Art. 416 bis – Codice Penale

(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398 - aggiornato alla D. Lgs. 10 ottobre 2022, n.150)

Associazioni di tipo mafioso anche straniere

Articolo 416 bis - codice penale

(1)Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni (2).
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione (416) sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni. (3)
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti (4) anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei (5) anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti (585), anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego (240). [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta (6) e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, (7) che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Articolo 416 bis - Codice Penale

(1)Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni (2).
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione (416) sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni. (3)
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti (4) anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei (5) anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti (585), anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego (240). [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta (6) e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, (7) che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Note

L’art. 71 del D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia, prevede che le pene stabilite per i delitti di cui a questo articolo, sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. In ogni caso si procede d’ufficio e quando i delitti di cui al comma 1 del predetto art. 71, per i quali è consentito l’arresto in flagranza, sono commessi da persone sottoposte alla misura di prevenzione, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto anche fuori dei casi di flagranza. Alla pena è aggiunta una misura di sicurezza detentiva.

La precedente rubrica: «Associazione di tipo mafioso» è stata così sostituita dall’attuale dall’art. 1, comma 1, lett. b bis), n. 5), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125.

(1) A norma dell’art. 2, comma 1, del D.L. 12 febbraio 2010, n. 10, convertito, con modificazioni, nella L. 6 aprile 2010, n. 52, in deroga a quanto previsto nell’articolo 1, comma 2, nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, relativi ai delitti di cui all’articolo 416 bis, c.p., comunque aggravati, è competente il Tribunale, anche nell’ipotesi in cui sia stata già esercitata l’azione penale, salvo che, prima della suddetta data, sia stato dichiarato aperto il dibattimento davanti alla corte di assise.
(2) Le precedenti parole: «da tre a sei anni» sono state così da ultimo sostituite dalle attuali: «da dieci a quindici anni» dall’art. 5, comma 1, lett. a), della L. 27 maggio 2015, n. 69.
(3) Le precedenti parole: «quattro» e: «nove» sono state così da ultimo sostituite dalle attuali: «da dodici a diciotto anni» dall’art. 5, comma 1, lett. b), della L. 27 maggio 2015, n. 69.
(4) Le parole: «quattro» e: «dieci» sono state c da ultimo, sostituito le parole: «da nove a quindici anni» con le attuali: «da dodici a venti anni».
(5) Le parole: «cinque» e: «quindici» sono state c da ultimo, sostituito le parole: «da dodici a ventiquattro anni» con le attuali: «da quindici a ventisei anni».
(6) Le parole: «, alla ‘ndrangheta» sono state inserite dall’art. 6, comma 2, del D.L. 4 febbraio 2010, n. 4
(7) Le parole: «anche straniere,» sono state inserite dall’art. 1, comma 1, lett. b bis), n. 4), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92

Tabella procedurale

Arresto: obbligatorio in flagranza.380 c.p.p.
Fermo di indiziato di delitto: consentito.384 c.p.p.
Misure cautelari personali: consentite.280287 c.p.p
Autorità giudiziaria competente: Tribunale collegiale.33 bis c.p.p.
Procedibilità: d’ufficio.50 c.p.p.

Massime

In tema di associazione di tipo mafioso, l’individuazione della c.d. “dote di ‘ndrangheta”, concernente lo “status” di un affiliato ad una consorteria ‘ndranghetista, costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito che, ove sorretta da una motivazione esente da vizi logici o motivazionali, non è sindacabile in sede di legittimità. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 35775 del 14 dicembre 2020 (Cass. pen. n. 35775/2020)

In tema di misure cautelari, il pericolo di fuga di cui all’art. 274, lett. b), cod. proc. pen. non può essere desunto esclusivamente dalla circostanza che l’indagato si sia trasferito nel suo paese di origine e di abituale dimora, ma deve essere ancorato a concreti elementi dai quali sia logicamente possibile dedurre, attraverso la valutazione di un’attività positiva del soggetto, la reale ed effettiva preparazione della fuga. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato l’ordinanza di custodia in carcere per il delitto di partecipazione ad un’associazione di stampo mafioso, nella quale il pericolo di fuga era stato dedotto dal trasferimento, da anni, dell’indagato di origine straniera, in Germania, al fine di ricongiungersi al coniuge e dal fatto che lo stesso potesse fruire di una “estesa rete di contatti”, genericamente indicata, sia con la Nigeria, ove il sodalizio era radicato, che con altri Stati europei). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 31765 del 12 novembre 2020 (Cass. pen. n. 31765/2020)

In tema di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso con il ruolo di capo, nell’ipotesi di organizzazione radicata in un particolare territorio che estenda la propria forza operativa attraverso strutture periferiche ubicate in altre zone, la competenza per territorio va individuata con riferimento al luogo ove si trova la cosca madre, da cui dipende il conferimento e la ratifica delle cariche delle articolazioni satelliti, anche se dotate di una certa autonomia di azione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l’individuazione della competenza territoriale del giudice di Reggio Calabria, ove aveva sede l’organizzazione di stampo mafioso appartenente alla ‘ndrangheta, a capo della quale vi era l’imputato, da cui dipendevano cellule operative in Lombardia). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 29189 del 21 ottobre 2020 (Cass. pen. n. 29189/2020)

Configura la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso l’attività di “paciere”, svolta da parte di esponenti di primo piano di una cosca, in ordine alla composizione di contrasti interni per fatti attinenti all’attività ed al funzionamento dell’organizzazione, avendo essa la funzione di assicurare la stabilità e la tenuta di quest’ultima. (Fattispecie in cui l’attività di composizione del contrasto, previa convocazione e richiesta di rendiconto, avveniva tra membri di rilievo dell’organizzazione in merito al versamento dei ricavi derivanti dallo spaccio di stupefacenti). Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 25994 del 15 settembre 2020 (Cass. pen. n. 25994/2020)

Commette il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria, a norma dell’art. 132 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, chi pone in essere le condotte previste dall’art. 106 d.lgs. cit. inserendosi nel libero mercato e sottraendosi ai controlli di legge, purché l’attività, anche se in concreto realizzata per una cerchia ristretta di soggetti, sia rivolta ad un numero potenzialmente illimitato di persone. (Fattispecie relativa alla instaurazione di una prassi commerciale volta ad erogare finanziamenti a tassi di usura ai clienti, con dilazione dei pagamenti garantita dall’emissione di titoli di credito post-datati, da parte di partecipe ad una associazione per delinquere di stampo mafioso). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 25815 del 10 settembre 2020 (Cass. pen. n. 25815/2020)

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la costituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un territorio già controllato da cosche mafiose non vale ad escludere la configurabilità del reato, allorché il nuovo sodalizio riproduca struttura e finalità criminali del “clan” storico, realizzi la stessa tipologia di reati, sfruttando la notorietà del primo per mantenere lo stato di assoggettamento intimidatorio nella popolazione del territorio di pertinenza, in modo da far percepire una sorta di continuità tra le azioni del gruppo originario e le proprie. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 20926 del 15 luglio 2020 (Cass. pen. n. 20926/2020)

In tema di successione di leggi penali nel tempo, il regime sanzionatorio applicabile al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. deve determinarsi con riferimento alla data di cessazione della permanenza così come contestata, se in forma cd. chiusa, se in forma cd. aperta, ovvero “sino ad oggi” e cioè alla data del rinvio a giudizio. (In applicazione del principio, la Corte ha precisato che nelle ipotesi di contestazione in forma cd. aperta, quando cioè il capo di imputazione contesti la partecipazione “in permanenza attuale”, vale quale momento finale consumativo della condotta associativa quello coincidente con la sentenza di primo grado, alla cui data, pertanto, va individuata la pena prevista). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 20098 del 7 luglio 2020 (Cass. pen. n. 20098/2020)

In tema di associazione di tipo mafioso, la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici presenti sul territorio, può essere desunta da plurimi indicatori fattuali quali le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi, l’esercizio di una forza intimidatoria derivante dal vincolo associativo, nonché dal riconoscimento, da parte dell’associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente. (Fattispecie in cui dalle intercettazioni telefoniche risultava che esponenti del gruppo “storico”, nonostante il consolidato predominio sul territorio, manifestavano preoccupazione per la contrapposizione con il gruppo emergente, attese la capacità di quest’ultimo di subentrare nel controllo delle attività illecite e la comprovata forza intimidatrice della nuova formazione). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 42369 del 15 ottobre 2019 (Cass. pen. n. 42369/2019)

Ricorre la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 – bis. 1 cod. pen., quando l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile l’aggravante nella minaccia rivolta all’avente titolo a rinunciare all’assegnazione di un’abitazione popolare, attuata prospettando che essa serviva alla figlia di un esponente apicale di un sodalizio mafioso). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 39424 del 26 settembre 2019 (Cass. pen. n. 39424/2019)

In tema di associazione di tipo mafioso, la titolarità di una “piazza di spaccio” per conto di una famiglia criminale confederata in un unitario e più ampio sodalizio mafioso può costituire elemento indicativo della posizione apicale dell’imputato nell’ambito di quest’ultimo, quando risulti che il ruolo egemone dispiegato dall’imputato nella gestione dell’attività di traffico degli stupefacenti si è riflesso sul livello del suo inserimento nel sodalizio mafioso. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 33186 del 23 luglio 2019 (Cass. pen. n. 33186/2019)

Ai fini dell’applicabilità della speciale attenuante prevista dall’art. 8, d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, per coloro che si dissociano dalle organizzazioni di tipo mafioso adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, non è necessaria la formale contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 7 della stessa legge, ma è sufficiente che di questa ricorrano i presupposti. Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 32519 del 22 luglio 2019 (Cass. pen. n. 32519/2019)

In tema di associazione di tipo mafioso, integra la condotta di “concorso esterno” l’attività del professionista che, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici dell’associazione mafiosa, assicuri il suo concreto impegno nell’irregolare gestione di un procedimento giudiziario, posto che il sodalizio si rafforza comunque per effetto di quel contributo, non essendo necessario che i propositi delittuosi siano stati concretamente realizzati. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in un caso nel quale un professionista, in assenza di un mandato difensivo o, comunque, travalicandone i limiti, aveva fornito suggerimenti per eludere le investigazioni, si era reso disponibile a portare all’esterno del carcere messaggi del capo e aveva tentato di influire illecitamente sugli esiti di procedimenti penali).

In tema di associazione di tipo mafioso, integrano gli estremi della condotta di concorso esterno anche le prestazioni rese da un professionista del settore legale che, seppur astrattamente dovute in favore di chiunque ne faccia richiesta, devono essere rifiutate allorché possa ragionevolmente ritenersi che riguardino atti od operazioni illecite compiute da soggetti mafiosi.

In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, l’aggravante della disponibilità di armi, di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 5, cod. pen., è configurabile a carico dei partecipi che siano consapevoli del possesso delle stesse da parte della consorteria criminale o che, per colpa, lo ignorino. (Fattispecie relativa alla riconosciuta esistenza di un’associazione autonoma, formata da cellule “locali” di ‘ndrangheta federate, in cui la Corte ha ritenuto che, ai fini della ravvisabilità dell’anzidetta aggravante, è necessario fare riferimento al sodalizio nel suo complesso, prescindendo dallo specifico soggetto o dalla specifica cellula “locale” che abbia la concreta disponibilità delle armi). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 32373 del 19 luglio 2019 (Cass. pen. n. 32373/2019)

l reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile anche nel caso di “ricostituzione” di un gruppo criminale a distanza di tempo da parte di noto capo mafia, di dimostrata caratura criminale, inserito in ambito di mafie storiche (nel caso di specie “Cosa Nostra”), senza che sia necessaria un’esteriorizzazione della forza di intimidazione, considerato il capitale criminale della associazione mafiosa di riferimento e il diffuso riconoscimento della capacità di aggressione di persone e patrimoni da parte della stessa, anche nel caso di riferimento “implicito o contratto” alla forza criminale del sodalizio mafioso. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 27808 del 24 giugno 2019 (Cass. pen. n. 27808/2019)

Ai fini della configurabilità dell’associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all’esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell’associazione o, addirittura, ne ignori l’esistenza. (Fattispecie in tema di costituzione di nuova struttura criminale). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 26427 del 14 giugno 2019 (Cass. pen. n. 26427/2019)

In tema di associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del concorso esterno, occorre che il dolo diretto investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, agendo l’interessato nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. (Fattispecie relativa a due imprenditori che, nel contesto della realizzazione dei lavori pubblici di metanizzazione, avevano propiziato l’inserimento di alcune imprese mafiose nel remunerativo sistema dei noli a freddo di cantiere e avevano agevolato la corresponsione del “pizzo” da parte dell’impresa appaltatrice, attraverso un sistema di sovrafatturazioni, ideato per dissimulare il pagamento di una tangente dell’ammontare di circa due milioni di euro). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18256 del 2 maggio 2019 (Cass. pen. n. 18256/2019)

Ai fini della applicabilità della speciale attenuante prevista dall’art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203, per coloro che si dissociano dalle organizzazioni di tipo mafioso adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, non è richiesta la formale contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della stessa legge, ma occorre che dagli atti del processo emergano elementi certi ed univoci idonei a comprovare che il reato contestato risulti “in fatto” commesso dall’imputato in presenza delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero per agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con la quale il giudice di merito aveva negato l’attenuante speciale sul presupposto che la sola dichiarazione resa dell’imputato, collaboratore di giustizia, in merito alla finalità “agevolativa” della rapina perpetrata non fosse sufficiente ai fini della concedibilità della stessa). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 12330 del 20 marzo 2019 (Cass. pen. n. 12330/2019)

La condotta di partecipazione all’associazione per delinquere di cui all’art. 416-bis cod. pen. è a forma libera e può realizzarsi in forme e contenuti diversi, indipendenti dall’esistenza di un formale atto di inserimento nel sodalizio e da uno stretto contatto con gli altri sodali, sicché il partecipe può anche non avere la conoscenza dei capi o degli altri affiliati essendo sufficiente che, anche in modo non rituale, di fatto si inserisca nel gruppo per realizzarne gli scopi, con la consapevolezza che il risultato viene perseguito con l’utilizzazione di metodi mafiosi. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 55141 del 10 dicembre 2018 (Cass. pen. n. 55141/2018)

Il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, con conseguente forza di intimidazione “intrinseca” alla accertata capacità di egemonizzazione criminale del territorio. (Fattispecie relativa a c.d. “locale di ndrangheta” stabilita in territorio elvetico, in cui erano emersi in seguenti indizi : il collegamento con la “casa madre” calabrese, la composizione della “locale” con soggetti esclusivamente di origine calabrese, la struttura organizzativa secondo una divisione dei ruoli ben precisa, l’attribuzione di cariche interne mutuate dal quelle tradizionali della “ndrangheta”, nonchè il rispetto rigoroso di rituali tipici della “casa madre”). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 47535 del 18 ottobre 2018 (Cass. pen. n. 47535/2018)

