tema di circostanze, la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima od un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 49673 del 6 dicembre 2019 (Cass. pen. n. 49673/2019)
In tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto. (In motivazione la Corte, richiamando le sentenze Corte Cost. n. 229 del 2015 e Corte Edu, Perrillo c. Italia del 27 agosto 2015, ha precisato che deve ritenersi legittima l’inclusione dell’uccisione del feto nell’ambito dell’omicidio in considerazione dell’intervenuto ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è estesa fino all’embrione e che, altresì, tale inclusione non comporta una non consentita analogia in “malam partem” bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici). Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 27539 del 20 giugno 2019 (Cass. pen. n. 27539/2019)
In tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’”animus necandi” assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post” ma con riferimento alla situazione che si presentava “ex ante” all’imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che i giudici di merito avessero correttamente desunto la sussistenza del dolo di tentato omicidio dalla pericolosità dell’arma usata – un coltello da cucina con una lama di 17 cm. – dal distretto corporeo attinto, dalla gravità delle lesioni inferte alla vittima e dal comportamento immediatamente successivo dell’indagato, che, nell’effettuare un movimento teso a colpire la vittima alla gola, aveva pronunciato la frase: “Ti sgozzo”). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 11928 del 18 marzo 2019 (Cass. pen. n. 11928/2019)
In tema di omicidio, l’aggravante di aver agito con crudeltà non può ravvisarsi nella mera reiterazione di colpi inferti con una spranga di ferro alla vittima, se tale azione non eccede i limiti della normalità causale rispetto all’evento e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 725 del 10 gennaio 2014 (Cass. pen. n. 725/2014)
Nel caso di lesioni personali seguite dal decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale presenza di una grave cardiopatia che abbia concorso nella causazione della morte non elide il nesso di causalità tra la condotta lesiva dell’agente e l’evento. (Fattispecie in tema di omicidio volontario procurato da numerosi colpi di coltello inferti in area vitale del corpo, con conseguente fenomeno emorragico in soggetto portatore di una grave cardiopatia). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 43367 del 24 novembre 2011 (Cass. pen. n. 43367/2011)
La sussistenza del dolo nel delitto di tentato omicidio può desumersi, in mancanza di attendibile confessione, dalle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali, a titolo esemplificativo, il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 30466 del 1 agosto 2011 (Cass. pen. n. 30466/2011)
La responsabilità civile della P.A. per reato commesso dal dipendente presuppone un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate, che ricorre quando l’illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti svolti, anche se il soggetto ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti. (In applicazione di tale principio, è stata riconosciuta la responsabilità civile del Ministero della Difesa per l’omicidio volontario commesso sulla terraferma in danno di un cittadino straniero da un marinaio imbarcato su una nave italiana in missione all’estero, il quale si trovava in “franchigia”, posto che anche durante la libera uscita il militare è considerato in servizio e resta soggetto a tutti i propri doveri). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 21195 del 26 maggio 2011 (Cass. pen. n. 21195/2011)
Il reato di resistenza a pubblico ufficiale resta assorbito nella contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 10 c.p. per il concorrente reato di tentato omicidio in danno dello stesso pubblico ufficiale, in quanto il fatto di resistenza è compreso nell’essere, la condotta aggravata, commessa contro un pubblico ufficiale nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 713 del 14 gennaio 2011 (Cass. pen. n. 713/2011)
Ricorre la fattispecie di tentato omicidio, e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della stessa, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza in capo al soggetto agente del cosiddetto “animus necandi”. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 37516 del 20 ottobre 2010 (Cass. pen. n. 37516/2010)
Integra il delitto di omicidio volontario e non quello previsto dall’art. 586 c.p. il fatto di sparare, con una micidiale arma da guerra (nella specie un fucile mitragliatore kalashnikov), un numero elevato di colpi all’indirizzo di un furgone blindato, cagionando in tal modo la morte del conducente, dovendosi prevedere, in una azione simile, come certa o altamente probabile l’eventualità che qualcuno dei colpi raggiunga gli occupanti della cabina dell’automezzo. (Nella specie la Corte ha qualificato il dolo come diretto e non eventuale, in quanto caratterizzato dalla rappresentazione del fatto quanto meno come altamente probabile, sì che l’autore non si era solo limitato ad accettare il rischio dell’evento, ma aveva accettato anche l’evento in sé). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 31695 del 11 agosto 2010 (Cass. pen. n. 31695/2010)
Nel delitto di tentato omicidio, pur avendo valenza concorrente i due profili dell’intenzione dell’agente e dell’idoneità degli atti, quest’ultimo prevale rispetto a un’intenzione del soggetto agente solo in parte denunciata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva, come la natura del mezzo usato, la parte del corpo attinta e la gravità delle lesioni inferte. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 24808 del 1 luglio 2010 (Cass. pen. n. 24808/2010)
Il tentativo di omicidio si caratterizza per l’oggettiva idoneità e destinazione univoca dell’azione a realizzare il più grave evento, denunciata solo in parte dall’intenzione dell’agente, concorrendovi anche, e in misura prevalente, elementi di carattere oggettivo, quali la natura del mezzo usato, la parte del corpo della vittima presa di mira, la gravità della lesione inferta. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 35174 del 11 settembre 2009 (Cass. pen. n. 35174/2009)
Il dolo nel delitto di omicidio deve essere desunto dalla concreta circostanza dell’azione e dalla oggettiva idoneità della stessa a cagionare la morte, e ciò in riguardo ai mezzi adoperati e alla modalità dell’aggressione, a nulla rilevando la mancata reiterazione dei colpi. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 26715 del 1 luglio 2009 (Cass. pen. n. 26715/2009)
Nel reato di strage il dolo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere atti idonei a determinare pericolo per la vita e l’integrità fisica della collettività mediante violenza (evento di pericolo), con la possibilità che dal fatto derivi la morte di una o più persone (evento di danno), al fine (dolo specifico) di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone, e va desunto dalla natura del mezzo usato e da tutte le modalità dell’azione. Ne consegue che, al fine di stabilire se l’uccisione di più soggetti integri il delitto di strage ovvero quello d’omicidio volontario plurimo, l’indagine deve essere globale, con speciale riguardo ai mezzi usati, alle modalità esecutive del reato e alle circostanze ambientali che lo caratterizzano. (Nella specie la Corte ha ritenuto corretta la qualificazione di strage dell’omicidio del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta, realizzato mediante impiego di un’enorme quantità d’esplosivo, in luogo pubblico, con effetti distruttivi di straordinaria portata). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 42990 del 18 novembre 2008 (Cass. pen. n. 42990/2008)
È configurabile il delitto di omicidio volontario nella condotta di chi, prescrivendo a un paziente di attenersi esclusivamente alle sue cure, l’abbia indotto ad evitare quelle della medicina ufficiale, con la consapevolezza che ciò avrebbe causato con rilevante probabilità la morte o l’avrebbe anticipata nel tempo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2112 del 15 gennaio 2008 (Cass. pen. n. 2112/2008)
In tema di reati di danno a forma libera, come l’omicidio, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 42749 del 20 novembre 2007 (Cass. pen. n. 42749/2007)
In tema omicidio volontario, in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l’animus necandi la valutazione dell’esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico d’induzione da altri fatti certi, quali i mezzi usati, la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la configurabilità del dolo omicidiario nella forma del dolo alternativo, anziché l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale, con riferimento all’omicidio realizzato con violenti calci alla schiena e al torace ed il pestaggio di parti vitali del corpo della vittima, inerte a terra a causa del suo stato di ubriachezza). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 28175 del 16 luglio 2007 (Cass. pen. n. 28175/2007)
È configurabile il dolo omicidiario nella condotta dell’agente che, dopo avere ripetutamente colpito con calci, pugni e un corpo contundente parti vitali del corpo della vittima, la trasporti sino a una spiaggia, per ivi abbandonarla bocconi sulla battigia in condizione di mare mosso che ne determinano l’annegamento. (In motivazione la Corte osserva che lo stretto contatto con il corpo della vittima — dopo che questa aveva perso conoscenza in conseguenza delle gravi lesioni subite costituenti concausa dell’evento letale — nella fase del trasporto e del trascinamento sino alla riva della mare aveva consentito all’imputato di percepire estremi segni di perdurante vitalità della vittima, che decedeva per asfissia da annegamento, con la conseguenza che anche quest’ultimo atto doveva ritenersi sorretto da dolo omicidiario, quanto meno nella forma del dolo eventuale). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 631 del 15 gennaio 2007 (Cass. pen. n. 631/2007)
In tema di delitti omicidiari, deve individuarsi il dolo diretto nella condotta dell’agente che, sforzandosi di superare un’alta rete metallica protettiva, lanci un sasso di rilevante massa (circa tre chilogrammi) in corrispondenza della corsia di scorrimento delle macchine su un’autostrada, notoriamente molto trafficata in determinate ore del giorno, da un punto di un cavalcavia da cui non sia possibile vedere le auto che transitano in basso. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5436 del 11 febbraio 2005 (Cass. pen. n. 5436/2005)
In tema di delitti contro la persona, l’elemento distintivo delle fattispecie di soppressione del prodotto del concepimento è costituito anche dal momento in cui avviene l’azione criminosa. La condotta di procurato aborto, prevista dall’art. 19 L. 22 maggio 1978, n. 194, si realizza in un momento precedente il distacco del feto dall’utero materno; la condotta prevista dall’art. 578 c.p. si realizza invece dal momento del distacco del feto dall’utero materno, durante il parto se si tratta di un feto o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato. Di conseguenza, qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno, il fatto, in assenza dell’elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, previsto dall’art. 578 c.p., configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577 n.1 c.p. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 46945 del 2 dicembre 2004 (Cass. pen. n. 46945/2004)
Ai fini del riconoscimento della provocazione in un delitto omicidiario, per stabilire l’adeguatezza psicologica della condotta all’afflizione determinata nell’agente dall’altrui comportamento, il giudice di merito non può limitare l’esame alla condotta ultima della persona oggetto dell’azione delittuosa, ma deve considerare tutta la serie di atti contrari a norme giuridiche o a regole di primaria convivenza che si siano succeduti nel tempo ad accertare se questi siano stati idonei, sul piano causale, a potenziare «per accumulo» la carica afflittiva di ingiusta lesione dei diritti dell’offeso e ad assumere rilevanza nel rapporto causale offesa-reazione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 40550 del 15 ottobre 2004 (Cass. pen. n. 40550/2004)
Integra il tentativo di omicidio la condotta degli affiliati ad una associazione camorristica che, allo scopo di eliminare il capo di un clan rivale, deliberano di ucciderlo e predispongono, anche ricorrendo ad associazioni collaterali o alleate, l’organizzazione necessaria per l’esecuzione del delitto, in quanto gli atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo quando sono idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, in tal modo applicando il criterio di adeguatezza causale nel senso di verifica della attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice. (Fattispecie nella quale risultava individuato un gruppo incaricato di localizzare la vittima designata, con il compito di segnalarne la posizione agli esecutori materiali, equipaggiati con motociclette ed armati, affinché questi potessero raggiungerla immediatamente e, una volta eliminatala, allontanarsi subito dopo con altri mezzi predisposti da un diverso gruppo operativo). Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 25040 del 3 giugno 2004 (Cass. pen. n. 25040/2004)
Sussiste ipotesi di concorso formale, ex art. 81, comma primo, c.p., fra il reato di resistenza a pubblico ufficiale e quello di tentato omicidio, stante la diversità dei beni giuridici tutelati da tali norme e le differenze qualitative e quantitative dell’esercitata violenza contro il pubblico ufficiale. Il primo di detti reati, infatti, assorbe soltanto quel minimo di violenza che si sostanzia nelle percosse e non già quegli atti che, esorbitando da detto limite minimo, e pur finalizzati alla resistenza, attentino alla vita o all’incolumità del pubblico ufficiale. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9607 del 2 marzo 2004 (Cass. pen. n. 9607/2004)
In tema di prova del mandato a commettere omicidio, la «causale», pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all’eliminazione fisica della vittima allorché converge, per la sua specificità ed esclusività, in una direzione univoca, tuttavia, poiché conserva di per sè un margine di ambiguità, in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l’esistenza del fatto incerto (cioè la possibilità di ascrivere il crimine al mandante), in quanto, all’esito dell’apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale di insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione. Cassazione penale, Sez. Unite, sentenza n. 45276 del 24 novembre 2003 (Cass. pen. n. 45276/2003)
Costituisce tentativo di omicidio plurimo il lancio “a pioggia”, dall’alto di una cavalcavia sulla sottostante sede autostradale, in ora notturna, di sassi, pietre, cocci e simili, in quanto tale azione, seppure non diretta a colpire singoli autoveicoli, è idonea — per la non facile avvistabile presenza degli oggetti sulla carreggiata, data anche l’ora notturna, e per la consistente velocità tenuta generalmente dai conducenti in autostrada — a creare il concreto pericolo di incidenti stradali, anche mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve ritenersi diretta la volontà dell’agente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 19897 del 30 aprile 2003 (Cass. pen. n. 19897/2003)
In tema di delitti omicidiali, deve qualificarsi come diretta e non come eventuale la particolare manifestazione di volontà dolosa definita “dolo alternativo” che sussiste allorquando l’agente, al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole indifferentemente e alternativamente che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro evento, egli risponde per quello effettivamente realizzato. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 16976 del 10 aprile 2003 (Cass. pen. n. 16976/2003)
Non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572, comma 2, c.p., quando la morte del familiare, che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente. In tali circostanze non è neppure configurabile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario, rappresentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 16578 del 8 aprile 2003 (Cass. pen. n. 16578/2003)
La condotta del soggetto che, pur consapevole di essere affetto da Aids, abbia contagiato il coniuge intrattenendo rapporti sessuali senza alcuna precauzione e senza informarlo dei rischi cui poteva andare incontro, sino a determinarne la morte, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento e non quello di omicidio volontario. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 30425 del 3 agosto 2001 (Cass. pen. n. 30425/2001)
Il concorso di persone nell’omicidio seguito a una rapina a mano armata in danno del titolare di una gioielleria è, ai sensi dell’art. 110 c.p., pieno e non anomalo (art. 116 c.p.) atteso che l’evento omicidiario verificatosi non può considerarsi eccezionale e imprevedibile in un ordinario possibile suo sviluppo, alla luce di una verificata regolarità causale dovuta all’uso delle armi per fronteggiare evenienze peggiorative o per garantirsi la via di fuga. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 25239 del 21 giugno 2001 (Cass. pen. n. 25239/2001)
La sussistenza della premeditazione nell’omicidio può essere ricavata dalla preparazione del delitto, desunta dal precedente pedinamento della vittima e dalla partecipazione al delitto di due persone, il cui concorso ha necessariamente richiesto un’opera di preventivo convincimento, in quanto durante lo svolgimento di tale attività preparatoria, sviluppatasi nel tempo, l’imputato aveva la possibilità di recedere dal suo proposito criminoso Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 25221 del 21 giugno 2001 (Cass. pen. n. 25221/2001)