Il reato previsto dall’art.416-bis cod. pen. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette “tradizionali”, consistenti in grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle c.d. “mafie atipiche”, costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi del metodo “mafioso” da cui derivano assoggettamento ed omertà, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento. (Fattispecie relativa al c.d. “clan Spada” operante nel territorio di Ostia). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 44156 del 4 ottobre 2018 (Cass. pen. n. 44156/2018)

Il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento, in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività dell’associazione o a perseguirne i partecipi, mentre nel secondo egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito avessero qualificato come partecipazione ad un clan camorristico la condotta dell’indagato il quale, dedito alla frequentazione di soggetti intranei al sodalizio, aveva con stabilità favorito gli spostamenti del capoclan latitante, mettendogli altresì a disposizione, in plurime occasioni, la sua abitazione come luogo sicuro per incontri con politici ed imprenditori). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 43249 del 1 ottobre 2018 (Cass. pen. n. 43249/2018)

Integra il delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa la condotta di colui che assolve il compito di far circolare messaggi, ordini ed informazioni tra i soggetti in posizione apicale detenuti e i partecipi in libertà. (Fattispecie relativa alla moglie di un capo clan che informava regolarmente il marito ristretto in carcere della condizione dei sodali latitanti e dell’andamento del traffico di stupefacenti gestito dall’organizzazione). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 41736 del 26 settembre 2018 (Cass. pen. n. 41736/2018)

Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, l’investitura formale o la commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti non sono essenziali, in quanto rileva la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica ma unitaria degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all’interno dello stesso che emergono emergere anche da significativi “facta concludentia”. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 32020 del 12 luglio 2018 (Cass. pen. n. 32020/2018)

Integra il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta dell’imprenditore “colluso” che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della “affectio societatis”, instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi o utilità. (Fattispecie relativa ad un imprenditore che si era accordato con i vertici di Cosa Nostra al fine di ottenere il monopolio, nei quartieri di rispettivo controllo, nelle attività di gestione dei videopoker e degli apparati di intrattenimento elettronici, in cambio del versamento di corrispettivi fissi o a percentuale sulle entrate). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 30133 del 4 luglio 2018 (Cass. pen. n. 30133/2018)

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del dolo, occorre che l’agente, pur in assenza dell’”affectio societatis” e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dell’esistenza della stessa e del contributo causale recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 26589 del 11 giugno 2018 (Cass. pen. n. 26589/2018)

Ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa non è sufficiente la collaborazione episodica alla trasmissione di messaggi scritti (c.d. pizzini) tra il capo cosca e soggetti affiliati alla stessa, richiedendosi, invece, un’attività di carattere continuativo e fiduciario di “veicolatore abituale di notizie”, idonea a fornire un contributo causale e volontario alla realizzazione dei fini del sodalizio criminale, nonchè alla sua conservazione e rafforzamento. (Fattispecie relativa alla consegna di messaggi in due sole occasioni, in cui la Corte ha annullato con rinvio per difetto di motivazione l’ordinanza cautelare che non spiegava come aveva tratto da tale dato di fatto il convincimento della stabilità del contributo del ricorrente). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 26306 del 8 giugno 2018 (Cass. pen. n. 26306/2018)

Integra il reato di di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta dell’imprenditore “colluso” che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi, consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi od utilità. (Fattispecie in cui un imprenditore, che si occupava del trasporto dei rifiuti presso un termovalizzatore, poneva in essere una sistematica sovrafatturazione mediante la quale veniva occultato il “pizzo” pagato dalla società che gestiva il termovalizzatore e che era successivamente riversato all’associazione criminosa, ottenendone in cambio il monopolio del servizio di trasporto). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 25261 del 5 giugno 2018 (Cass. pen. n. 25261/2018)

La circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, ha la funzione di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso” ed è connessa non alla struttura ed alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso. (Nella fattispecie, la Corte ha rigettato il ricorso degli imputati volto a contestare la sussistenza dell’aggravante citata, ritenendo che il delitto di sequestro di persona commesso dagli stessi fosse un chiaro “messaggio” intimidatorio nei confronti dei familiari della vittima, finalizzato a far cessare comportamenti lesivi del prestigio criminale dell’associazione). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 22554 del 21 maggio 2018 (Cass. pen. n. 22554/2018)

Il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale. Cassazione penale, Sez. Unite, sentenza n. 111 del 4 gennaio 2018 (Cass. pen. n. 111/2018)

Ai fini della configurabilità del vincolo della continuazione tra reati di associazione per delinquere di stampo mafioso non è sufficiente il riferimento alla tipologia del reato ed all’omogeneità delle condotte, ma occorre una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo, al fine di accertare l’unicità del momento deliberativo e la sua successiva attuazione attraverso la progressiva appartenenza del soggetto ad una pluralità di organizzazioni ovvero ad una medesima organizzazione. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta l’esclusione del vincolo della continuazione tra il reato associativo accertato con la sentenza impugnata ed altro analogo reato, relativo alla medesimo clan camorristico, accertato con sentenza di condanna emessa vent’anni prima, in quanto dalla sentenza impugnata emergeva che il gruppo criminale, sebbene operante nel medesimo ambito territoriale, era profondamente mutato nel tempo, quanto alla compagine sociale ed al programma delinquenziale, per effetto di circostanze contingenti ed occasionali inimmaginabili al momento dell’iniziale affiliazione del ricorrente). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 51906 del 14 novembre 2017 (Cass. pen. n. 51906/2017)

Ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso è necessario che l’associazione abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio. (In motivazione, la Corte ha precisato che gli eventuali atti di violenza e minaccia posti in essere da un’associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all’assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all’art.416-bis cod.pen.).

La circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art. 416-bis, cod.pen., essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso; essa è pertanto configurabile con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, nonchè nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo. (In motivazione, la Corte ha precisato che il riconoscimento della circostanza aggravante in questione rispetto ad alcuni reati fine di un’associazione per delinquere, commessi anche da soggetti estranei al reato associativo, non consente di attribuire necessariamente al sodalizio il carattere della mafiosità). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 41772 del 13 settembre 2017 (Cass. pen. n. 41772/2017)

In materia di reati aggravati ex art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, trova applicazione la disciplina della prescrizione disposta dall’art. 160, comma terzo, cod. pen., che per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., non prevede un termine massimo di prescrizione; ne consegue che in questi casi la prescrizione matura soltanto se, da ciascun atto interruttivo, sia decorso il termine (minimo) di prescrizione fissato dall’art. 157, cod. pen., e, pertanto, in presenza di plurimi atti interruttivi, è potenzialmente suscettibile di ricominciare a decorrere all’infinito. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 40855 del 7 settembre 2017 (Cass. pen. n. 40855/2017)

In tema di associazione di tipo mafioso, non è esclusa la responsabilità per tale reato nell’ipotesi in cui – nei confronti dello stesso imputato – non sia stata raggiunta la prova della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n.152 in relazione alla commissione di reati – fine, dal momento che non ogni reato commesso dai partecipanti al sodalizio criminoso è necessariamente compiuto con l’impiego del metodo mafioso o per agevolare l’organizzazione medesima. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 36107 del 21 luglio 2017 (Cass. pen. n. 36107/2017)

È configurabile il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa nell’ipotesi in cui l’autore della condotta svolga il ruolo di “alter ego” del soggetto di vertice di un gruppo mafioso, ponendo in essere attività di ausilio ed intermediazione nei suoi riguardi, con carattere continuativo e fiduciario, tali da risolversi in un contributo causale alla realizzazione del ruolo direttivo del sodalizio, nonché alla conservazione ed al rafforzamento di quest’ultimo. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 35277 del 18 luglio 2017 (Cass. pen. n. 31874/2017)

Ai fini della applicabilità della speciale attenuante della dissociazione di cui all’art. 8 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152 (conv. in legge n. 203 del 1991) è necessario che il soggetto che ne benefici sia ritenuto responsabile di partecipazione ad associazione mafiosa ovvero di un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività mafiose, ai sensi dell’art. 7 del medesimo D.L. n. 152 del 1991; la predetta attenuante non può, invece, trovare applicazione qualora la formale contestazione dell’aggravante di cui al citato art. 7 non trovi positivo riscontro in sentenza. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 31874 del 3 luglio 2017 (Cass. pen. n. 31874/2017)

In tema di associazione di tipo mafioso, va considerato comportamento concludente idoneo, sul piano logico, a costituire indizio di intraneità al sodalizio criminale la presenza e la partecipazione attiva ad una cerimonia di affiliazione, essendo illogico ritenere che il rito di affiliazione o di conferimento di un grado gerarchico all’interno di un’organizzazione mafiosa possa essere officiato da soggetti estranei. (Fattispecie in cui la Corte ha giudicato immune da censure l’ordinanza impugnata, la quale aveva ritenuto che l’appartenenza dell’imputato alla ‘ndrangheta fosse dimostrata, in particolare, dalla sua presenza al pranzo di affiliazione di altri sodali). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 27428 del 1 giugno 2017 (Cass. pen. n. 27428/2017)

Il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata, poichè, trattandosi di reato di pericolo presunto, per integrare l’offesa all’ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio con la c.d. «messa a disposizione», in quanto idonea ad accrescere, per ciò solo, la potenziale capacità operativa ed intimidatoria dell’associazione criminale. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 27394 del 31 maggio 2017 (Cass. pen. n. 27394/2017)

In tema di associazione di tipo mafioso, la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici, può essere desunta da indicatori fattuali come le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi e il conflitto con le tradizionali associazioni operanti sul territorio, purché detti indici denotino la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione che dimostrano la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva. (Fattispecie nella quale la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza che ha escluso l’esistenza della gravità indiziaria del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. con riferimento ad una nuova formazione delinquenziale in difetto dell’accertamento che essa si sia proposta sul territorio ingenerando il clima di generale soggezione che ne giustifica la qualificazione mafiosa). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 27094 del 30 maggio 2017 (Cass. pen. n. 27094/2017)

Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art.416 bis cod.pen., in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie”atipiche”, non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice. (In motivazione la Suprema Corte ha precisato che per le organizzazioni diverse dalle c.d. mafie storiche, la valutazione della sussistenza del requisito dell’esternazione del metodo mafioso, non deve essere necessariamente parametrata all’impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale dell’organizzazione, giacchè la condizione di assoggettamento e di omertà – variabile dipendente dalla permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa – costituisce il riflesso sociologico della metodologia associativa ma non è, rispetto ad essa, causalmente obbligato) Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 24851 del 18 maggio 2017 (Cass. pen. n. 24851/2017)

Il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico. (In motivazione la Corte ha osservato come diverso sia invece il caso di una neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis cod. pen., tra cui la manifestazione all’esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell’ambiente circostante). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 24850 del 18 maggio 2017 (Cass. pen. n. 24850/2017)

Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203), è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività. (Nella fattispecie, relativa ad un’estorsione commessa nel territorio calabrese, la Corte ha ritenuto che i toni percepiti come “mafiosi” dalla P.O. – destinataria della richiesta di uno dei due imputati, pregiudicato per reati gravi, di non eseguire lavori ottenuti in appalto, in modo da favorire l’altro imputato – consentissero di ritenere integrato il “metodo mafioso” di cui alla predetta aggravante, essendo tali toni ben conosciuti dall’imprenditoria del luogo, ove la ‘ndrangheta agisce, nella gestione delle attività economiche, in modo seriale, con modalità “tipiche” immediatamente distinguibili dalle vittime). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 19245 del 21 aprile 2017 (Cass. pen. n. 19245/2017)

L’associazione di tipo mafioso si connota per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo che si manifesta internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati, ma che si proietta anche all’esterno attraverso un’opera di controllo del territorio e di prevaricazione nei confronti di chi vi abita, tale da determinare uno stato di soggezione e di omertà non solo nei confronti degli onesti cittadini, nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa, ma anche nei confronti di coloro che abbiano intenti illeciti, costringendoli ad aderire al sodalizio criminale. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 18773 del 14 aprile 2017 (Cass. pen. n. 18773/2017)

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, per il riconoscimento della circostanza aggravante della disponibilità delle armi non è richiesta l’esatta individuazione delle armi stesse, ma è sufficiente l’accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, quale desumibile ad esempio dai fatti di sangue commessi dal gruppo criminale o dal contenuto delle intercettazioni. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 14255 del 23 marzo 2017 (Cass. pen. n. 14255/2017)

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo del soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura – caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine – accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione con cui il tribunale del riesame aveva reputato sussistere la permanenza del vincolo associativo in capo all’indagato – “braccio destro” del capoclan – nonostante la sofferta detenzione, sottolineando come i suoi contatti con il medesimo, e con l’intero gruppo, fossero nel frattempo continuati anche in ragione della periodica erogazione di somme di denaro da parte del sodalizio). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 8461 del 21 febbraio 2017 (Cass. pen. n. 8461/2017)

Alla circostanza aggravante di cui all’art. 7, comma 1, del D.L. n. 152/1991, conv. con modif. in legge n. 203/1991, che si articola nella duplice ipotesi dell’avvalersi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. e dell’avere agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, deve riconoscersi carattere oggettivo, quanto alla prima di dette ipotesi, e carattere soggettivo, quanto alla seconda. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 53423 del 15 dicembre 2016 (Cass. pen. n. 53423/2016)

Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di un condannato per il reato di associazione di tipo mafioso, qualora sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra l’accertamento in sede penale e la formulazione del giudizio di prevenzione, l’attualità della pericolosità sociale può essere desunta, oltre che dalla condanna definitiva del proposto per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., anche dall’assenza di elementi idonei a dimostrare il recesso dall’associazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento nel quale veniva sottolineata la mancanza di prova del venir meno dell’associazione di stampo mafioso, nonostante lo stato di detenzione di alcuni compartecipi, nonchè l’elevato livello di coinvolgimento ed il rango assunto dal prevenuto nelle attività del gruppo criminoso). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 52607 del 12 dicembre 2016 (Cass. pen. n. 52607/2016)

In sede di applicazione o conferma della misura cautelare in carcere per il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, il giudice non ha l’obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza della pericolosità dell’indagato, essendo sufficiente – in virtù della presunzione relativa della sussistenza delle esigenze cautelari contenuta nell’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. – che egli dia atto dei gravi indizi in merito all’ipotesi di reato sopra menzionata e dell’inidoneità degli elementi, eventualmente evidenziati dall’indagato o dalla sua difesa, a superare detta presunzione. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 44644 del 24 ottobre 2016 (Cass. pen. n. 44644/2016)

Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 628, comma terzo n. 3, cod. pen., non è necessario che l’appartenenza dell’agente a un’associazione di tipo mafioso sia accertata con sentenza definitiva, ma è sufficiente che tale accertamento sia avvenuto nel contesto del provvedimento di merito in cui si applica la citata aggravante. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 33775 del 2 agosto 2016 (Cass. pen. n. 33775/2016)

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del dolo diretto occorre che l’agente, pur in assenza dell’”affectio societatis” e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dei metodi e dei fini della stessa nonchè dell’efficacia causale della propria attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della struttura organizzativa, essendo a tal fine sufficiente che egli abbia previsto ed accettato tale effetto come risultato non solo possibile, bensì certo, o comunque altamente probabile, della propria condotta. (In motivazione, la Corte ha affermato che, ai predetti fini valutativi, si deve tener conto anche delle massime di esperienza desumibili, fra l’altro, dai rapporti intrattenuti con i membri del sodalizio a fini elettorali, dalla sua conoscenza del ruolo che i suddetti membri ricoprivano nell’ambito della cosca, nonchè dalle connotazioni qualitative e quantitative dell’attività prestata in favore dei singoli sodali o del sodalizio). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 18132 del 2 maggio 2016 (Cass. pen. n. 18132/2016)

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., è necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, e sia pure limitatamente ad un determinato settore, un’effettiva capacità di intimidazione, con la conseguenza che, nel caso di un’autonoma consorteria delinquenziale, pur se la stessa mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, occorre comunque accertarne il radicamento “in loco” con quelle peculiari connotazioni. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la decisione impugnata in relazione ad un’organizzazione criminale che, pur conservando rapporti di parentela e di contiguità con soggetti appartenenti alla “ndrangheta” calabrese, operava in modo autonomo ed in via esclusiva in Umbria e che, inoltre, aveva avuto la costante necessità di far ricorso ad atti di intimidazione per conseguire i suoi illeciti scopi). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 34874 del 12 agosto 2015 (Cass. pen. n. 34874/2015)

Ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416 bis cod. pen., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale, oppure dall’esteriorizzazione “in loco” di condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416 bis, comma terzo, cod. pen. (Fattispecie relativa alle “locali” de “La Lombardia “collegata con ‘ndrangheta operante in Calabria). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 34147 del 4 agosto 2015 (Cass. pen. n. 34147/2015)

La circostanza attenuante speciale della dissociazione di cui all’art. 8 legge n.203 del 1991 si fonda sul mero presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso e non può essere, pertanto, disconosciuta o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata, in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato né alle ragioni che hanno determinato quest’ultimo alla collaborazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la decisione impugnata che non aveva applicato l’attenuante nel massimo perchè la collaborazione era iniziata solo dopo che il soggetto era stato raggiunto da ordinanza cautelare). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 31413 del 20 luglio 2015 (Cass. pen. n. 31413/2015)

È configurabile il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. laddove l’associazione per delinquere si sia radicata “in loco” mutuando dai clan operanti in altre aree geografiche i ruoli, i rituali di affiliazione e il livello organizzativo, e risulti agire in concreto, nell’ambiente in cui opera, con metodo mafioso, esteriorizzando cioè un’effettiva forza intimidatrice rivolta verso i propri sodali e verso i terzi vittime dei reati-fine, che si traduce in omertà e assoggettamento. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata che aveva ravvisato la sussistenza di una organizzazione qualificabile a norma dell’art. 416 bis cod. pen., con riferimento ad una cosca che, costituitasi autonomamente in Veneto, utilizzava metodi violenti, si presentava dichiaratamente come collegata al clan dei “Casalesi” e si avvaleva della forza di intimidazione derivante dall’evocare tali legami). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 25360 del 17 giugno 2015 (Cass. pen. n. 25360/2015)

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, non sussiste la responsabilità del cosiddetto “capo famiglia”, a titolo di concorso nel reato-fine “eccellente” (nella specie strage e delitti connessi), qualora questi, ancorché a conoscenza dei progetti in corso e del coinvolgimento operativo di “suoi” uomini, non abbia prestato fattiva, concreta e costante collaborazione nell’organizzazione e gestione del reato, decisa dalla struttura di vertice del sodalizio criminale, in quanto l’omessa attivazione di ipotetici provvedimenti interdittivi non potrebbe comunque essere considerata equivalente ad una prestazione di consenso o addirittura alla formulazione di un ordine nei confronti dei propri uomini. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 8929 del 27 febbraio 2015 (Cass. pen. n. 8929/2015)

In tema di misure cautelari nei confronti di soggetti indagati di partecipazione ad associazione mafiosa, in assenza di elementi da cui risulti l’avvenuto recesso volontario dal sodalizio, la valutazione prognostica sfavorevole prevista dall’art. 275, comma terzo, c.p.p., non è vinta dal fatto che l’incolpato abbia dismesso l’ufficio o la funzione nell’esercizio dei quali ha realizzato la condotta criminosa, in considerazione delle accertate capacità relazionali che egli, ricoprendo le precedenti cariche (nella fattispecie prima di consigliere provinciale e poi di sindaco), aveva intrecciato nel mondo della politica e dell’amministrazione pubblica. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 53675 del 23 dicembre 2014 (Cass. pen. n. 53675/2014)

Integra la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta di colui che, pur restando al di fuori del sodalizio criminale, assicura allo stesso, nell’arco di un periodo di tempo pluriennale, la costante consegna di cospicue somme di denaro versate da un imprenditore quale corrispettivo della “tranquillità” personale ed economica assicuratagli, in esecuzione di un accordo stipulato tra le due “parti” anche per effetto della mediazione dell’agente, poiché tale comportamento configura un contributo causale determinante alla realizzazione, almeno parziale, del programma criminoso dell’organizzazione delinquenziale, diretto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 28225 del 1 luglio 2014 (Cass. pen. n. 28225/2014)

In tema di associazione per delinquere, la parziale sovrapposizione di soggetti, tempi, territori e oggetto dell’attività criminale organizzata impone al giudice, per affermare la configurabilità di diversi ed autonomi sodalizi, di fornire espressa indicazione delle ragioni che inducono ad escludere l’ipotesi di un unico gruppo criminale che operi in permanenza, con fisiologici adattamenti della propria composizione ed azione al trascorrere del tempo e delle condizioni esterne. (Fattispecie relativa a condotte di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dedita anche al traffico di stupefacenti). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 43963 del 28 ottobre 2013 (Cass. pen. n. 43963/2013)

La prova della partecipazione di un imprenditore ad una associazione per delinquere di stampo mafioso non può essere desunta dal solo fatto che egli si sia reso disponibile a fungere da formale intestatario di una impresa, o di sue quote, a favore di un esponente del sodalizio criminale, effettivo titolare e gestore dell’attività economica, trattandosi di espediente utilizzabile anche al solo fine di eludere divieti di natura civilistica o di celare interessi illeciti non riconducibili alla cosca. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 43901 del 25 ottobre 2013 (Cass. pen. n. 43901/2013)

La fattispecie del concorso esterno in associazione di tipo mafioso si atteggia come reato permanente, al pari di quella di partecipazione alla medesima associazione da parte del soggetto organicamente inserito nel sodalizio, fermo restando che il concorrente può far cessare la permanenza desistendo dal continuare a prestare il proprio apporto alla vita dell’associazione. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 35100 del 14 agosto 2013 (Cass. pen. n. 35100/2013)

Integra la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 416 bis c.p. la condotta di coloro che, attraverso la carica intimidatoria indotta dalla “presenza” e dallo specifico “interesse” manifestato dal sodalizio mafioso sul territorio locale, condizionino e manipolino una tornata elettorale amministrativa al fine di creare le premesse per inserire uomini del sodalizio in seno all’amministrazione locale, non occorrendo che le pressioni sugli elettori assumano connotati di eclatante violenza o minaccia. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 22989 del 28 maggio 2013 (Cass. pen. n. 18491/2013)

In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, deve escludersi che la semplice esistenza di relazioni di parentela con un esponente dell’associazione costituisca di per sé prova o solo indizio della appartenenza di un soggetto alla medesima. (Nella specie, la S.C. ha, comunque, affermato che, una volta accertata l’esistenza di una organizzazione delinquenziale a base familiare ed una non occasionale attività criminosa dei singoli esponenti della famiglia, nulla impedisce al giudice di attribuire alla circostanza che vi siano legami di parentela tra un soggetto e coloro che nella associazione occupano posizioni di vertice o di rilievo, valore indiziante in ordine alla sua partecipazione al sodalizio criminoso). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18491 del 24 aprile 2013 (Cass. pen. n. 18491/2013)

Integra il delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa la condotta di colui che assolve il compito di far circolare ordini ed informazioni tra accoliti detenuti ed accoliti in libertà. (Fattispecie relativa alla moglie del capo di una cosca ristretto da lungo tempo in carcere). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 13506 del 22 marzo 2013 (Cass. pen. n. 13506/2013)

Nella ipotesi di contestazione del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso in cui la condotta, iniziata prima della l. 24 luglio 2008 n. 125, introduttiva di un regime sanzionatorio più severo, sia proseguita anche dopo l’entrata in vigore di quest’ultima, sussiste un unico reato permanente e si applica la disciplina sanzionatoria in vigore al momento in cui la condotta associativa è venuta a cessare. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 45860 del 23 novembre 2012 (Cass. pen. n. 45860/2012)

Integra la fattispecie del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, e non quella di favoreggiamento continuato, la condotta reiterata e continuativa di rivelazione a membri del sodalizio criminale di notizie relative ad indagini svolte nei loro confronti dall’autorità. (Fattispecie relativa a rivelazione, protrattasi nel tempo, da parte di dipendente di un istituto di credito di informazioni sulle indagini bancarie condotte dalla Guardia di Finanza sugli esponenti di vertice di un sodalizio mafioso). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 22582 del 11 giugno 2012 (Cass. pen. n. 22582/2012)

Il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, richiesto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, va distinto da quello di “partecipazione”, necessario ai fini dell’integrazione del corrispondente reato: quest’ultima richiede una presenza attiva nell’ambito del sodalizio criminoso, mentre la prima è comprensiva di ogni comportamento che, pur non integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 19943 del 25 maggio 2012 (Cass. pen. n. 19943/2012)

Nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto “intraneus” ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest’ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, e, sotto il profilo oggettivo, è privo della “affectio societatis”, mentre il partecipe “intraneus” è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo, e quindi del programma delittuoso, in modo stabile e permanente. (La S.C. ha precisato che anche il contributo degli appartenenti alla c.d. “borghesia mafiosa” può integrare gli estremi della vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa, e non del mero concorso esterno). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 18797 del 16 maggio 2012 (Cass. pen. n. 18797/2012)

La circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo) è legittimamente desumibile di per sé, sul piano indiziario, dalla appartenenza degli autori del fatto ad un sodalizio di stampo camorristico, salvo che non ricorrano elementi indicativi della riconducibilità degli episodi ad un alveo “intimidatorio” di tutt’altra natura. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 47404 del 21 dicembre 2011 (Cass. pen. n. 47404/2011)

In tema di associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del concorso “esterno” nel reato non è sufficiente il fatto che l’imputato abbia preso in consegna e custodito un’arma di pertinenza dell’organizzazione e destinata all’esecuzione di un agguato già programmato, in assenza della dimostrazione della effettiva e significativa incidenza della circostanza sull’attività del sodalizio. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 31345 del 5 agosto 2011 (Cass. pen. n. 26331/2011)

In tema di associazione a delinquere (nella specie di tipo mafioso), la messa a disposizione dell’organizzazione criminale, rilevante ai fini della prova dell’adesione, non può risolversi nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti di singoli associati, quand’anche di livello apicale, a servizio di loro interessi particolari, ma deve essere incondizionatamente rivolta al sodalizio ed essere di natura ed ampiezza tale da dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 26331 del 6 luglio 2011 (Cass. pen. n. 26331/2011)

L’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti. (La Suprema Corte ha precisato che il condizionamento della libertà morale dei terzi estranei al sodalizio non deve necessariamente scaturire da specifici atti intimidatori, ma può costituire l’effetto del timore che promana direttamente dalla capacità criminale dell’associazione).

La presenza, tra gli affiliati di un sodalizio criminale, di persone già condannate per delitti di mafia, non costituisce elemento decisivo per configurare il sodalizio come mafioso, se la caratura mafiosa del singolo soggetto non si sia trasmessa all’intera struttura associativa, non potendo essere accolta in astratto, in difetto di una concreta verifica, la regola “semel mafioso, semper mafioso”. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 25242 del 23 giugno 2011 (Cass. pen. n. 25242/2011)

Ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere (comune o di tipo mafioso), non è sempre necessario che il vincolo si instauri nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell’organizzazione stessa, ben potendo, al contrario, assumere rilievo forme di partecipazione destinate, “ab origine”, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest’ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell’ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della rilevanza penale. (In motivazione, la Corte ha precisato che, a tali fini, non occorre evocare la diversa figura giuridica del cosiddetto “concorso eventuale esterno” del singolo nell’associazione per delinquere). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 16606 del 29 aprile 2011 (Cass. pen. n. 16606/2011)

Non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell’ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al rafforzamento del medesimo, non erano programmabili “ab origine” perché legati a circostanze ed eventi contingenti ed occasionali o, comunque, non immaginabili al momento iniziale dell’associazione stessa. (Fattispecie in cui la Corte ha rigettato il ricorso diretto al riconoscimento in sede esecutiva della continuazione tra il reato di associazione di tipo mafioso ed un duplice omicidio commesso da un associato, disattendendo la tesi secondo cui, per ritenere configurabile la continuazione, sarebbe stato sufficiente il solo rapporto di strumentalità del predetto reato fine alla funzionalità della cosca). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 13609 del 5 aprile 2011 (Cass. pen. n. 13609/2011)

La circostanza attenuante speciale per la dissociazione di cui all’art. 8 L. n. 203 del 1991 si fonda sul mero presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso e non può pertanto essere disconosciuta, o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata, in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato o, ancora, alle ragioni che hanno determinato l’imputato alla collaborazione. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 10740 del 16 marzo 2011 (Cass. pen. n. 10740/2011)

Ai fini della prova di un omicidio avvenuto all’interno di sodalizio mafioso, non rientrante tra i cosiddetti “delitti eccellenti” che, come tali, richiedono il necessario “placet” dell’organismo apicale dell’associazione criminosa, la chiamata in correità non può ritenersi riscontrata semplicemente con il dato della riconosciuta appartenenza ad essa, sia pure in posizione tendenziale di vertice, del chiamato, ma necessita di ulteriori e significativi riscontri. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 30402 del 30 luglio 2010 (Cass. pen. n. 30402/2010)