È configurabile il reato di tentato omicidio qualora un soggetto affetto da Aids emetta volontariamente dal cavo orale saliva mista a sangue con la quale raggiunga, allo scopo di infettarlo, parti sensibili (quali, nella specie, le mucose della bocca e la congiuntiva dell’occhio), del corpo di un’altra persona. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9541 del 8 settembre 2000 (Cass. pen. n. 9541/2000)
Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — ove manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato — ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità offensiva sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ciò che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi è l’idoneità dell’azione la quale va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perché altrimenti l’azione, per non aver conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato: il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3185 del 15 marzo 2000 (Cass. pen. n. 3185/2000)
L’individuazione di un adeguato movente dell’azione omicidiaria perde qualsiasi rilevanza, ai fini dell’affermazione della responsabilità, allorché vi sia comunque la prova dell’attribuibilità di detta azione all’imputato. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6514 del 3 giugno 1998 (Cass. pen. n. 6514/1998)
Non integra il reato di omicidio volontario la condotta della madre consistente nella collocazione della neonata in una busta di plastica e nella mancata prestazione delle cure necessarie alla sopravvivenza della bambina, qualora la donna, partorendo da sola in casa, colpita da grave emorragia e in stato di agitazione, si sia trovata nell’impossibilità di chiedere soccorso. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2608 del 27 febbraio 1998 (Cass. pen. n. 2608/1998)
Risponde del reato di omicidio a titolo di dolo eventuale – una volta accertato che l’evento mortale, riconducibile alla condotta volontariamente posta in essere, fosse prevedibile – l’agente che abbia accettato il rischio del suo avverarsi pur di portare a termine l’azione criminosa. (Nella fattispecie, relativa a vittima morta soffocata in seguito ad imbavagliamento cui era stata sottoposta dai rapinatori, la Corte ha affermato il principio distinguendo l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale – in cui la morte del soggetto passivo del reato deve essere, seppure non voluta, conseguenza di una condotta intenzionalmente diretta a ledere – e l’ipotesi della morte come conseguenza di altro delitto, in cui l’evento è conseguenza non presente nella cosciente determinazione del reo neanche a livello di possibilità). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2587 del 27 febbraio 1998 (Cass. pen. n. 2587/1998)
In tema di delitti omicidiali, deve qualificarsi come dolo “diretto”, e non meramente “eventuale”, quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita “dolo alternativo” che sussiste allorquando l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve prevederli entrambi. (Nella fattispecie è stata affermata la sussistenza della volontà omicida, ed è stato conseguentemente ritenuto configurabile il delitto di tentato omicidio e non quello di lesioni personali volontarie, in considerazione di diversi elementi indizianti di carattere oggettivo quali le caratteristiche del coltello utilizzato per commettere il fatto, la posizione degli antagonisti, la violenza e la profondità del colpo inferto, la zona del corpo attinta, l’adeguata causale dell’azione criminosa). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9949 del 5 novembre 1997 (Cass. pen. n. 9949/1997)
Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — ove manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato — ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ciò che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi è l’idoneità dell’azione la quale va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perché altrimenti l’azione, per non aver conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato: il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare. (Nella fattispecie la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione della corte di merito che aveva desunto la volontà omicida dell’imputato dalla natura del mezzo usato — una pistola calibro 38 «special» — dalla zona corporale attinta dal proiettile — regione lombare sinistra con penetrazione nel pacco intestinale e fuoriuscita dal fianco sinistro — dalla distanza ravvicinata tra lo sparatore e la vittima, nonché dalla oggettiva gravità delle lesioni essendosi il ferito salvato solo a seguito di un tempestivo intervento chirurgico). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5389 del 7 giugno 1997 (Cass. pen. n. 5389/1997)
In tema di valutazione del dolo nel delitto di omicidio deve ritenersi contraddittorio il riconoscimento della predeterminazione quando la morte sia conseguente ad un violento pestaggio, premeditato, motivato da ragioni di vendetta e eseguito con modalità che la stessa sentenza definisce «bestiali». Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 5129 del 31 maggio 1997 (Cass. pen. n. 5129/1997)
Sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle; quando invece l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale. (In applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto la sussistenza del dolo diretto nella condotta di un soggetto, imputato di tentato omicidio, il quale, dopo aver consumato una rapina, aveva esploso alcuni colpi di pistola verso i suoi inseguitori mirando verso il basso e quindi, quasi raggiunto, aveva ancora sparato prendendo di mira il busto dell’inseguitore più vicino, che era riuscito ad evitare il proiettile). Cassazione penale, Sez. Unite, sentenza n. 3571 del 12 aprile 1996 (Cass. pen. n. 3571/1996)
La volontà dolosa, a seconda dei vari livelli di intensità dai quali può essere caratterizzata, può dar luogo alla configurabilità del dolo intenzionale (allorché si persegue l’evento come scopo finale della condotta o come mezzo necessario per ottenere un ulteriore risultato); del dolo diretto (allorché l’evento non costituisca l’obiettivo della condotta, ma l’agente lo preveda e lo accetti come risultato certo o altamente probabile di quella condotta); del dolo eventuale (connotato dall’accettazione del rischio di verificazione dell’evento, visto, nella rappresentanza psichica dell’agente, come una delle possibili conseguenze della condotta). (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha cassato con rinvio, per vizio di motivazione, la sentenza del giudice di merito il quale, in relazione ad un addebito di omicidio, aveva ritenuto comprovata, sulla base di considerazioni definite dalla stessa Corte come «meramente astratte» ed «idonee, di per sé a giustificare più la prevedibilità che l’effettiva previsione dell’evento mortale», la volontà omicida dell’imputato, in un caso in cui la condotta produttrice di quell’evento era consistita nell’esplosione di un colpo di fucile in direzione di una coscia della vittima, onde indurre quest’ultima a rivelare il luogo in cui era nascosto del denaro). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3277 del 29 marzo 1996 (Cass. pen. n. 3277/1996)
In un procedimento di natura indiziaria per omicidio, la causale, quando per la sua specificità ed esclusività converge in una direzione univoca, può costituire elemento indefettibile del coinvolgimento del soggetto, interessato all’eliminazione fisica della vittima, nell’episodio omicidiario; ma essa, conservando di per sè un margine di ambiguità, funge da elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di responsabilità, solo quando, nel quadro di una valutazione globale d’insieme, gli indizi si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione, anche in virtù della chiave di lettura di essi offerta dal medesimo movente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 567 del 18 gennaio 1996 (Cass. pen. n. 567/1996)
In tema di concorso di persone nel reato, solo l’evento atipico – cioè il fatto eccezionale e del tutto imprevedibile, non una prospettazione meramente soggettiva di non passaggio al reato più grave – può escludere la responsabilità a titolo di concorso anomalo ex art. 116 c.p. (Nella fattispecie, gli autori di una rapina si preparavano ad allontanarsi, dopo la commissione del fatto, allorquando erano giunti sul posto agenti di polizia; ne era seguito un conflitto a fuoco nel quale avevano riportato la morte due degli agenti accorsi. La Suprema Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità anche per l’omicidio, a titolo di concorso anomalo ex art. 116 c.p., enunciando il principio di cui in massima). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7321 del 27 giugno 1995 (Cass. pen. n. 7321/1995)