Poiché l’associazione di tipo mafioso si connota rispetto all’associazione per delinquere per la sua tendenza a proiettarsi verso l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, i caratteri suoi propri, dell’assoggettamento e dell’omertà, devono essere riferiti ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, in quanto essi vengono a trovarsi, per effetto della convinzione di essere esposti al pericolo senza alcuna possibilità di difesa, in stato di soggezione psicologica e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione. Pertanto, la diffusività di tale forza intimidatrice non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale e quindi manifestarsi concretamente, con il compimento di atti concreti, sì che è necessario che di essa l’associazione si avvalga in concreto nei confronti della comunità in cui è radicata. (Nella specie, in cui era stata accertata, in sede di merito, la sussistenza di una condizione di intimidazione sistematica di imprenditori, costretti ad esborsi mensili verso gli esponenti del sodalizio criminoso, nonché esposti a continue violenze, minacce e danneggiamenti, la Corte ha ritenuto correttamente configurata un’associazione di tipo mafioso) Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 29924 del 29 luglio 2010 (Cass. pen. n. 29924/2010)

Il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche con riferimento a sodalizi criminosi a matrice straniera costituiti prima dell’entrata in vigore della L. 12 luglio 2008 n. 125, di conversione in legge del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), che ha introdotto l’inciso “anche straniere” nell’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p., in quanto essa non ha inserito un elemento di novità nel tessuto legislativo preesistente, ma ha solo adeguato la normativa a un dato già chiaro e conseguito per via di interpretazione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 24803 del 1 luglio 2010 (Cass. pen. n. 24194/2010)

La prova della partecipazione all’associazione, stante l’autonomia del reato associativo rispetto ai reati “fine”, può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, sicchè non rileva, a tal fine, il fatto che l’imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati “fine” dell’associazione. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 24194 del 23 giugno 2010 (Cass. pen. n. 24194/2010)

La sussistenza della circostanza aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991 n. 203, non implica che sia stata dimostrata l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso (Nel caso concreto, si trattava di un gruppo criminale dedito alle estorsioni, che era stato ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 416 c.p. piuttosto che a quella di cui all’art. 416-bis c.p., in quanto non aveva ancora conseguito l’egemonia sul territorio). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 16883 del 4 maggio 2010 (Cass. pen. n. 16883/2010)

Il delitto di associazione di tipo mafioso aggravato dalla disponibilità di armi concorre con quelli di detenzione e porto di armi comuni da sparo. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 14173 del 13 aprile 2010 (Cass. pen. n. 14173/2010)

L’aggravante del “metodo mafioso”, di cui all’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203, essendo prevista esclusivamente in relazione ai delitti, non può trovare applicazione rispetto alle contravvenzioni. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 10243 del 15 marzo 2010 (Cass. pen. n. 10243/2010)

Rispondono del reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso i soggetti che abbiano assunto il ruolo di “avvicinati”, e cioè che, pur non compartecipando ancora al patrimonio di conoscenze dell’organizzazione e non disponendo di potere deliberativo, si sono messi a disposizione del sodalizio mafioso e svolgono una sorta di apprendistato in attesa della piena affiliazione formale. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9091 del 8 marzo 2010 (Cass. pen. n. 9091/2010)

In tema di associazione di tipo mafioso, le condotte di partecipazione e di direzione o di organizzazione, se consumate in tempi diversi ma in relazione al medesimo sodalizio criminoso, non integrano due distinti reati in continuazione tra loro, bensì un unico delitto iscrivibile nel paradigma del reato progressivo caratterizzato dall’offesa crescente al medesimo bene giuridico. (In motivazione la Corte ha chiarito che il rapporto tra le due autonome fattispecie di reato descritte nei primi due commi dell’art. 416 bis c.p. deve essere risolto nel senso sopra descritto in forza della clausola di consunzione individuata dalla formula «per ciò solo» contenuta nel secondo comma dell’articolo menzionato).

Nell’ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416 bis c.p., ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale di cui all’art. 63, comma quarto, c.p., bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416 bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 29770 del 17 luglio 2009 (Cass. pen. n. 29770/2009)

La mancanza di una formale contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991 n. 203 – contemplata per i delitti, punibili con pena diversa dall’ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare le attività mafiose – è ostativa all’applicabilità della speciale attenuante, di cui al successivo art. 8 stessa legge, prevista a favore di chi, nei reati di tipo mafioso nonché nei delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 23121 del 4 giugno 2009 (Cass. pen. n. 8738/2009)

L’espressa adesione alla partecipazione ad un “processo camorristico”, nel quale sia previsto l’uso di armi da sparo per l’esecuzione della eventuale condanna degli accusati, implica il consenso preventivo all’uso cruento e illimitato delle medesime, anche se tale evenienza sia di fatto riconducibile alla scelta esecutiva di un unico esecutore materiale. (Fattispecie in cui la Corte ha ravvisato un’ipotesi di concorso ordinario a norma dell’art. 110 c.p. e non quella di concorso cosiddetto anomalo, ai sensi del successivo art. 116, nella partecipazione di un concorrente nel duplice omicidio eseguito materialmente da altri all’esito di un “processo camorristico”). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 8738 del 26 febbraio 2009 (Cass. pen. n. 8738/2009)

È configurabile la continuazione tra reato associativo e reati fine esclusivamente qualora questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso. (Fattispecie in cui è stata esclusa la continuazione tra il reato di associazione di tipo mafioso e quello di traffico di stupefacenti e conseguentemente è stata ritenuta inapplicabile la disciplina dell’art. 297, comma terzo, c.p.p. alle distinte ordinanze cautelari emesse in riferimento agli stessi). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 8451 del 25 febbraio 2009 (Cass. pen. n. 8451/2009)

L’aggravante cosiddetta del “metodo” o della “agevolazione” mafiosi ricorre anche se la condotta in cui essa si concreta sia stata esercitata da un solo soggetto, non essendo necessario che essa sia tenuta da una pluralità di persone, ma bastando che il soggetto passivo percepisca che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3861 del 28 gennaio 2009 (Cass. pen. n. 3861/2009)

Ai fini della configurabilità del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso deve essere provato che la condotta atipica dell’estraneo abbia efficacemente condizionato, sia pure istantaneamente, quella tipica dei membri, necessaria per tenere in vita l’associazione in attuazione del programma. (Fattispecie relativa all’accordo intercorso tra l’associazione mafiosa ed esponenti di imprese locali e nazionali per l’assegnazione “a tavolino” di appalti pubblici di elevato importo). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 36769 del 25 settembre 2008 (Cass. pen. n. 36769/2008)

In tema di associazione di tipo mafioso, non costituiscono espressione di «metodo mafioso » quei comportamenti genericamente riconducibili solo ad autorevolezza dei membri del sodalizio nella comunità locale, quando, in mancanza di ulteriori elementi di fatto, gli stessi non siano inquadrabili in un clima di sopraffazione a carico del corpo elettorale, ma possono avere spiegazioni alternative, anche se riconducibili a condotte illecite perchè idonee al turbamento della libera espressione del voto. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso che, in difetto di ulteriori elementi, fossero espressione di metodo mafioso i summit risultati decisivi per la formazione delle liste e per le candidature dei vertici dell’amministrazione comunale, il ritiro delle schede e la loro riconsegna al momento del voto agli elettori, la consegna del cosiddetto «stampino » dato agli elettori analfabeti ovvero il presidiamento dei seggi e le promesse di impieghi o favori fatti agli elettori ). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 28962 del 11 luglio 2008 (Cass. pen. n. 28962/2008)

La confisca di cui all’art. 12 sexies L. 7 agosto 1992, n. 356, è applicabile anche nei confronti degli eredi a seguito della morte della persona condannata con sentenza irrevocabile per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in quanto gli stessi non rientrano nella categoria dei «terzi estranei » di cui all’art. 240 c.p. e gli effetti della sentenza di condanna definitiva che vengono inevitabilmente a cessare dopo la morte del condannato sono solo quelli di natura personale e non quelli di natura reale. (Fattispecie in cui gli eredi avevano richiesto al giudice dell’esecuzione la restituzione di beni sottoposti a confisca dopo la morte della persona condannata con sentenza irrevocabile ). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 27343 del 4 luglio 2008 (Cass. pen. n. 27343/2008)

La prova del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, qualora sia fondata sulla convergenza di una pluralità di contributi dichiarativi, non può essere esclusa attraverso una selezione dei singoli compendi al fine di censurarne la loro autonoma valenza accusatoria. (La Corte ha precisato che operando in tal modo si procederebbe all’indebita estrapolazione del singolo elemento dal complessivo contesto probatorio, negando in maniera aprioristica e surrettizia la necessaria visione dinamica ed unitaria della continuità e ripetitività dei contegni di agevolazione e conservazione del consorzio criminoso, i quali costituiscono, invece, l’essenza della fattispecie in questione). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 542 del 8 gennaio 2008 (Cass. pen. n. 542/2008)

In tema di associazione di tipo mafioso, in mancanza di elementi relativi al compimento di atti diretti ad intimidire, deve comunque risultare un clima di diffusa intimidazione derivante dalla consolidata consuetudine di violenza dell’associazione stessa, clima percepito all’esterno e del quale si avvantaggino gli associati per perseguire i loro fini. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 34974 del 17 settembre 2007 (Cass. pen. n. 7660/2007)

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, sussiste la responsabilità del cosiddetto capo mandamento della provincia, a titolo di concorso nel reato-fine « eccellente» (nella specie strage e delitti connessi) qualora quest’ultimo — ancorché non sussista la prova che abbia partecipato alle riunioni della c.d. commissione in cui si sia deliberato il delitto — sia, tuttavia, in virtù della qualità di capo mandamento, membro di detta « commissione» e legato ai soggetti che all’epoca ne detenevano il controllo e tale delitto sia eseguito nel territorio appartenente al mandamento di cui egli abbia, quale capo, il controllo, considerato che un’eventuale inconsapevolezza al riguardo non solo avrebbe potuto seriamente ostacolarne l’attuazione ma anche comportare seri pericoli per i membri inavveduti; consapevolezza, d’altro canto, nella specie, dimostrata anche da ulteriori precise emergenze storiche in relazione al tempo ed al luogo del delitto (presenza nel territorio immediatamente prima, avvertimento al capo del mandamento vicino e conoscenza del luogo del delitto immediatamente dopo annotato su una cartina stradale). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 7660 del 23 febbraio 2007 (Cass. pen. n. 7660/2007)

In tema di associazione di stampo mafioso, affinchè risulti integrato il concorso esterno, gli effetti delle condotte dei soggetti agenti devono risultare utili per l’intera associazione, e non solo per qualche suo componente, come nell’ipotesi di mero favoreggiamento personale. (Nel caso di specie, la S. comma ha ritenuto configurabile il concorso esterno a carico delle persone che avevano curato la trasmissione di messaggi — i c.d. pizzini — tra uno dei capi dell’associazione mafiosa, latitante da lungo tempo, ed un rappresentante di spicco della stessa, detenuto, in quanto tali condotte avevano fornito un contributo consistente all’associazione — garantendo agli esponenti di vertice di «Cosa Nostra» di mantenerne la gestione anche in situazioni di difficoltà quali la latitanza e la detenzione — e sussisteva la piena consapevolezza di recare aiuto all’intera organizzazione in capo agli autori delle condotte, a conoscenza del ruolo ricoperto all’interno dell’organizzazione dal soggetto ristretto in carcere, per effetto del vincolo di parentela ed affinità con quest’ultimo, vincolo che aveva legittimato la continua ammissione ai colloqui nella casa circondariale). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 1073 del 17 gennaio 2007 (Cass. pen. n. 1073/2007)

Allorché siano contestate, in relazione allo stesso reato, le circostanze aggravanti di aver agito al fine di agevolare l’attività d un’associazione di tipo mafioso e di aver agito per motivi abietti e il motivo abietto venga identificato per intero nella predetta finalità, l’aggravante comune deve essere assorbita in quella speciale. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 41332 del 18 dicembre 2006 (Cass. pen. n. 41332/2006)

L’adesione ad un sodalizio criminoso, che si è formato e ha operato in Italia, integra la partecipazione a un reato commesso nel territorio dello Stato anche qualora l’associato rimanga materialmente sempre all’estero, ove la sua condotta di partecipazione all’associazione si sia svolta per intero, con l’apporto di contributi apprezzabili alla organizzazione. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 40643 del 12 dicembre 2006 (Cass. pen. n. 40643/2006)

La circostanza attenuante speciale della dissociazione attuosa, prevista per i delitti di cui all’articolo 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, soggiace, in assenza di un’espressa deroga di legge, alla regola generale del giudizio di comparazione con altre circostanze. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 34193 del 12 ottobre 2006 (Cass. pen. n. 34193/2006)

La mancanza di una formale contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203, configurabile rispetto ad ogni delitto, punito con sanzione diversa dall’ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, non è ostativa all’applicabilità della speciale attenuante, di cui al successivo articolo 8 della stessa legge, prevista per coloro che si dissocino dalle organizzazioni di tipo mafioso adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze. Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 30062 del 12 settembre 2006 (Cass. pen. n. 30062/2006)

Affinché la circostanza aggravante ex art. 7 D.L. n. 152 del 1991 (avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione prevista dallo stesso articolo) possa ritenersi configurata non è sufficiente la prova che l’agente abbia conseguito, al pari dei vertici mafiosi che hanno offerto protezione, un tornaconto anche economico della propria attività delittuosa, bensì la dimostrazione che tali vantaggi sono stati pariteticamente concordati e non rappresentano semplicemente la risultanza di uno degli effetti comunque ricollegabili alla condotta sopraffattrice della associazione Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 26268 del 27 luglio 2006 (Cass. pen. n. 26268/2006)

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p., è necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione. Ne consegue che, in presenza di un’autonoma consorteria delinquenziale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, è necessario accertare che tale associazione si sia radicata in loco con quelle peculiari connotazioni. (In applicazione di tale principio, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di merito che, evocando acquisizioni giudiziarie ed elementi di notorietà in ordine alla esistenza in Sicilia di un clan mafioso a struttura familistica, era giunta alla conclusione che un’autonoma consorteria operante in territorio milanese, godendo della fama criminale della ‘ndrangheta, aveva perpetrato in altro contesto spaziale le stesse metodiche comportamentali). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 19141 del 31 maggio 2006 (Cass. pen. n. 19141/2006)