In tema di omicidio volontario, anche l’evento morte può essere provato mediante indizi gravi, precisi e concordanti (art. 192 c.p.p.), nessuna limitazione in tal senso ponendo la legge, né rileva la mancata scoperta del cadavere, come anche si desume dalla punibilità, quale titolo autonomo di reato dell’occultamento di esso (art. 412 c.p.), punibilità non condizionata alla successiva sua scoperta. A tal fine il giudice può tenere conto anche del comportamento post factum dell’imputato, non risultando fondata la tesi che esso rilevi soltanto per la determinazione della pena, ex art. 133 c.p. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3624 del 4 aprile 1995 (Cass. pen. n. 3624/1995)
Agli effetti della legitimatio ad causam, del soggetto, convivente di fatto della vittima dell’azione omicidiale di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l’aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo. Conseguentemente, mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno sia disciplinato dalla legge, l’aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte dei terzi. Tuttavia non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un’azione risarcitoria: consistendo il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi patrimoniali, che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto, esso intanto può essere risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l’altrui azione omicidiale, la convivenza sarebbe continuata nel tempo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3790 del 27 ottobre 1994 (Cass. pen. n. 3790/1994)
In tema di animus necandi, l’espressa adesione ad impresa (nella specie: rapina) comportante impiego di armi, con annesso consenso anche all’uso cruento delle stesse, se necessario in ragione di intuitive evenienze peggiorative, concreta, nel caso in cui taluno dei concorrenti faccia appunto uso delle armi provocando la morte di una persona, titolo di dolo pieno del delitto di omicidio anche per gli altri concorrenti. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3783 del 31 marzo 1994 (Cass. pen. n. 3783/1994)
Sussiste il dolo del delitto di omicidio allorquando l’agente, pur non mirando ad un evento mortale come proprio obiettivo intenzionale, abbia tuttavia previsto come probabile — secondo un normale nesso di causalità — la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l’agire in presenza di tale situazione soggettivamente rappresentatasi, il rischio della sua verificazione. Diversamente, nell’ipotesi di cui all’art. 586 c.p., l’agente si è rappresentato ed ha voluto soltanto il delitto dalla cui commissione è derivato l’evento morte, non presente nella cosciente determinazione del reo, ma verificatasi soltanto quale effetto diretto del diverso delitto realizzato. (Fattispecie in cui la corte ha ritenuto corretta la statuizione del giudice di merito che dal fatto che l’imputato, penetrato in ora notturna in abitazione privata ed incontrata la persona che vi abitava, aveva appiccato fuoco in diverse zone della casa, in tal modo rappresentandosi — ed accettandone il relativo rischio — la probabilità che la suddetta persona e quanti altre potevano abitare colà potessero decedere a cagione dell’incendio sviluppatosi). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3766 del 31 marzo 1994 (Cass. pen. n. 3766/1994)
Quando l’alternativa accusatoria si pone tra due delitti contro la vita e l’incolumità individuale, che differiscono solo per la gravità dell’evento, come la lesione personale volontaria e l’omicidio, e si sia verificato l’evento meno grave, può prospettarsi un problema di dolo eventuale o indiretto solo se risulta accertato che l’evento meno grave è quello perseguito come scopo finale, ossia con dolo intenzionale, con accettazione secondaria del rischio che possa anche verificarsi quello più grave. Il problema del dolo indiretto concernente il tentativo del reato più grave non può, invece, porsi allorché la condotta sia stata di tale intensità da non potersi distinguere se la volontà dell’agente fosse volta a provocare la lesione o la morte. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto che per le modalità con le quali le lesioni furono inferte (violento colpo di coltello a serramanico, con lama lunga e fissa, e con l’esecuzione di movimenti circolari e trasversali della lama nelle viscere della vittima) fosse da escludere il tentativo di omicidio con dolo eventuale, ma ricorresse il tentativo con dolo diretto o alternativo diretto, procedendo alla rettifica della motivazione della sentenza impugnata). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 2594 del 3 marzo 1994 (Cass. pen. n. 2594/1994)
Qualora risulti accertata l’esistenza di una volontà omicida in base ad inequivoci elementi probatori di natura oggettiva, desunti principalmente dalle concrete modalità della condotta, resta non influente l’apparente inadeguatezza della causale, essendo varie per intensità le ragioni di ciascun individuo e potendo uccidersi anche per un futile motivo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 758 del 26 gennaio 1994 (Cass. pen. n. 758/1994)
Nell’omicidio tentato l’elemento psicologico richiesto dall’art. 56 comma primo, c.p. consiste nella coscienza e volontà di compiere atti univocamente diretti a cagionare la morte di una persona. Tale elemento risulta integrato non soltanto quando l’agente ha agito con l’intenzione di uccidere (dolo internazionale), ma anche quando egli si è rappresentato l’evento morte come conseguenza altamente probabile della condotta, che ciononostante ha posto in essere (dolo diretto). Agli effetti del tentativo di omicidio, deve essere qualificato dolo diretto non intenzionale, e non dolo eventuale, l’atteggiamento psichico dell’agente che, per sottrarsi alla cattura dopo una rapina, risponde al colpo di avvertimento, esploso da una guardia giurata, sparando ad altezza d’uomo cinque colpi con una pistola 44 Magnum, attingendola ad una coscia, dalla distanza di pochi metri. Cassazione penale, Sez. Unite, sentenza n. 748 del 25 gennaio 1994 (Cass. pen. n. 748/1994)
Perché possa parlarsi di tentativo di omicidio è necessario che l’azione sia non solo orientata a cagionare la morte, ma anche obiettivamente idonea a provocare l’evento, a mettere cioè in pericolo il bene giuridico tutelato, che è la vita e non l’incolumità fisica; tale idoneità, poi, va valutata con riferimento al contesto delle circostanze concrete in cui il fatto si verifica. Se l’atto criminoso nella sua capacità causale non è adeguato alla produzione dell’evento ogni possibilità di una sua realizzazione viene meno e, pertanto, l’atto deve ritenersi inidoneo. (Nella specie, relativa ad annullamento con rinvio di sentenza di condanna, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di merito non avevano valutato le circostanze concrete in cui si era verificato l’episodio e cioè avere l’imputato sparato contro l’autovettura dietro alla quale era nascosto un agente di polizia). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 10331 del 15 novembre 1993 (Cass. pen. n. 10331/1993)
Il delitto di cui all’art. 578 c.p. nella sua attuale formulazione dopo la modifica intervenuta con l’art. 2, L. 5 agosto 1981, n. 442, si differenzia da quello di omicidio ex art. 575 stesso codice perché richiede non solo che la morte del neonato sia stata cagionata «immediatamente dopo il parto», ma anche che il fatto sia stato «determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto» (avendo il legislatore abbandonato la precedente ragione dell’incriminazione speciale consistente nel fine di salvare l’onore proprio e di un prossimo congiunto). Le suddette condizioni devono sussistere congiuntamente, cioè le une e le altre; devono esistere oggettivamente e non essere soltanto semplicemente supposte; infine devono essere connesse al parto, nel senso che, in conseguenza della loro oggettiva esistenza, la madre ritenga di non poter assicurare la sopravvivenza del figlio subito dopo il parto. (In motivazione, la Suprema Corte ha chiarito che le condizioni di abbandono materiale e morale possono ritenersi sussistenti solo quando la madre sia lasciata in balia di se stessa e venga a trovarsi al momento del parto, o subito prima o dopo di esso, in uno stato di derelizione ovvero di isolamento tale che non consente l’intervento o l’aiuto di terzi, né un qualsiasi soccorso fisico o morale; e che quando, invece, lo stato di abbandono materiale e morale viene volontariamente creato e mantenuto, se la morte interviene ed è collegata causalmente a tali condizioni che hanno a loro volta determinato l’evento letale, il fatto è riconducibile all’ipotesi legislativa dell’omicidio volontario). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 7756 del 18 agosto 1993 (Cass. pen. n. 7756/1993)
In tema di omicidio, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’imputato la causale del delitto non deve essere necessariamente individuata in quanto pur costituendo un elemento indefettibile del reato medesimo, purtuttavia ha un valore probatorio solo sussidiario, tanto più nell’ipotesi in cui la prova della volontà omicida emerga da altri più diretti e concludenti elementi di prova.
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Per l’individuazione dell’elemento psicologico del reato in genere e dei delitti contro la persona in particolare, occorre assumere come elemento sintomatico della sua esistenza quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Tali dati possono emergere, nella fattispecie del delitto di tentato omicidio, dalla reiterazione dei colpi esplosi dall’agente, dalla zona corporale della parte offesa attinta dai proiettili, dalla distanza tra offensore ed offeso: elementi tutti che, singolarmente e complessivamente presi in considerazione, sono sicuro indice delle finalità perseguite dal reo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7574 del 3 agosto 1993 (Cass. pen. n. 7574/1993)
Nel caso in cui al ferimento di una donna – nella specie attinta da colpi di pistola – sia conseguito l’aborto e successivamente – a distanza di alcuni giorni – la morte e siano ritenuti sussistenti gli elementi oggettivi e soggettivi del delitto di procurato aborto di cui all’art. 18 L. 22 maggio 1978, n. 194, tale reato non può essere assorbito in quello più grave di omicidio di cui all’art. 575 c.p. poiché l’evento dell’aborto si è realizzato sul piano fenomenico in modo distinto e anteriore rispetto a quello della morte della donna. Tuttavia, trattandosi di eventi autonomi puniti da disposizioni di legge diverse, cagionati con una sola azione, il reato di procurato aborto deve essere unificato con quello di omicidio ai sensi dell’art. 81, primo comma, c.p. (concorso formale) e non col vincolo della continuazione. (Nella specie il ricorrente sosteneva che dovrebbe escludersi l’applicabilità dell’art. 575 c.p., rientrando la morte della donna nell’ipotesi di cui all’art. 18, secondo e quarto comma, L. n. 194 del 1978, tipica forma di reato progressivo. La S.C. ha invece osservato che, quanto all’evento aggravante «morte», derivante dai fatti indicati nei commi primo e secondo dell’art. 18 citato, esso non deve essere voluto, mentre, qualora la morte o la lesione siano dolose, si risponderà del delitto di cui al primo e secondo comma in concorso formale con le lesioni o l’omicidio, sia nella forma tentata che in quella consumata). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7249 del 24 luglio 1993 (Cass. pen. n. 7249/1993)
Al fine della sussistenza della volontà omicida, i colpi di arma da fuoco devono essere sparati in direzione di parti vitali del corpo di una persona; perché ciò si realizzi non è sufficiente che i colpi siano esplosi ad altezza d’uomo, ma è necessario che gli stessi siano esplosi in direzione della figura, e non lateralmente rispetto ad essa. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7122 del 21 luglio 1993 (Cass. pen. n. 7122/1993)
Nel caso di soggetti che abbiano raggiunto la maggiore età, la capacità di intendere e di volere, siccome connaturale, secondo l’id quod plerumque accidit, a ciascun essere umano, è da considerare presunta, salvo che sussistano specifici e concreti elementi atti a far ragionevolmente ritenere che, nella singola fattispecie, detta presunzione possa essere superata da risultanze di segno contrario. In tema di omicidio, tuttavia, la sussistenza di siffatti elementi non è automaticamente riconoscibile per il solo fatto che il delitto sia caratterizzato da particolare efferatezza e brutalità, ovvero sia riconducibile ad una causale che appaia inadeguata. Tali caratteristiche, infatti, ben possono rapportarsi ad un’indole particolarmente crudele e malvagia del colpevole, o ad una sua peculiare reattività, senza alcuna implicazione di natura psicopatologica, tanto è vero che il legislatore ne ha previsto l’inquadrabilità fra le circostanze aggravanti (art. 61, nn. 1 e 4, c.p.). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5347 del 26 maggio 1993 (Cass. pen. n. 5347/1993)
In tema di omicidio, dalla preordinazione del crimine, concernente le modalità di esecuzione di esso, che non è da sola sufficiente a denotarne la premeditazione, possono essere tratti elementi sintomatici idonei ad una corretta individuazione e qualificazione del dolo del soggetto agente, con la conseguenza che la causale del fatto, la preordinazione accurata dei mezzi per porlo in essere, la ricerca della occasione più favorevole per realizzarlo e le modalità di esecuzione del delitto sono fatti oggettivi dai quali il giudice di merito può, con adeguata motivazione, desumere la sussistenza o meno della circostanza aggravante prevista dall’art. 577, comma primo n. 3, c.p. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4956 del 13 maggio 1993 (Cass. pen. n. 4956/1993)
Il valore sintomatico della paternità dell’azione, nella causale, è connaturato alla sua diretta partecipazione al processo formativo della volontà di una condotta. Come tale, il movente ha non solo la capacità di esaltare gli elementi indiziari di carattere oggettivo, facendoli convergere in un quadro unitario di riferimento, ma è esso stesso dotato dell’autonoma capacità di manifestare ciò che senza la sua corretta valutazione resterebbe sconosciuto. Né il sistema processuale vigente pone limiti al giudice nella scelta della prova atipica o nell’apprezzabilità della sua capacità rivelatrice di un fatto o di un aspetto dello stesso. Pertanto, la prova del coinvolgimento di un soggetto in un delitto può anche essere la causale, quando questa, per la sua specificità, converge in una direzione univoca. (In tema di omicidio, è stato ritenuto che l’interesse di alcuni imputati all’eliminazione fisica di un ufficiale dei carabinieri sorreggeva l’ipotesi della riferibilità del fatto all’associazione criminosa di cui essi imputati erano esponenti, rafforzando nel contempo la valenza probatoria degli altri indizi).