In tema di associazione di tipo mafioso, integra la materialità del «concorso esterno» l’attività del magistrato che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis, assicuri, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici della associazione mafiosa, il proprio voto favorevole alla assoluzione di imputati appartenenti al sodalizio stesso e una gestione compiacente del dibattimento, così precostituendosi un giudice non imparziale ma prevenuto in favore degli imputati, il cui sodalizio si rafforza per effetto del contributo del membro della istituzione giudiziaria, e non essendo viceversa necessaria la prova che egli abbia anche persuaso e orientato le scelte degli altri membri del collegio. (In motivazione la Corte ha censurato la decisione dei giudici di merito i quali avevano assolto il magistrato sul rilievo che era mancata la prova del condizionamento operato dall’imputato sugli altri giudici, pur in presenza di indizi — quali dichiarazioni di collaboranti — non valutati nella loro globalità). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 16493 del 15 maggio 2006 (Cass. pen. n. 16493/2006)

In tema di reati di criminalità organizzata, il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 8 D.L. n. 152 del 1991, che è fondata su un’utilità obiettiva, la quale consiste nel proficuo contributo fornito alle indagini ovvero nell’aver evitato conseguenze ulteriori all’attività delittuosa, non implica necessariamente, data la diversità dei rispettivi presupposti, il riconoscimento di circostanze attenuanti generiche, le quali si fondano su una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a delinquere del colpevole. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 14527 del 27 aprile 2006 (Cass. pen. n. 12393/2006)

Qualora un’associazione di tipo mafioso sia caratterizzata dall’esistenza di un organismo di vertice, ogni deliberazione di azioni delittuose di natura strategica è di regola ascrivibile a coloro che ne fanno parte, a meno che non siano acquisiti elementi per ritenere che il soggetto non sia stato consultato o abbia espresso il suo dissenso. (La Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione fondata su presunzioni in relazione alla possibile espressione di un dissenso). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 12393 del 6 aprile 2006 (Cass. pen. n. 12393/2006)

La riconosciuta, reciproca indipendenza fra due associazioni di tipo mafioso non implica che eventuali azioni da esse svolte in comune siano necessariamente da qualificare come una sorta di interventi di «mutuo soccorso» posti in essere estemporaneamente, in conformità di un «codice d’onore» disciplinante, secondo comune esperienza, i rapporti fra associazioni criminose che non siano in conflitto fra loro, dovendosi al contrario verificare, prima di giungere ad una tale conclusione, che non si sia invece in presenza di interventi stabili e programmati posti in essere nell’ambito di quella che possa ritenersi una federazione tra le due associazioni, da riguardare, quindi, come un organismo di natura associativa autonoma, avente una propria struttura e propri autonomi obiettivi. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte, su ricorso del P.M., ha annullato con rinvio, per difetto di motivazione, la sentenza di merito che aveva escluso la configurabilità di un unico rapporto associativo fra due gruppi camorristici limitandosi ad osservare che la stessa non poteva essere desunta dal fatto che vi fossero stati reciproci interventi di sostegno dell’uno a favore dell’altro essendo questi da riguardare, appunto, secondo la suddetta sentenza, come semplici e sporadiche manifestazioni di «mutuo soccorso» inteso come doveroso nel mondo della criminalità organizzata). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 8565 del 10 marzo 2006 (Cass. pen. n. 8565/2006)

L’appartenenza dell’imputato all’organismo centrale di un’organizzazione criminale di stampo mafioso («Cosa nostra»), titolare del potere di deliberazione in merito alla realizzazione di singoli e specifici fatti criminosi, non è di per sé elemento sufficiente per la configurazione del concorso morale nel delitto di omicidio, essendo necessario che i singoli componenti, informati in ordine alla delibera da assumere, prestino il proprio consenso, anche tacito, fornendo così il proprio contributo alla specifico reato. (La Corte ha quindi precisato che è sufficiente ad integrare il concorso anche il comportamento silente eventualmente tenuto nel corso di una riunione di tale organismo deliberativo, nel corso della quale è stato conferito il mandato omicidiario, in quanto anche la sola presenza può significativamente rafforzare l’altrui proposito criminoso). Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 3822 del 31 gennaio 2006 (Cass. pen. n. 3822/2006)

In materia di partecipazione ad associazione di stampo mafioso è ragionevole considerare «imprenditore colluso» quello che è entrato in rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse, servizi o utilità; mentre è ragionevole ritenere «imprenditore vittima» quello che soggiogato dall’intimidazione non tenta di venire a patti col sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno. Ne consegue che il criterio distintivo tra le due figure è nel fatto che l’imprenditore colluso, a differenza di quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere venuto in relazione col sodalizio mafioso. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 46552 del 20 dicembre 2005 (Cass. pen. n. 46552/2005)

La fattispecie associativa finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) non si pone in rapporto di specialità con la figura associativa prevista dall’art. 416 bis c.p. (associazione di stampo mafioso), per cui deve escludersi l’applicazione dell’art. 15 c.p., potendo configurarsi il concorso formale di reati. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 35034 del 29 settembre 2005 (Cass. pen. n. 35034/2005)

La forma libera che caratterizza la fisionomia del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, e dunque la mancanza di tipizzazione della relativa condotta, consentono al giudice di merito di cogliere, nel processo di metamorfosi della mafia nel tessuto sociale ed economico, i contenuti dell’appartenenza anche in nuove e piú evolute forme comportamentali di adattamento o di mimetizzazione, rispetto alla classica iconografia del mafioso. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 17380 del 6 maggio 2005 (Cass. pen. n. 11613/2005)

È configurabile il concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa tutte le volte in cui il contributo dell’extraneus sia concreto, specifico, consapevole e volontario. Tale contributo ben può connettersi ad un accordo di scambio con il quale un esponente politico si impegni — verso la promessa di voti in sede di elezioni amministrative — a favorire il sodalizio criminoso nei futuri rapporti con l’Amministrazione, sicchè la condotta offensiva del bene giuridico tutelato viene integrata dallo scambio sinallagmatico tra le due promesse (appoggio elettorale e agevolazione da parte dell’ente), restando irrilevante la mancata esecuzione delle promesse. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 11613 del 23 marzo 2005 (Cass. pen. n. 11613/2005)

La circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 si applica a tutti coloro, partecipi o non di qualche sodalizio criminoso, la cui condotta sia riconducibile a una delle due forme in cui può atteggiarsi (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo) e, per i soggetti partecipi, opera anche con riferimento ai reati-fine dell’associazione.

È configurabile il concorso formale tra il reato di associazione di tipo mafioso previsto dall’art. 416 bis c.p. e quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2612 del 27 gennaio 2005 (Cass. pen. n. 2612/2005)

Anche per il concorso esterno in associazione di stampo mafioso scatta la presunzione di pericolosità prevista, dall’art. 275, comma terzo c.p.p., in ordine alle esigenze cautelari, in quanto integra pur sempre una partecipazione nel reato associativo e comunque persegue il fine di agevolare l’attività di tali sodalizi. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 48444 del 16 dicembre 2004 (Cass. pen. n. 48444/2004)

In tema di associazione di tipo mafioso, la forza di intimidazione che caratterizza il vincolo associativo non necessariamente deve desumersi da specifiche minacce avanzate da uno o più componenti della «famiglia», ma può essere argomentato, con valutazioni di merito che, se congrue, non sono censurabili in sede di legittimità, sulla base di elementi atti a dimostrare il diffuso clima di sopraffazione e conseguente assoggettamento delle vittime. (La Corte ha ritenuto congrua la motivazione dei giudici di merito che avevano valorizzato il «modo selvaggio con il quale gli imputati avevano esercitato la pastorizia» ponendo in essere condotte di pascolo abusivo e di danneggiamento, e l’atteggiamento remissivo dei proprietari per timore di ritorsioni). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 31461 del 16 luglio 2004 (Cass. pen. n. 31461/2004)

Ai fini della configurabilità, nella condotta criminosa, della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), è del tutto irrilevante la formale contestazione al soggetto cui essa sia stata addebitata di ipotesi di reato associativo, in quanto la ratio sottostante al citato art. 7 non è solo quella di punire piú severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera piú decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 16486 del 9 aprile 2004 (Cass. pen. n. 16486/2004)

Il problema della configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati-fine non va impostato in termini di compatibilità strutturale, in quanto nulla si oppone a che, sin dall’inizio, nel programma criminoso dell’associazione, si concepiscano uno o più reati-fine individuati nelle loro linee essenziali, di guisa che tra questi reati e quello associativo si possa ravvisare una identità di disegno criminoso. Ne consegue che tale problema si risolve in una quaestio facti la cui soluzione è rimessa di volta in volta all’apprezzamento del giudice di merito. (Fattispecie relativa a contestazione c.d. «a catena» tra reati di narcotraffico contestati con le prime due ordinanze di custodia cautelare e associazione di tipo mafioso contestata con una terza, in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata per vizio di motivazione). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 15889 del 2 aprile 2004 (Cass. pen. n. 14541/2004)

In tema di reato di associazione di tipo mafioso, la condotta di concorso cosiddetto «esterno» nel reato consiste in un apporto, apprezzabile per concretezza, specificità e rilevanza, di rafforzamento o di consolidamento dell’associazione o di un suo particolare settore, non essendo affatto necessario che lo stato di difficoltà nel quale l’associazione può trovarsi sia tale, che senza quell’aiuto esterno, il sodalizio andrebbe inevitabilmente incontro all’estinzione. (In applicazione di tale principio la Corte ha ravvisato quell’aiuto rilevante e specifico nella condotta dell’imputato che, prima come vicesindaco e poi come consulente di altro comune, attraverso la sua sistematica partecipazione alle commissioni preposte alle gare per pubblici appalti, aveva favorito lo svolgimento di gare truccate in guisa da assicurarne l’aggiudicazione a pochi e determinati gruppi imprenditoriali facenti capo a soggetti mafiosi). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 14541 del 25 marzo 2004 (Cass. pen. n. 14541/2004)

Nell’ambito dell’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata «Cosa Nostra» la semplice appartenenza dei cosiddetta «capi-mandamento» all’organismo collegiale centrale (denominato «commissione»), composto da un numero ristretto di associati ed investito del potere di deliberare in merito alla realizzazione di singoli fatti criminosi da considerare di speciale importanza per la vita dell’organizzazione criminale (nella specie un’omicidio «eccellente» di un giornalista particolarmente attivo nella lotta alla mafia), non costituisce concorso morale nel delitto di omicidio, non essendo configurabile per i membri della «commissione» una responsabilità di «posizione» Perché si realizzi una siffatta responsabilità occorre, infatti, che il singolo componente, informato in ordine alla deliberazione da assumere, presti il proprio consenso, anche tacito, fornendo così il proprio contributo allo specifico reato, quantomeno mediante il rafforzamento delle altrui determinazioni volitive. Peraltro, il consenso tacito non può essere desunto dal semplice silenzio tenuto dal componente che non abbia partecipato alla riunione, salvo che risulti specificamente provata l’esistenza di una regola per le deliberazioni della commissione mafiosa, consistente nell’obbligo di manifestare l’opinione dissenziente, in forza della quale il silenzio tenuto dal capo-mandamento rappresenti la manifestazione di un parere favorevole all’omicidio. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 13349 del 18 marzo 2004 (Cass. pen. n. 13349/2004)

Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso rientra fra i delitti, la condanna per i quali costituisce causa ostativa alla concessione delle misure alternative alla detenzione di cui all’art. 4 bis, primo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 12982 del 17 marzo 2004 (Cass. pen. n. 11914/2004)

Qualora un’ associazione di tipo mafioso sia caratterizzata dall’esistenza di un organismo collegiale di vertice investito del potere di deliberare in ordine alla commissione dei fatti criminosi di maggiore importanza e, in particolare, degli omicidi di personaggi di rilievo (uomini politici, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, giornalisti, etc.), l’appartenenza di taluno degli associati al suddetto organismo può costituire indizio ma non prova di penale responsabilità in ordine ai suindicati omicidi. (Nella specie la Corte, pur affermando tale principio, ha tuttavia rilevato — nel rigettare il ricorso proposto da taluni imputati avverso la sentenza che li aveva dichiarati colpevoli di concorso nel delitto di strage, da cui era derivata la morte del dott. Paolo Borsellino e di diversi componenti della sua scorta — che i giudici di merito, a sostegno della ritenuta responsabilità dei ricorrenti, si erano basati non sul solo fatto che costoro erano componenti della c.d. «Commissione» del sodalizio mafioso denominato «Cosa Nostra» ma anche e soprattutto sul fatto che era risultata dimostrata la prestazione, da parte loro, nell’ambito di detta commissione, di uno specifico assenso all’esecuzione del summenzionato delitto). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 11914 del 12 marzo 2004 (Cass. pen. n. 11914/2004)

La tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416 bis c.p. risiede nel metodo mafioso (individuato nella forza intimidatrice del vincolo associativo, nella condizione di assoggettamento ed in quella di omertà), piuttosto che negli scopi, indicati in via alternativa dal terzo comma del citato articolo, che l’associazione stessa persegue o voglia perseguire. In mancanza della prova di specifici atti di intimidazione e di violenza, la forza intimidatrice può essere desunta sia da circostanze obiettive, atte a dimostrare la capacità attuale dell’associazione di incutere timore, sia dalla generale percezione che la collettività abbia della efficienza del gruppo criminale nell’esercizio della coercizione fisica (Nell’enunciare questo principio la S.C. ha precisato che le condizioni di assoggettamento della popolazione e gli atteggiamenti omertosi conseguono, piú che a singoli atti di sopraffazione, al cd. prestigio criminale dell’associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si è accreditata come un centro di potere malavitoso temibile ed effettivo). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 9604 del 2 marzo 2004 (Cass. pen. n. 9604/2004)

In tema di associazione di stampo mafioso, la permanente «disponibilità» al servizio dell’organizzazione mafiosa a porre in essere attività delittuose, anche se di bassa manovalanza (tagli di alberi, incendi ecc.) ma pur sempre necessarie per il perseguimento dei fini dell’organizzazione, indipendentemente dalla prova di una formale iniziazione, rappresenta univoco sintomo di inserimento strutturale nel sodalizio e, quindi, di vera e propria partecipazione, ad un livello pur minimale, al sodalizio delinquenziale, mentre la «legalizzazione» con la qualifica di «uomo d’onore» costituisce uno stadio più evoluto nella progressione carrieristica del mafioso nell’organigramma piramidale del sodalizio. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 6101 del 16 febbraio 2004 (Cass. pen. n. 6101/2004)

L’appartenenza ad un organismo di vertice di un’organizzazione criminale che ha la competenza a deliberare sugli omicidi eccellenti, costituisce un indizio che assume il requisito della gravità nel momento in cui viene dimostrata l’effettiva partecipazione di ogni agente alla decisione di eseguire il singolo omicidio. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 552 del 12 gennaio 2004 (Cass. pen. n. 552/2004)