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Nell’ambito di un’associazione per delinquere di stampo mafioso l’omicidio eseguito materialmente da alcuni affiliati in attuazione del programma criminoso non può essere addebitato sotto il profilo del concorso morale ai componenti della struttura di vertice denominata «commissione» in quanto tali, dovendosi verificare per ciascuno di essi la causale, individuabile nel diretto e pressante interesse alla soppressione della vittima del gruppo criminale rappresentato. (Sulla scorta del principio enunciato in massima la Suprema Corte ha annullato con rinvio la condanna nei confronti di uno dei membri della «commissione» mafiosa, evidenziando un suo incipiente esautoramento, oltre allo stretto rapporto esistente fra gli autori materiali del delitto ed altri membri della «commissione»). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 2381 del 11 marzo 1993 (Cass. pen. n. 2381/1993)
Il criterio distintivo fra le due ipotesi di reato previste dagli artt. 575 e 584 c.p., va individuato nella diversità dell’elemento psicologico che nell’omicidio preterintenzionale consiste nella volontarietà delle percosse o delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e del rischio. Invero, allorquando l’agente abbia agito con dolo alternativo, con la volontà cioè di ferire o di uccidere indifferentemente o con dolo eventuale, vale a dire con previsione o rappresentazione dell’evento in termini di probabilità e di accettazione del rischio, non può ricorrere l’ipotesi preterintenzionale che presuppone l’accertata esistenza di volontà unicamente diretta a ledere o percuotere. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 710 del 26 gennaio 1993 (Cass. pen. n. 710/1993)
In tema di omicidio, consumato o tentato, il compartecipe che non ha commesso l’azione tipica del reato lesivo della vita o dell’integrità fisica della vittima risponderà dell’evento diverso e più grave verificatosi a titolo di concorso anomalo ex art. 116 c.p. se è provata la rappresentazione in concreto di detto evento come possibile conseguenza dell’azione concordata dal correo, rappresentazione che è desunta con discrezionale valutazione del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivata, dalle modalità effettive di esecuzione e da tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, oppure non ne risponderà se detta rappresentazione sarà ritenuta insussistente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6906 del 11 giugno 1992 (Cass. pen. n. 6906/1992)
In tema di omicidio, consumato o tentato a scopo di rapina a mano armata il compartecipe il quale non ha commesso l’azione tipica del reato lesivo della vita o dell’integrità fisica della vittima non può rispondere di concorso in tale reato, ex art. 110 c.p., sull’erroneo ed apodittico rilievo che colui il quale ha voluto una rapina a mano armata deve avere ragionevolmente previsto l’uccisione o il ferimento del destinatario dell’azione criminosa. Egli dell’evento diverso e più grave, verificatosi, risponderà a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 c.p., se sarà acquisita la prova che si è concretamente rappresentato detto evento come possibile conseguenza della azione concordata col correo, delle modalità di esecuzione di essa e di tutte le altre rilevanti circostanze di fatto, ovvero non ne risponderà se la detta rappresentazione sarà ritenuta insussistente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6224 del 22 maggio 1992 (Cass. pen. n. 6224/1992)
Nell’accertamento dell’esistenza dell’animus necandi, il movente dell’azione, elemento di natura soggettiva, costituisce un fattore sussidiario. Esso è cosa diversa dal dolo e pertanto la prova della volontà omicida può essere bene desunta dagli aspetti oggettivi del fatto, quando le caratteristiche e modalità dell’azione rendono evidente l’intenzione di uccidere. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3207 del 18 marzo 1992 (Cass. pen. n. 3207/1992)
La prova del dolo del delitto di tentato omicidio deve essere desunta attraverso un processo logico inferenziale analogo a quello utilizzato nel procedimento indiziario da fatti esterni oggettivi, aventi un sicuro valore sintomatico che, con l’ausilio di appropriate massime di esperienza consentono di inferire la sussistenza dell’animus necandi. Pertanto, per stabilire se il colpevole abbia effettivamente voluto la morte del soggetto passivo è necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali — quando non sussistono circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose sono andate diversamente da come vanno le cose materiali ed umane — è sufficiente per dimostrare l’animus necandi. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 1172 del 7 febbraio 1992 (Cass. pen. n. 1172/1992)
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 56 e 575 del codice penale, perché possa parlarsi di tentativo di omicidio, è indispensabile che l’azione teleologicamente orientata a cagionare la morte sia obiettivamente idonea a provocare l’evento, a mettere cioè in pericolo il bene giuridico tutelato (che è la vita, e non soltanto l’incolumità fisica), ma sia altresì «diretta in modo non equivoco» a provocare il detto evento. (Nella specie, relativa ad annullamento con rinvio, la Suprema Corte ha ritenuto che, sulla base della motivazione adottata dai giudici dei due gradi del merito, l’idoneità dell’azione e l’univocità della sua direzione teleologica erano affermate solo in astratto, sulla base, di una generica idoneità dell’investimento di un ciclista da parte di un’autovettura a cagionare la morte dell’investito; che, per quanto attiene al requisito della inequivocità della direzione teleologica della volontà dell’agente, questa veniva affermata in modo del tutto apodittico, dovendosi ritenere del tutto insufficiente il richiamo alla semplice previsione da parte dell’investitore delle possibili conseguenze dell’urto in relazione alla sopravvivenza della vittima, posto che il giudice mostrava di prescindere da tutti gli elementi di fatto (velocità dei due veicoli, presenza eventuale di ostacoli lungo la traiettoria, violenza dell’urto, possibilità di arrotamento dell’investito) dai quali poteva trarsi, un attendibile giudizio circa l’inequivocità dell’azione e circa la direzione teleologica della volontà dell’agente). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 11766 del 20 novembre 1991 (Cass. pen. n. 11766/1991)
Nel delitto di omicidio volontario, per accertare se il colpevole abbia agito con dolo è necessario fare riferimento ai dati esterni, aventi valore significante e oggettivamente valutabili, quali le concrete modalità della condotta prima e dopo il delitto, la natura del mezzo usato, le parti del corpo aggredite dal colpevole, la reiterazione del colpo, e tutti quei dati che secondo le regole di comune esperienza e l’id quod plerumque accidit abbiano un valore sintomatico. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 8480 del 1 agosto 1991 (Cass. pen. n. 3493/1991)
In tema di omicidio volontario, l’immediata e spontanea opera di soccorso della vittima da parte dell’agente non è di per sé incompatibile con l’intenzione di uccidere. Tale incompatibilità nella comune esperienza non esiste affatto quando l’azione è determinata da uno stato d’ira e sorretta da un dolo d’impeto, che facilmente si risolve e lascia spazio alla pronta risipiscenza non appena si manifestino le conseguenze negative della condotta. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3493 del 27 marzo 1991 (Cass. pen. n. 3493/1991)
In tema di omicidio volontario non assume rilievo il criterio della prevedibilità, sia pure in grado elevato, dell’evento morte, ma quello della effettiva previsione del probabile o possibile decesso come conseguenza dell’azione, ciò nonostante ugualmente e volontariamente eseguita. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del P.M., è stato ritenuto che non poteva assumere rilievo il gran numero di colpi comunque inferto al capo della vittima e che il P.M. riteneva non potessero non avere reso coscienti gli aggressori dell’elevato grado di prevedibilità dell’evento letale (che tuttavia, malgrado il gran numero di colpi, non si sarebbe verificato senza la grave ferita di cui peraltro non si era nemmeno con certezza accertata l’origine). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 6396 del 3 maggio 1990 (Cass. pen. n. 6396/1990)
In tema di accertamento del dolo omicida, nel caso in cui il fatto sia commesso con arma da sparo, la volontà omicida non deve necessariamente manifestarsi con l’esplosione di tutti i colpi di cui l’agente e l’arma siano dotati, quando sia accertato che il colpo sparato sarebbe stato sufficiente a determinare la morte, se non fossero intervenuti fatti indipendenti dalla volontà dello stesso agente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2509 del 22 febbraio 1990 (Cass. pen. n. 2509/1990)
La prova della sussistenza dell’animus necandi sia pure sotto il profilo del dolo eventuale nella fattispecie del tentato omicidio, deve essere desunta dal comportamento del colpevole e dagli accadimenti reali e non dall’eventuale e possibile comportamento della vittima, ricorrendo ad argomenti che sono estranei al contenuto ed alla prova del dolo e che potrebbero e dovrebbero essere eventualmente utilizzati ai fini della sussunzione del fatto nell’ambito di altre fattispecie delittuose, prevedute dal codice, ove l’evento si fosse verificato (artt. 83, 584, 586 c.p.).
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Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — in mancanza di esplicite ammissioni dell’imputato — ha natura essenzialmente indiretta, poiché è tratta da elementi esterni, che devono essere considerati alla stregua di indizi. Ad evitare, quindi, che il libero convincimento del giudice, trattandosi di prova indiretta, si traduca in arbitrio, o in un convincimento meramente soggettivo, astratto dalla prova, è necessario che l’indizio sia certo, e non meramente ipotetico o congetturale; che la deduzione del fatto noto rientri in un procedimento logico ispirato al massimo rigore ed alla più assoluta correttezza e nel caso di pluralità di fatti indizianti, questi siano concordanti, nel senso che valutati nel loro insieme confluiscano univocamente in una ricostruzione logica unitaria del fatto ignoto, che non deve avere contro di sé alcun ragionevole dubbio. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 11453 del 25 novembre 1988 (Cass. pen. n. 11453/1988)
In tema di tentato omicidio, l’accertamento della sussistenza della intenzione omicida, può essere provato con ogni mezzo, comprese le dichiarazioni dell’imputato. È compito esclusivo del giudice di merito e sfugge, pertanto, al sindacato di legittimità, ove sia stato congruamente motivato. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 10528 del 26 ottobre 1988 (Cass. pen. n. 10528/1988)
Lo stato di emozione profonda, determinato dall’impulso spasmodico all’azione e/o dalla paura, in tema di omicidio, anche tentato nulla toglie alla piena imputabilità dell’agente e soprattutto alla qualificazione del dolo, che, anzi, concorre a definire. (Fattispecie in tema di dolo alternativo, mirato cioè a neutralizzare la vittima, mediante il ferimento o l’uccisione). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 8437 del 28 luglio 1988 (Cass. pen. n. 8437/1988)
Per la individuazione dell’animus sorreggente un comportamento umano alla apparenza indifferentemente volto alla lesione di più beni giuridici, ove non soccorra la confessione del reo, è necessario far ricorso alla valutazione degli elementi obiettivi in cui si sia estrinsecata l’azione. Pertanto, la volontà omicida va desunta dalla micidialità del mezzo usato, dall’eventuale pluralità di colpi, dalla vitalità della zona (del corpo umano) colpita, e da ogni altro utile fattore obiettivo, ritualmente acquisito al processo, mediante indagine valutativa che, ove tradotta in una motivazione adeguata senza omissioni o travisamento, è sottratta al sindacato di legittimità attinendo esclusivamente al merito. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7906 del 6 luglio 1988 (Cass. pen. n. 7906/1988)
La valutazione delle prove della volontà omicida costituisce un giudizio di fatto che non può essere sindacato dalla Corte di cassazione quando sia sorretto da logica e adeguata motivazione.
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Per accertare il dolo del delitto di cui all’art. 575 c.p., l’individuazione del processo volitivo, normalmente del tutto intimo, e della direzione della volontà che ne costituisce il risultato, non può essere effettuata attraverso la normale indagine probatoria, e cioè un accertamento dall’esterno che prescinda dagli elementi di natura oggettiva concernenti la materialità dell’azione, quali, soprattutto se trattasi di morte provocata con arma da fuoco, la parte del corpo attinta e comunque presa di mira, il numero dei colpi sparati, la micidialità dell’arma. L’utilizzazione di tali elementi, estrinseci all’azione criminosa, non esclude, però, quella concomitante e sussidiaria, di altri elementi come la causale dell’azione stessa, i rapporti antecedenti tra l’autore della condotta lesiva e la vittima, il comportamento antecedente ovvero contemporaneo dei protagonisti in modo che la valutazione della correlazione tra tali elementi e quelli concernenti la materialità dell’azione possa fornire al giudice la dimostrazione esauriente della sussistenza della voluntas necandi ovvero della sua esclusione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5966 del 18 maggio 1988 (Cass. pen. n. 5966/1988)
Non spetta l’attenuante della provocazione nel caso di sfida o duello rusticano, spontaneamente accettati, dato che l’accettazione del pericolo e la preparazione all’offesa dell’avversario sono moti di natura psichica che hanno caratteristiche ben diverse dal moto naturale reattivo dell’ira posta a base della provocazione. (Fattispecie in tema di omicidio). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5265 del 30 aprile 1988 (Cass. pen. n. 5265/1988)
Ai fini della diversa definizione del fatto materiale nel reato di tentata lesione personale e in quello di tentato omicidio – così come avviene in genere per tutti i casi di reato progressivo – deve aversi riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente, sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva. Nel primo reato l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, andando al di là dell’evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardanti il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà dell’agente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 1950 del 15 febbraio 1988 (Cass. pen. n. 1950/1988)
La volontà omicida deve essere ricercata principalmente negli aspetti obiettivi del fatto di sicuro valore sintomatico, quali i mezzi usati, la direzione e la reiterazione dei colpi e simili, anche con riferimento al dolo eventuale. Invero, devesi affermare l’animus necandi, non soltanto nel caso in cui l’imputato abbia voluto esclusivamente l’evento letale, ma anche quando, pur volendo ferire, abbia considerato del tutto irrilevante, ai fini del compimento della programmata azione delittuosa, l’evento più grave, di guisa che la consapevole accettazione di tale possibilità, trasferisce nella volontà ciò che era nella previsione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 761 del 20 gennaio 1988 (Cass. pen. n. 761/1988)
In tema di omicidio volontario, ai fini dell’accertamento del dolo, valore significante deve attribuirsi alle circostanze oggettive che accompagnano la condotta, alle modalità di esse, alla natura del mezzo usato, alle parti del corpo attinte dall’attività aggressiva del colpevole, alla eventuale reiterazione dei colpi ed alla assenza di elementi di segno contrario. Ne consegue che risponde del delitto in esame colui che punti il fucile contro il corpo della vittima; prima di sparare disinneschi la sicura; esploda il colpo da distanza non superiore a tre metri; attinga l’emitorace sinistro, zona cardiaca, della vittima, in quanto mostra di aver agito coscientemente e volontariamente con l’intenzione di uccidere, ossia egli abbia preveduto e voluto l’evento letale quale conseguenza della sua condotta. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5182 del 28 aprile 1987 (Cass. pen. n. 5182/1987)
La prova della volontà omicida va ricavata dall’esame di elementi soggettivi oppure oggettivi dai quali essa possa logicamente desumersi. Nella prima categoria (elementi soggettivi) vanno ricompresi quelli riconducibili all’autore del fatto come, ad esempio, la causale del delitto, l’indole del reo, le manifestazioni dell’animo; nella seconda (elementi oggettivi) vanno ricomprese tutte le circostanze esteriori che normalmente costituiscono espressione del fatto psicologico da provare, come, ad esempio, il modo dell’aggressione, il mezzo omicida, la condotta dell’imputato durante e dopo il fatto. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 1209 del 31 gennaio 1987 (Cass. pen. n. 1209/1987)
Ai fini della determinazione differenziale dell’elemento psicologico dei reati di lesioni o tentativo di omicidio, la prova risolutiva deve trarsi dalle modalità dell’azione e dalla materialità della condotta dell’agente. Questi, infatti, sono i soli elementi di innegabile ed obiettiva consistenza probatoria che, per essere permeati, in ogni loro tratto e momento, della spiritualità del loro autore, forniscono la indicazione più eloquente del valore e del significato da quello attribuito alla sua condotta ed alle modalità di esecuzione e quindi dell’effetto conseguito a quel fatto. Pertanto, l’interprete ha l’obbligo di procedere con estremo rigore all’indagine, volta alla rilevazione ed alla valutazione degli elementi obiettivi del delitto, che deve essere ancora più approfondita allorquando la fattispecie prospetta ipotesi di reato, come il reato progressivo e quello complesso, idonee per la loro struttura specifica ad ingenerare dubbi interpretativi. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4958 del 5 giugno 1986 (Cass. pen. n. 4958/1986)