Il mandato generico impartito dal capo di un’organizzazione mafiosa di eliminare tutti i componenti di un clan rivale comporta il necessario concorso dello stesso mandante in tutti gli omicidi commessi, senza che il margine di indeterminatezza inerente a quel mandato possa ritenersi incompatibile con il principio di colpevolezza. Si tratta, infatti, di un incarico relativo ad un ambito ben definito di possibili vittime, che, peraltro, non può essere confuso con l’adesione ad un generico programma di un’associazione criminale, che ponga tra i propri fini la consumazione di una serie indeterminata di delitti. Altro è, infatti, ordinare l’uccisione di tutti i membri di una famiglia, anche se si lascia agli esecutori la scelta dei mezzi piú appropriati, altro è costituire un’associazione destinata a commettere una serie non predeterminabile di omicidi. In un caso, il numero dei delitti può essere indeterminato, ma è pur sempre determinabile sulla base di uno specifico progetto di azione; nell’altro, il numero non è predeterminabile, perché viene in discussione un generico programma piuttosto che un progetto concreto. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 47739 del 15 dicembre 2003 (Cass. pen. n. 47739/2003)

Per qualificare come mafiosa, ai sensi del terzo comma dell’art. 416 bis c.p., un’organizzazione criminale è sufficiente la mera capacità di intimidire che essa abbia dimostrato all’esterno, da valutare tenendo conto del sodalizio, dell’ambiente di operatività, dei metodi utilizzati, della struttura organizzata e di qualsiasi altro elemento utile. Considerata la funzione anticipatoria della fattispecie criminosa, tale capacità può essere anche solo potenziale, per cui l’espressione «si avvalgono», contenuta nella norma, non presuppone solamente che la capacità di incutere timore si sia già imposta, ma deve essere intesa anche nel senso che i partecipi al sodalizio intendono avvalersi della loro intrinseca capacità intimidatoria per perseguire i propri scopi criminali. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 45711 del 26 novembre 2003 (Cass. pen. n. 45711/2003)

Per l’integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso, che il legislatore ha configurato quale reato di pericolo, è sufficiente che il gruppo criminale considerato sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, e come tale sia percepito all’esterno, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori. (Fattispecie ove, nell’ambito d’una azione estorsiva ad ampio raggio, risultavano compiuti gravi atti di intimidazione e violenza sulle cose e le persone; la Corte ha censurato un provvedimento che aveva escluso la ricorrenza del delitto di associazione di tipo mafioso sul presupposto che mancasse la prova di una condizione di effettivo assoggettamento dei componenti della comunità di commercianti colpita dalle richieste estorsive). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 38412 del 9 ottobre 2003 (Cass. pen. n. 38412/2003)

In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, lo scopo di « impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali» costituisce una delle finalità tipiche del delitto associativo solo a far tempo dall’entrata in vigore dell’art. 11 bis del D.L. 8 giugno 1992 n. 306 (conv. nella L. 7 agosto 1992 n. 357), che ha modificato in tal senso il terzo comma dell’art. 416 bis c.p.. Tuttavia anche condotte antecedenti che risultassero finalizzate ad incidere sul processo elettorale, in senso strumentale al perseguimento dei diversi fini già rilevanti secondo il vecchio testo della norma incriminatrice, potevano dar luogo in concreto a responsabilità per il delitto associativo, nella forma della partecipazione o del concorso esterno. Una tale responsabilità non può dunque essere esclusa sul solo presupposto che la relativa condotta abbia preceduto la citata modifica del comma 3 dell’art. 416 bis c.p.. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 37788 del 3 ottobre 2003 (Cass. pen. n. 37788/2003)

La durata del rapporto associativo criminoso non concide necessariamente con i tempi di consumazione dei reati fine e non è commisurata alle date del compimento degli atti di indagine, ma deve essere determinata sulla base di accertamenti in fatto. Ne consegue che la privazione della libertà personale o il ricovero in ospedale di uno degli affiliati, soprattutto se riveste un ruolo preminente all’interno dell’associazione, non costituiscono un ostacolo insuperabile al mantenimento del vincolo associativo. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 31109 del 23 luglio 2003 (Cass. pen. n. 31109/2003)

In materia di reati associativi, il ruolo di partecipe — anche se in posizione gerarchicamente dominante — rivestito da taluno nell’ambito della struttura organizzativa criminale non è di per sé solo sufficiente a far presumere, in forza di un inammissibile ed approssimativo criterio di semplificazione probatoria dell’accertamento della responsabilità concorsuale, la responsabilità automatica di quel soggetto per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, anche se riferibile all’organizzazione e inserito nel quadro del programma criminoso; dei delitti fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all’attuazione della singola condotta delittuosa, alla stregua dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di “posizione” o da “riscontro d’ambiente”. (Fattispecie relativa ad associazione per delinquere di tipo mafioso, finalizzata prevalentemente allo sfruttamento della prostituzione di donne straniere introdotte clandestinamente in Italia). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 20994 del 12 maggio 2003 (Cass. pen. n. 20994/2003)

L’appartenenza ai vertici dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, pur assumendo rilievo ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non integra ex se la prova della colpevolezza dei dirigenti del sodalizio in riferimento ai delitti fine commessi da taluni dei partecipi, anche se in attuazione di un disegno criminoso riferibile, in via programmatica, all’organizzazione. Alla luce della prassi instaurata dai vertici dell’associazione mafiosa e diretta, nell’ambito di un progetto strategico di tipo stragistico, a garantire un livello deliberativo e informativo “protetto” in relazione alla programmazione di delitti “eccellenti”, ai fini dell’effettività del concorso morale in ordine ai suddetti reati occorre dimostrare che: a) la regola, attestata in un determinato momento storico di operatività dell’organizzazione, per la quale i delitti “eccellenti” sono decisi dagli organi di vertice di “Cosa Nostra”, valga anche in una diversa fase della vita dell’associazione; b) vi sia stata una preventiva conoscenza delle articolazioni concrete del progetto delittuoso e delle connesse modalità esecutive; c) vi sia stata una conseguente manifestazione di approvazione ovvero una mancanza di manifesto dissenso. Diversamente, il ruolo di partecipe — anche in posizione gerarchicamente rilevante — da taluno rivestito nell’ambito della struttura organizzativa criminale finirebbe per rendere quel medesimo soggetto automaticamente responsabile di ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio — sia pure riferibile all’associazione di stampo mafioso e inserito nel quadro del programma criminoso —, in deroga al principio che dei delitti fine rispondono soltanto coloro che materialmente e moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all’attuazione della singola condotta delittuosa, alla stregua del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale e dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità “di posizione”. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18845 del 18 aprile 2003 (Cass. pen. n. 18845/2003)

Ove una organizzazione criminale di tipo mafioso richieda ai partecipi la loro definitiva adesione, fino a quando non abiurino o vengano a morte, la perdurante appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l’affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione, anche in assenza della prova di condotte attualmente riferibili al fenomeno associativo, ed anche nel caso di arresto e di condanna. Tuttavia, poiché la condotta di partecipazione ad una associazione per delinquere non consiste della sola affectio societatis, in caso di stabile isolamento dell’interessato dal gruppo (in forza di detenzione prolungata e senza soluzione di continuità) occorre la prova della permanenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita ed all’organizzazione del gruppo stesso, anche se a carattere solo morale (come ad esempio attraverso manifestazioni di solidarietà rivolte all’esterno del carcere). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 6262 del 7 febbraio 2003 (Cass. pen. n. 6262/2003)

Il concorso c.d. “esterno” o “eventuale” in associazione per delinquere di tipo mafioso è una forma di partecipazione saltuaria o sporadica all’attività del sodalizio criminoso, connotata, sotto il profilo soggettivo, dalla consapevolezza dell’esistenza e delle caratteristiche del suddetto sodalizio nonché dalla volontà di contribuire al conseguimento dei suoi scopi in un determinato momento della sua evoluzione. La suddetta condotta partecipativa si esaurisce, quindi, con il compimento delle attività concordate, anche quando queste consistano nella semplice promessa di favori connessi alla carica o all’ufficio rivestiti dal concorrente ed alla contiguità, percepibile all’esterno, di costui con l’associazione mafiosa.

L’ipotesi prevista dall’art. 416 bis, comma 3, c.p. che punisce la condotta posta in essere al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali, aggiunta dall’art. 11 bis del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992, n. 356, nulla ha a che vedere con gli altri casi contemplati dalla disposizione dettata dall’art. 1 della L. 13 settembre 1982, n. 646 e rappresenta una fattispecie autonoma completamente nuova, che qualifica, in modo diverso rispetto alle altre, le finalità cui tende il sodalizio mafioso. Ne consegue che, in virtù del perentorio ed intangibile disposto degli artt. 25, comma 2, Cost. e 2, comma 1, c.p., la condotta addebitabile al soggetto imputato, sussumibile nella fattispecie descritta, può avere rilevanza penale solo se compiuta successivamente all’entrata in vigore del decreto istitutivo della fattispecie stessa e non può essere addebitabile al soggetto solo sulla base della sua presunta appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 21356 del 30 maggio 2002 (Cass. pen. n. 21356/2002)

In tema di partecipazione all’associazione per delinquere di tipo mafioso, il rapporto associativo caratterizzato dalla disponibilità personale esclusiva dell’affiliato a favore del sodalizio criminoso, anche quando si attua mediante una condotta compresa nell’esercizio di una determinata professione, non può considerarsi automaticamente esaurito con la cessazione del rapporto professionale e neppure in seguito alla cancellazione dal relativo albo (nella specie: degli avvocati). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 21174 del 29 maggio 2002 (Cass. pen. n. 21174/2002)

In tema di reati di criminalità organizzata, qualora in presenza di circostanze aggravanti si determina la pena sulla base della concessione dell’attenuante ad effetto speciale prevista dall’art. 8 della legge n. 203 del 1991 (dissociazione attuosa), ciò significa che si è stabilita la prevalenza di detta attenuante sulle aggravanti. Ne deriva che l’eventuale concessione anche delle attenuanti generiche deve essere effettuata con giudizio di prevalenza, calcolando la relativa riduzione. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 13928 del 11 aprile 2002 (Cass. pen. n. 13928/2002)

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, nel caso particolare di una relazione tra un uomo politico e un gruppo mafioso, non è sufficiente per la sussistenza del reato una mera vicinanza al detto gruppo o ad i suoi esponenti, anche se di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma è necessario un accordo in base al quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti dell’organizzazione in modo idoneo a contribuire al suo rafforzamento. (In applicazione di tale principio la Corte ha accolto il ricorso ritenendo che, nonostante il motivato apprezzamento delle risultanze in ordine al sostegno elettorale fornito dall’associazione criminale all’imputato, non fosse adeguatamente motivata l’esistenza del patto a monte nei termini suddetti). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 33913 del 19 settembre 2001 (Cass. pen. n. 33913/2001)

In tema di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.), la rottura del vincolo associativo che lega taluno al sodalizio criminoso, con i conseguenti effetti sul piano della configurabilità dei reati realizzati dal sodalizio e del riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 8 del decreto legge n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991, può avvenire o attraverso lo speciale contributo di collaborazione prestato agli organi di giustizia oppure attraverso la dissociazione dall’organismo malavitoso, vale a dire attraverso la prestazione di un’attività di segno contrario a quella associativa, consistente in un contributo concreto alla difesa sociale dal sodalizio delinquenziale, essendo irrilevante per l’ordinamento giuridico un’abiura o un’altra forma di manifestazione di pentimento rilevante nel solo contesto culturale mafioso. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 22897 del 6 giugno 2001 (Cass. pen. n. 22897/2001)

In tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso di appartenenza, atteso che, in determinati contesti delinquenziali, i periodi di detenzione sono accettati dai sodali come prevedibili eventualità le quali, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione non impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non fanno cessare la disponibilità a riassumere un ruolo attivo non appena venga meno il forzato impedimento. (Fattispecie in tema di cessazione della permanenza rilevante ai fini della decorrenza del termine di prescrizione del delitto di cui all’art. 416 c.p., in relazione alla quale la Corte ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito che, sulla base dei predetti parametri, aveva accertato la persistenza del vincolo associativo). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 12907 del 2 aprile 2001 (Cass. pen. n. 12907/2001)

In tema di associazione di stampo mafioso, ai fini della responsabilità penale per il delitto associativo non rileva la mera qualità di «uomo d’onore» derivante da una pregressa investitura, ma occorre riscontrare la fattiva partecipazione del soggetto al sodalizio criminale nel periodo temporale individuato dalla imputazione. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 12537 del 1 dicembre 2000 (Cass. pen. n. 12525/2000)

Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere non è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori e programmaticamente circoscritto alla consumazione di uno o più delitti predeterminati, atteso che l’elemento temporale insito nella nozione stessa di stabilità del vincolo associativo non va inteso come necessario protrarsi del legame criminale, essendo, per contro, sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo del reato una partecipazione all’associazione anche limitata ad un breve periodo. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 12525 del 1 dicembre 2000 (Cass. pen. n. 12525/2000)

In tema di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, premesso che tale ipotesi, a differenza di quella costituita dalla partecipazione «organica», si caratterizza per l’assenza di una compenetrazione strutturale e di un vincolo psicologico-finalistico stabile e richiede, quindi, necessariamente, una concreta attività collaborativa idonea a contribuire al potenziamento, consolidamento o mantenimento in vita del sodalizio mafioso in correlazione a congiunturali esigenze del medesimo, deve ritenersi che, nel caso particolare di una relazione fra uomo politico e gruppo mafioso, non basti, per la sussistenza del concorso esterno, una mera vicinanza al detto gruppo od ai suoi elementi, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma sia necessario un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento. In tale ottica non appare necessaria, per la consumazione del reato, la concreta esecuzione delle prestazioni promesse anche se, il più delle volte, essa costituisce elemento prezioso per la dimostrazione del patto e della sua consistenza. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 2285 del 4 settembre 2000 (Cass. pen. n. 2285/2000)

In tema di associazione mafiosa, non può sostenersi che la commissione di omicidi rientri nel generico programma della societas sceleris, né che i diversi fatti di sangue siano consumati «per eseguire» il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., dal momento che tale reato ha natura permanente ed è preesistente rispetto ai fatti di omicidio; questi ultimi, a loro volta, pur essendo certamente episodi non inconsueti nel panorama di attività criminosa della struttura delinquenziale, non rappresentano la finalità per la quale l’associazione è stata costituita. A tanto consegue che, non essendo ravvisabile continuazione tra reato mezzo e reato fine, e neanche nesso teleologico tra gli stessi, non è concepibile alcuna ipotesi di «contestazione a catena» ai sensi dell’art. 297 comma 3 c.p.p. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 495 del 9 marzo 2000 (Cass. pen. n. 495/2000)

Carattere fondamentale dell’associazione per delinquere di tipo mafioso va individuato nella forza intimidatrice che da essa promana: la consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, a esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione. Essa rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione. È, pertanto, necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al fine di realizzare il loro programma criminoso.