Nei confronti delle concause non solo sopravvenute, ma anche preesistenti e simultanee, la presunzione di pari valenza nel rapporto di causalità può essere vinta, con preminenza di una sola causa, a condizione che vi sia una prova che essa sia stata da sola sufficiente a determinare l’evento. Ne consegue che, in tema di omicidi, sussiste il nesso di causalità materiale tra una ferita cutanea prodotta da un proiettile e la morte della vittima, anche se questa sia stata determinata in ultima analisi da una flogosi settica diffusa che abbia preso origine dalla ferita cutanea prodotta dal proiettile, pur in presenza di una malattia diabetica di cui sia stata affetta la stessa vittima e che abbia rappresentato una concausa patologica preesistente. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9389 del 19 ottobre 1985 (Cass. pen. n. 9389/1985)
Il delitto di tentato omicidio concorre sia con il delitto di violenza a pubblico ufficiale che con quello di resistenza ogni qualvolta la violenza, esorbitando dai limiti propri dei reati contro la pubblica amministrazione, è rivolta all’offesa di un diverso e protetto bene giuridico quale l’incolumità individuale e la vita. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4845 del 16 maggio 1985 (Cass. pen. n. 4845/1985)
Ai fini della sussistenza del rapporto di causalità è sufficiente che l’agente abbia posto in essere una condizione qualsiasi dell’evento, di guisa che quest’ultimo risulti essere conseguenza di quella condotta e non di circostanze aventi una sufficiente causale esclusiva. (Fattispecie in tema di omicidio, essendosi collegata la morte di un minore, affetto da morbo di Coolaj, ex art. 40 capoverso c.p. al contegno omissivo dei genitori che si opponevano alle terapie emotrasfusionali per motivi di fede religiosa. Sulla base dell’enunciato principio si è ritenuto che la gravità della malattia, da cui era affetta la minore, non costituiva una causa sopravvenuta di per sè sufficiente a produrre l’evento, bensì ”il presupposto per l’intervento terapeutico diretto a procrastinare l’esito letale e condizione primaria dell’obbligo imposto ai genitori”). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 667 del 23 gennaio 1984 (Cass. pen. n. 667/1984)
L’accertamento della volontà omicida è affidato, in mancanza di confessione, ad elementi di natura oggettiva, dovendosi tener conto del mezzo usato, della distanza, del numero dei colpi esplosi, della vitalità delle parti del corpo attinte, ecc. (Nella specie, nonostante l’esplosione d’un solo colpo, si è egualmente ritenuta sussistente la volontà omicida sul presupposto che il delitto era stato determinato da dolo d’impeto). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9288 del 8 novembre 1983 (Cass. pen. n. 9288/1983)
In tema di omicidio volontario, la mancata identificazione di una causale può risultare irrilevante, in presenza di elementi di prova unitariamente convergenti a carico dell’imputato. La sua identificazione, peraltro, assume decisiva rilevanza a carico del mandante di un omicidio, quando risulti essere propria ed esclusiva di quest’ultimo e si colleghi all’assenza di una causale propria degli esecutori materiali, a lui saldamente legati da vincoli di sudditanza e all’assenza di una causale riferibile ad altre persone. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5276 del 6 giugno 1983 (Cass. pen. n. 5276/1983)
Le indagini sul movente, sulla ragionevolezza dell’agire, sull’economia del delitto, sono importanti e ineludibili quando si versi in tema di omicidio tentato, perché la direzione inequivoca dell’azione non può, in presenza di certi connotati di fatto, desumersi soltanto dai lineamenti oggettivi dell’azione stessa; quando, invece, si è in presenza di delitto consumato, e di idoneità di mezzi, tali indagini sono irrilevanti. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4495 del 18 maggio 1983 (Cass. pen. n. 4495/1983)
In materia di omicidio volontario, se attraverso il compimento di atti obiettivamente idonei risulti che anche il più grave evento — morte della vittima — sia stato preveduto e voluto come eventuale conseguenza della propria azione e non si verifichi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, questi ne risponde a titolo di tentativo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2073 del 17 marzo 1983 (Cass. pen. n. 2073/1983)
In tema di prova della volontà omicida, quando gli atti già compiuti siano di per sé rivelatori in modo inequivoco dell’animus necandi, non può attribuirsi alcun rilievo, ai fini dell’esclusione dell’intento omicida, al comportamento successivo dimostrato dall’agente, che, placata la sua furia omicida, tenti in qualche modo di ovviarne o attenuarne le conseguenze. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 968 del 3 febbraio 1983 (Cass. pen. n. 968/1983)
L’operazione concettuale del giudice di merito, nel ricercare la causale di un omicidio volontario senza premeditazione, deve essere rivolta anche all’identificazione o coordinazione delle ragioni di contrasto, risentimento, rivalità ecc. che, storicamente accertate, possano essere affiorate nel momento dell’azione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 10693 del 12 novembre 1982 (Cass. pen. n. 10693/1982)
La volontà omicida deve essere desunta essenzialmente dalle modalità dell’azione criminosa, ma quando queste non siano univoche si impone, sussidiariamente, la ricerca della causale, in relazione alla personalità dei protagonisti della vicenda e agli stimoli che ne hanno determinato la reazione, con applicazione del principio del favor rei nell’ipotesi di persistenza del dubbio. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 8588 del 5 ottobre 1982 (Cass. pen. n. 8588/1982)
Se la volontà dell’agente diretta in modo non equivoco a cagionare la morte si è manifestata con mezzi e modalità idonei a realizzarla, nessun rilievo può avere ai fini dell’esclusione del dolo o agli effetti della desistenza volontaria la mancata reiterazione dei colpi o il pentimento e la fuga, trattandosi di attività successiva all’esecuzione del reato, eventualmente rilevante ad altri fini. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 5836 del 11 giugno 1982 (Cass. pen. n. 5836/1982)
L’elemento che distingue l’omicidio preterintenzionale da quello volontario è quello psicologico, che, nel primo caso è da ravvisare in un dolo misto a colpa, mentre nell’omicidio volontario ricorre quando risulti o che l’agente si sia rappresentata la morte come conseguenza diretta della propria azione od omissione (dolo diretto), ovvero che si sia rappresentato l’evento morte come indifferente rispetto a quello di lesioni (dolo indiretto alternativo), ovvero, ancora, che l’agente si sia rappresentato come probabile e possibile anche l’evento morte e, ciononostante, abbia agito, così accettando di esso preventivamente il rischio e mostrando in definitiva di volerlo cagionare (dolo indiretto eventuale). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 10994 del 16 dicembre 1981 (Cass. pen. n. 10994/1981)
Risponde di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale colui che, per sfuggire all’arresto in flagranza da parte della polizia, si faccia scudo con un ostaggio che viene colpito a morte da uno degli agenti operanti nel corso del conflitto a fuoco seguitone. In tal caso, infatti, la morte dell’ostaggio costituisce evento prevedibile ed accettato da chi, facendosi scudo con esso e tentando di sfuggire alla cattura. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7609 del 30 luglio 1981 (Cass. pen. n. 7609/1981)
Ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del delitto di omicidio volontario è necessario e sufficiente che l’agente si sia rappresentata la morte come conseguenza diretta della sua azione od omissione, e quindi l’abbia voluta in ogni caso (dolo diretto); ovvero che si sia rappresentato l’evento morte come indifferente rispetto a quello di lesioni (dolo indiretto sotto forma di dolo alternativo); ovvero, ancora, che l’agente si sia rappresentato come probabile o possibile anche l’evento più grave — cioè la morte — e, ciononostante, abbia agito egualmente anche a costo di cagionare tale più grave evento, accettandone preventivamente il rischio e che, quindi, abbia voluto cagionarlo (dolo indiretto, sotto forma di dolo eventuale). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4805 del 12 aprile 1980 (Cass. pen. n. 4805/1980)
Costituisce omicidio l’anticipare, anche di una minima frazione di tempo, la morte di un uomo, essendo irrilevante che essa si sarebbe verificata ugualmente, per le conseguenze letali di altre lesioni riportate dalla vittima ad opera di altre persone, una volta che l’azione dell’imputato abbia concorso nella causazione della morte. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 758 del 23 aprile 1969 (Cass. pen. n. 758/1969)
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