Il reato di cui all’art. 416 bis c.p. è contrassegnato dal metodo mafioso, seguito dai componenti dell’associazione per la realizzazione del programma associativo. Esso non è componente della condotta ma dato di qualificazione del sodalizio e si connota, dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e di omertà che da tale forza intimidatrice si sprigiona verso l’esterno dell’associazione, cioè nei confronti dei soggetti nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 1612 del 10 febbraio 2000 (Cass. pen. n. 1612/2000)

Per la configurazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis, comma sesto, c.p. — che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti — occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell’attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma l’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, poi, necessario che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un intervento repressivo. L’aggravante in questione ha carattere oggettivo, poiché il perseguimento con i mezzi previsti della finalità descritta, si presenta come attributo della specifica associazione, qualificandone la pericolosità alla pari del suo carattere armato, ed è, quindi, valutabile a carico di ogni componente del sodalizio in base alla norma di cui al secondo comma dell’art. 59 c.p. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 856 del 25 gennaio 2000 (Cass. pen. n. 856/2000)

L’unicità del disegno criminoso costituente l’indispensabile condizione per la configurabilità della continuazione richiede che le condotte integrative essenziali delle diverse violazioni siano state deliberate, almeno nelle loro componenti essenziali, sin da quando è stato commesso il primo reato. Ne consegue che non è sufficiente il generico programma dell’organizzazione criminale di commettere omicidi per ritenere la continuazione tra i reati di cui agli artt. 416 bis e 575 c.p. se non è provato che i predetti delitti erano presenti nella mente dell’agente nelle sue linee essenziali sin dal momento in cui venne posto in essere il reato associativo. (Nella specie, l’omicidio era stato commesso, a seguito di uno «sgarro»; tale elemento, secondo la Corte, non appare illogico per ritenere non provato, che l’omicidio fosse stato programmato sin dal momento della costituzione del vincolo associativo). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 2960 del 15 ottobre 1999 (Cass. pen. n. 950/1999)

In tema di appartenenza a sodalizi mafiosi, le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre all’indiziato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o no di tipo mafioso; con la conseguenza che è del tutto irrilevante che nel provvedimento ablativo manchi la motivazione in ordine al nesso causale fra presunta condotta mafiosa e illecito profitto, essendo sufficiente la dimostrazione dell’illecita provenienza dei beni confiscati, qualunque essa sia.

Ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, devono intendersi quali soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso coloro nei confronti dei quali risultino acquisiti elementi di sicuro valore sintomatico tali da rendere ragionevolmente fondata la probabilità che costoro siano effettivamente aderenti a un’organizzazione criminosa appartenente al genere indicato nella norma (art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646). A tale scopo vanno valorizzati i presupposti soggettivi, ponendosi l’accento sul tipo di condotta che possa apparire sintomatica del collegamento con fenomeni mafiosi e sul modo di estrinsecazione della personalità del soggetto. Gli indici rivelatori di un contesto indiziario di tale tipo sono il tenore di vita, la frequentazione con pregiudicati e mafiosi, i precedenti penali e le altre concrete manifestazioni comportamentali contrastanti con la sicurezza pubblica. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 950 del 6 luglio 1999 (Cass. pen. n. 950/1999)

In tema di misure di prevenzione, l’assoluzione (anche se irrevocabile) dal delitto di cui all’art. 416 bis c.p. non comporta automatica esclusione della pericolosità del soggetto, quando la valutazione di tale requisito sia stata effettuata in base ad elementi distinti, anche se desumibili dai medesimi fatti storici venuti in rilievo nella sentenza di assoluzione. (Nella fattispecie la Corte, enunciando il principio sopra riportato, ha precisato che la carcerazione preventiva del proposto non è, di per sè, elemento dal quale possa desumersi la cessazione della pericolosità, come, d’altronde, è desumibile sulla base della concreta esperienza giudiziaria in tema di criminalità mafiosa). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 145 del 23 aprile 1999 (Cass. pen. n. 145/1999)

Non sussiste incompatibilità tra la qualità di associato ad organizzazione criminale di stampo mafioso e circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, dovendosi considerare che da un lato anche il non associato a sodalizi criminosi può agire con metodi mafiosi e, dall’altro, che l’associato non necessariamente deve avvalersi della forza intimidatrice derivante dal vincolo mafioso o agire per fini propri dell’associazione. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5839 del 26 marzo 1999 (Cass. pen. n. 5839/1999)

In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, pur dovendosi ammettere che un’adeguata comprensione dei fenomeni associativi di stampo mafioso non può prescindere dai risultati di serie ed accreditate indagini di ordine socio-criminale, deve, tuttavia, senz’altro escludersi che la massima di esperienza ricavabile da tali risultati possa esimere il giudice dall’osservanza del dovere di ricerca delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta formante oggetto della singola vicenda processuale che egli è chiamato a definire. (Nella specie, in applicazione di tale principio, è stata censurata la motivazione del giudice di merito nella parte in cui aveva, tra l’altro, ritenuto configurabili gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all’art. 416 bis nei confronti di soggetto la cui posizione era stata definita di tipica «contiguità soggiacente» rispetto alla diffusa e attiva presenza sul territorio di forti organizzazioni camorristiche. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 84 del 18 febbraio 1999 (Cass. pen. n. 84/1999)

L’aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203) è configurabile anche quando il delitto cui accede concorra con quello di cui all’art. 416 bis c.p. Ed invero una cosa è partecipare ad un’associazione per delinquere e cosa diversa è commettere un reato, anche se rientrante nel programma associativo, avvalendosi del metodo mafioso o al fine di agevolare l’attività dell’associazione: in tali ipotesi, infatti, la condotta mafiosa caratterizza il momento specifico della commissione del reato-fine, mentre nel reato associativo rappresenta una caratteristica permanente dell’azione criminosa; da ciò consegue ulteriormente che l’aggravante de qua non può ritenersi sussistente, per la concreta assenza dei suoi presupposti di fatto, qualora l’associato commetta un reato, pur rientrante nel programma comune, non utilizzando il metodo mafioso ovvero non agendo al fine di agevolare l’associazione. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 1631 del 12 ottobre 1998 (Cass. pen. n. 1631/1998)

In caso di associazione a delinquere di tipo mafioso è legittimo il sequestro probatorio delle apparecchiature di controllo degli spazi adiacenti il fabbricato di residenza dell’indagato. Ciò in quanto tali strumenti assumono le caratteristiche di corpo di reato, ovvero di cose mediante le quali la condotta incriminata trova esplicazione e costituendo esse, al contempo, elemento di prova della configurabilità della fattispecie incriminatrice. Infatti le apparecchiature divengono funzionali non alla semplice difesa del diritto di proprietà, ma alla costituzione di un vero e proprio rifugio per l’indagato e gli altri membri dell’organizzazione. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 2799 del 13 luglio 1998 (Cass. pen. n. 2799/1998)

In tema di delitto di associazione mafiosa strettamente connesso con l’attività politica e/o con l’utilizzazione di cariche amministrative di vertice o, comunque, di rilievo in enti pubblici, il giudice, ai fini della emissione di una misura cautelare o del ripristino della stessa a seguito di impugnazione del P.M. avverso la revoca, nell’esprimere il giudizio prognostico sulla possibile reiterazione delle condotte criminose, deve valutare la rilevanza e l’incidenza, sulla dedotta prospettazione che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, dell’intervenuto (notorio) ritiro dell’indagato dall’attività politico-amministrativa o della cessazione delle cariche pubbliche, e ciò con particolare attenzione quando il ritiro e la cessazione siano avvenuti anni addietro rispetto alla data in cui venga richiesto o disposto il provvedimento applicativo della misura cautelare. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 1544 del 2 giugno 1998 (Cass. pen. n. 1544/1998)

Ai fini della sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso l’intimidazione interna al sodalizio, pur se rilevante sotto il profilo dell’estrinsecazione del metodo mafioso, non può prescindere dall’intimidazione esterna, poiché elemento caratteristico dell’associazione in questione è il riverbero, la proiezione esterna, il radicamento nel territorio in cui essa vive; assoggettamento ed omertà devono pertanto riferirsi non ai componenti interni, essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione a pericolo, in stato di soggezione di fronte alla forza dei «prevaricanti». Quanto alla diffusività di tale forza intimidatrice, essa non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale, siccome manifestazione della condotta, essendo la diffusività un carattere essenziale della forza intimidatrice, con la conseguente necessità che di essa l’associazione si avvalga in concreto, cioè in modo effettivo. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 4307 del 9 aprile 1998 (Cass. pen. n. 4307/1998)

Un’associazione può ritenersi di tipo mafioso, distinguendosi dalla normale e tradizionale associazione per delinquere, quando sia connotata da quei particolari elementi indicati nell’art. 416 bis c.p., dei quali il principale e imprescindibile è il metodo mafioso seguito per la realizzazione del programma criminoso. Per la specifica connotazione “mafiosa” di un sodalizio, vanno coordinati i vari elementi indiziari, in una chiave di lettura che tenga conto delle nozioni socio-antropologiche e del particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono maturati. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6933 del 14 febbraio 1998 (Cass. pen. n. 6933/1998)

Ai fini della configurabilità della continuazione dei reati — venuto meno con la riforma del 1974 il requisito dell’omogeneità delle violazioni — ha acquistato rilevanza decisiva l’identità del disegno criminoso, inteso come ideazione e volizione di uno scopo unitario che esalta un programma complessivo, nel quale si collocano le singole azioni, commesse poi, di volta in volta, con singole determinazioni. Ciò implica che lo scopo sia sufficientemente specifico, che la rappresentazione dell’agente ricomprenda tutta la serie degli illeciti facenti parte del programma, concepito nelle sue linee generali ed essenziali, che il programma criminoso sia cioè prefigurato fin dalla consumazione del primo reato, che si assume rientrare, insieme agli altri illeciti, nella continuazione. Nella fattispecie la Corte ha precisato che non appare configurabile il nesso della continuazione tra il delitto di associazione di tipo mafioso e quelli programmati o comunque effettivamente commessi. L’associazione, invero, è contraddistinta dall’accordo programmatico per la commissione di delitti, per il controllo di attività economiche e per la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, con il ricorso a metodi tipicamente mafiosi (forza intimidatrice, condizione di assoggettamento e di omertà); per aversi reato continuato, invece, non è sufficiente un generico piano di attività delinquenziale, ma occorre che tutte le azioni ed omissioni siano comprese, fin dal primo momento e nei loro elementi essenziali ed individualizzanti, nell’originario disegno criminoso; deve sussistere, in sostanza, uno stesso momento genetico-ideativo che accomuna il delitto associativo a quelli eseguiti in sua realizzazione. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 3650 del 24 ottobre 1997 (Cass. pen. n. 3650/1997)

L’aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, è applicabile ai singoli reati-fine commessi dal soggetto appartenente ad una associazione a delinquere di stampo mafioso. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 3304 del 18 settembre 1997 (Cass. pen. n. 3304/1997)

La circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. n. 152 del 1991 è compatibile con la qualità di associato ad organizzazione criminale di stampo mafioso. (In motivazione, la S.C. ha suffragato il suo assunto sul rilievo che, da un lato, anche il non associato a sodalizi criminosi può agire «con metodi mafiosi» e, dall’altro, che l’associato non necessariamente deve valersi della forza intimidatrice derivante dal vincolo mafioso o agire per fini propri dell’associazione). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4117 del 16 luglio 1997

Poiché il concorso eventuale nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p. è una forma di partecipazione all’associazione criminosa e realizza gli estremi della fattispecie delineata dal legislatore, le pene inflitte al concorrente esterno nell’associazione mafiosa sono escluse dall’indulto elargito con il D.P.R. n. 394 del 1990. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3144 del 10 luglio 1997 (Cass. pen. n. 3144/1997)

In tema di sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con L. 12 luglio 1991, n. 203, la consapevolezza che le armi illecitamente detenute sono destinate ad agevolare l’attività di una associazione di tipo mafioso non è desumibile, in mancanza di altre circostanze significative, esclusivamente dal particolare ed accentuato potenziale offensivo delle stesse. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 1303 del 12 giugno 1997 (Cass. pen. n. 1303/1997)

L’esame del giudice del merito, in ordine alla configurabilità della speciale attenuante della dissociazione, prevista per i delitti di criminalità organizzata dall’art. 8 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, non può che essere limitato a quanto riferito dall’imputato nel singolo procedimento in ordine ai reati per i quali si procede, poiché è solo in relazione ad essi che può valutare la decisività e la concretezza dell’apporto fornito dal collaborante; resta fuori, perciò, da tale esame l’apporto dato per vicende delittuose attinenti altri procedimenti. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 889 del 5 febbraio 1997 (Cass. pen. n. 889/1997)

La natura mafiosa di un’associazione per delinquere non è determinata dagli scopi che essa si prefigge, bensì dal metodo impiegato, con il ricorso sistematico all’intimidazione e all’imposizione di un atteggiamento omertoso, perciò è possibile rinvenire i connotati della mafiosità anche in associazioni criminali che si fronteggino in una faida familiare e che in tale contrapposizione concentrino quasi esclusivamente la propria attività. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 10858 del 19 dicembre 1996 (Cass. pen. n. 10810/1996)

Al fine della determinazione della competenza per territorio di un reato associativo, occorre far riferimento al luogo in cui ha sede la base ove si svolgono le attività di programmazione e di ideazione riguardanti l’associazione, essendo irrilevante il luogo di commissione dei singoli reati riferibili all’associazione. Tuttavia, qualora ci si trovi in presenza di un’organizzazione criminale composta di vari gruppi operanti su di un vasto territorio nazionale ed estero, i cui raccordi per il conseguimento dei fini dell’associazione prescindono dal territorio, né sono collegati allo stesso per la realizzazione dei suddetti fini, la competenza per territorio a conoscere del reato associativo non può essere individuata sulla base di elementi i quali, pur essendo rilevanti ai fini probatori per l’accertamento della responsabilità degli imputati, non sono particolarmente significativi ai fini della determinazione della competenza territoriale, essendo in contrasto con altri elementi ben più significativi i quali lasciano desumere che il luogo di programmazione e di ideazione dell’attività riferibile all’associazione non possa essere individuato con certezza. (Fattispecie relativa a una grossa organizzazione, operante a livello internazionale nel traffico delle armi e di sostanze stupefacenti, i cui capi si incontravano, di volta in volta, in Spagna, in Italia, in Svizzera e in Marocco per mettere a punto le strategie criminali, senza che potesse dirsi prevalente l’una o l’altra località come luogo centrale delle attività di associazione. In relazione a tale fattispecie, la S.C., nell’enunciare il principio di cui in massima, ha ritenuto che occorresse far riferimento alla regola suppletiva dettata dall’art. 9, comma primo, c.p.p.). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6171 del 19 dicembre 1996 (Cass. pen. n. 10810/1996)

Le dichiarazioni dei coimputati riguardanti la partecipazione di taluno ad una associazione criminosa in tanto assumono valore di elemento di prova in quanto si sostanziano anche nella indicazione di fatti specifici tali da consentire al giudice di individuare non solo la condotta di partecipazione, ma anche e soprattutto la affectio societatis, indispensabile per la configurazione del delitto associativo. (Nell’affermare il principio di cui in massima, la Corte ha escluso che la indicazione proveniente da più coimputati sulla appartenenza di un soggetto, dedito ad attività di piccolo spaccio, ad un gruppo di «fiancheggiatori» di una organizzazione mafiosa dedita invece al traffico di rilevanti quantitativi di sostanze stupefacenti costituisse elemento di prova idoneo a ritenere questi responsabili del delitto previsto dall’art. 74 D.P.R. 309/90). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 10810 del 16 dicembre 1996 (Cass. pen. n. 10810/1996)

Nell’assunzione della qualifica di uomo d’onore — significativa non già di una semplice adesione morale, ma addirittura di una formale applicazione alla cosca mercé apposito rito (la cosiddetta «legalizzazione») — va ravvisata non soltanto l’accertata «appartenenza» alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo, specificamente contraddistinto, cui l’associato viene ad appartenere sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole ed ai suoi comandi, ma altresì la prova del contributo causale che, seppur mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell’obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercé l’aumento numerico dei suoi membri. Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 2040 del 18 novembre 1996 (Cass. pen. n. 2040/1996)

Ai fini dell’applicazione dell’art. 300, comma quarto, c.p.p., che prevede la perdita di efficacia della custodia cautelare in caso di condanna, ancorché sottoposta a impugnazione, ad una pena pari o inferiore alla custodia già subita, qualora si tratti di condanna per più reati unificati dalla continuazione, non può essere messa a confronto la custodia cautelare sofferta per uno dei reati satellite con la porzione di pena relativa all’aumento a titolo di continuazione al fine di ottenere l’escarcerazione per tale titolo di imputazione, dato che la legge, in tale ipotesi, considera il reato continuato come reato unico. (Fattispecie in cui l’imputato, condannato in primo grado alla pena di dieci anni di reclusione per i reati di cui gli artt. 73 e 74 D.P.R. n. 309 del 1990 nonché per il reato di cui all’art. 416 c.p., valutato più grave, con pena base determinata in anni otto di reclusione, aveva chiesto l’escarcerazione per uno dei reati satellite — essendo stato già scarcerato per decorrenza dei termini per gli altri reati — adducendo che la custodia cautelare sofferta per il reato satellite era superiore all’aumento di pena determinato in sentenza ex art. 81 cpv. c.p.). Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 2973 del 7 novembre 1996 (Cass. pen. n. 2973/1996)

Per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, l’art. 8 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, configura una circostanza attenuante speciale la cui ragione ha come presupposto un comportamento attivo dell’imputato nel prestare un concreto e significativo contributo alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi. Ne consegue che l’applicazione della diminuente resta esclusa quando il contributo intervenga in presenza di un quadro probatorio che aveva già consentito l’individuazione dei concorrenti nel reato. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9245 del 24 ottobre 1996 (Cass. pen. n. 4357/1996)

Integrano la condotta di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso la fornitura di mezzi materiali a membri di detta associazione e l’attività di trasmissione di messaggi scritti tra membri influenti della medesima, in quanto esse ineriscono al funzionamento dell’organismo criminale, sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l’attività di questo, sia sotto quello del mantenimento di canali informativi tra i suoi membri, che è l’incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell’associazione per delinquere.

Allorché risulta che l’associazione per delinquere di stampo mafioso faccia uso di armi, la mancanza di detta disponibilità di esse da parte del singolo partecipe non esclude, a carico dello stesso, l’esistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis, comma 4, c.p., essendo sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti ne abbiano la disponibilità, allo stesso modo che non è necessario, per la sussistenza dell’aggravante di cui al successivo comma 6, che il singolo associato personalmente si interessi a finanziare, con i proventi da delitti, le attività economiche, di cui i partecipi dell’associazione criminale intendono assumere e mantenere il controllo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4357 del 6 agosto 1996 (Cass. pen. n. 4357/1996)

Qualora nei confronti di un soggetto vengano emesse in momenti diversi due ordinanze di custodia cautelare in carcere, l’una per il reato di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso consumato fino a una determinata data e l’altra per il medesimo delitto consumato anche successivamente, non può trovare applicazione il disposto dell’art. 297, comma terzo, c.p.p., perché, nonostante l’identità del reato, i fatti di cui alla seconda ordinanza sono posteriori agli altri e sono da qualificarsi autonomi e prosecutivi dell’attività delittuosa tipica dell’associazione mafiosa, e non già come elementi qualificativi o circostanziali del delitto precedentemente contestato. Il delitto ex art. 416 bis c.p., infatti, proprio per la sua natura permanente, può continuare a consumarsi anche dopo l’emissione di una misura cautelare, essendo legato non solo a condotte tipiche ma anche soltanto alla mancata cessazione dell’affectio societatis scelerum fino ad un atto di desistenza volontaria o legale, come la sentenza di condanna anche non definitiva. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 3331 del 5 agosto 1996 (Cass. pen. n. 3331/1996)

In tema di computo dei termini di durata delle misure cautelari, perché sussista la connessione di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p., come modificato dalla L. 8 agosto 1995, n. 332, non basta che tra due reati esista un qualsiasi rapporto di connessione finalistica, essendo necessario che esso sia qualificato secondo lo schema di cui all’art. 12, comma 1, lettere b) e c) c.p.p., limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri. (Fattispecie nella quale è stata esclusa la connessione suddetta tra il reato di omicidio commesso per mantenere viva sul territorio la forza intimidatrice di un sodalizio criminoso, evenienza, questa, imprevista ed imprevedibile e quello di associazione per delinquere di stampo camorristico. Da un canto, infatti, il delitto ex art. 416 bis c.p. si commette al momento dell’affiliazione al sodalizio, dall’altro — è stato osservato — la connessione teleologica opera quando la volontà di perpetrare il reato-fine ricorre già al momento della consumazione del reato-mezzo). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 38914 del 22 maggio 1996 (Cass. pen. n. 38914/1996)

Il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. — associazione per delinquere di stampo mafioso — sussiste anche allorché scopo dell’associazione è quello di trarre vantaggi o profitti da attività, di per sé lecite (ad esempio gestione di attività economiche, acquisizione di appalti pubblici), ma purché lo stesso sia perseguito con «metodi» mafiosi (uso della forza intimidatrice dell’associazione; assoggettamento delle persone con tale timore; imposizione di atteggiamento omertoso).

I reati associativi di cui agli artt. 416 bis c.p. — associazione per delinquere di stampo mafioso — e 74, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 — associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti — avendo scopi diversi e tutelando differenti beni giuridici — il primo l’ordine pubblico sotto il particolare profilo della pericolosità sociale dell’esistenza di organizzazioni svolgenti attività, lecite ed illecite, con modalità intimidatrici derivanti dalla natura dell’associazione e cagionanti condizioni di assoggettamento ai propri scopi e di omertà sugli stessi idonei al raggiungimento di profitti o vantaggi ingiusti, l’altro la difesa della salute individuale e collettiva contro l’aggressione della droga e della sua diffusione e, solo indirettamente — come del resto ogni fattispecie penale — la salvaguardia dell’ordine pubblico in senso generico — possono concorrere tra loro. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4714 del 9 maggio 1996 (Cass. pen. n. 4714/1996)

Qualora la condotta di appartenenza ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, caratterizzata cioè dai requisiti propri della figura delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p., sia stata posta in essere fin da prima dell’entrata in vigore della L. 13 settembre 1982, n. 646, che tale ipotesi criminosa ha introdotto, si configura un unico reato associativo di natura permanente, con esclusione della continuazione fra i reati previsti dagli artt. 416 e 416 bis c.p. ed applicazione, anche per il periodo precedente all’entrata in vigore della predetta L. n. 646/1982, della pena prevista dall’art. 416 bis c.p. Cassazione penale, Sez. II, sentenza n. 2963 del 21 marzo 1996 (Cass. pen. n. 6172/1996)

La meramente «formale» appartenenza all’organismo dirigente di un’associazione per delinquere di stampo mafioso non implica concorso morale in ordine alla commissione di reato rientrante in un interesse strategico dell’organizzazione criminosa, in quanto tale necessariamente deliberato dagli organi di vertice della stessa: invero l’efficienza causale che detta qualità soggettiva comporta presuppone la sostanziale ed attuale — e non la formale ed astratta — partecipazione dell’agente al suddetto organo di vertice del sodalizio. (Affermando siffatto principio la Cassazione ha annullato un’ordinanza confermativa di misura cautelare la quale aveva ravvisato grave indizio per un omicidio eccellente — uccisione di 3 carabinieri — nella formale appartenenza dell’indagato all’organismo di vertice di associazione mafiosa, senza considerare che lo stesso era risultato privato di funzioni). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6172 del 31 gennaio 1996 (Cass. pen. n. 6172/1996)

In tema di associazione di stampo mafioso l’appartenenza alla commissione provinciale (organo al vertice del sodalizio) ben può costituire grave indizio di colpevolezza ex art. 273 c.p.p. in ordine ad un reato rientrante tra quelli cosiddetti «eccellenti»: invero tali delitti — quali quelli in danno di appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, uomini politici, giornalisti, imprenditori importanti, uomini di onore, collaboranti e familiari — per la loro importanza, per il rilievo o per i riflessi nei confronti dell’associazione sono direttamente deliberati dal suddetto consesso in veste di mandante o quantomeno hanno il suo nulla-osta sotto forma di adesione, in funzione repressiva o di prevenzione generale. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6111 del 31 gennaio 1996 (Cass. pen. n. 6111/1996)

Gli omicidi «eccellenti» ascrivibili alla associazione criminosa «Cosa nostra» come quelli commessi in danno di appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, imprenditori importanti, uomini d’onore e loro familiari, sono decisi o autorizzati dalla cosiddetta «commissione», titolare in proposito di una sorta di «competenza funzionale», della quale fanno parte i vertici del sodalizio; si tratta infatti di delitti che per la loro importanza e per il rilievo ed i riflessi nei confronti dell’associazione, sono direttamente deliberati da detto consesso — in veste di mandante, ovvero di organo che autorizza ed aderisce — in funzione repressiva o di prevenzione generale. Pertanto il giudice di merito che abbia correttamente e motivatamente dimostrato l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, coerentemente e logicamente può ritenere sussistenti i gravi indizi di colpevolezza, idonei a fondare una misura cautelare in relazione ai suindicati delitti, nei confronti di coloro che in tali propalazioni risultano indicati come appartenenti alla «commissione» di vertice dell’organizzazione mafiosa. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 6107 del 29 gennaio 1996 (Cass. pen. n. 6107/1996)

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, la condotta criminosa addebitata al singolo imputato, è quella cristallizzata nel decreto che impone il rinvio a giudizio, che ne interrompe la permanenza. Pertanto, la successiva condotta di partecipazione alla societas sceleris, integra un fatto-reato diverso, in ordine al quale è consentita l’adozione di altro provvedimento cautelare, senza che sia violato l’art. 297, comma 3, c.p.p. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 2518 del 13 dicembre 1995 (Cass. pen. n. 2518/1995)

In tema di chiamata di correo, quando le dichiarazioni del collaborante attinenti a reati-fine della massima gravità, siano accertate come non veritiere, in quanto contraddette da elementi di prova specifici, il giudice non può sottrarsi all’obbligo di riesaminare l’attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaborante in relazione alla posizione dell’indagato in ordine al reato associativo. (Fattispecie relativa a custodia cautelare per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.). Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 2276 del 7 novembre 1995 (Cass. pen. n. 2276/1995)

In materia di reati associativi ed in particolare di associazione a delinquere di stampo mafioso, la contestazione del ruolo di organizzatore con riferimento ad una famiglia mafiosa appartenente all’organizzazione «Cosa Nostra» non determina necessariamente una situazione di conflitto con altra contestazione in cui lo stesso soggetto sia, in concorso con persone diverse da quelle indicate nel primo procedimento, accusato di partecipazione all’associazione Cosa Nostra. Sebbene, infatti, numerose decisioni abbiano riconosciuto il carattere gerarchico ed unitario dell’organizzazione Cosa Nostra, ciò tuttavia da una parte non può valere indefinitivamente in una materia caratterizzata da situazioni in continua evoluzione e dall’altra non è incompatibile con l’esistenza di una «famiglia» che, pur collegata e dipendente da Cosa Nostra, costituisca un gruppo criminale autonomo finalizzato ad un’attività illecita propria. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4202 del 15 settembre 1995 (Cass. pen. n. 4202/1995)

Ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, comune o di tipo mafioso, non è sempre necessario che il vincolo associativo fra il singolo e l’organizzazione si instauri nella prospettiva di una sua futura permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell’organizzazione stessa, ben potendosi, al contrario, pensare a forme di partecipazione destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest’ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell’ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della sua rilevanza penale. E ciò senza necessità di ricorrere, in detta ipotesi, alla diversa figura giuridica del cosiddetto «concorso eventuale esterno» del singolo nella associazione per delinquere. (Nella specie trattavasi di rapporti di collaborazione instauratisi fra un esponente politico ed un’organizzazione camorristica, in cui la Corte, in base ai suddetti principi, ha riconosciuto legittimamente configurabile, a carico del primo, il reato di partecipazione alla detta associazione). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2331 del 31 maggio 1995 (Cass. pen. n. 2331/1995)

In tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l’attribuzione della qualità di «uomo d’onore» ad un soggetto, finché emerge e resta nell’ambito del procedimento in cui il collaboratore di giustizia riferisce tale qualifica, ha valore di una notitia criminis al pari di ogni altra e deve essere approfondita come tutte, ma quando viene introdotta nel processo a carico dell’accusato assume dignità di elemento di prova e deve essere valutata alla stregua dei criteri fissati dall’art. 192 c.p.p., che riconosce alle dichiarazioni rese dal coimputato o dall’imputato di reato connesso o collegato valore di prova e non di mero indizio, purché esse trovino in altri elementi o dati probatori che possono essere di qualunque natura, e che devono essere rafforzativi di tali dichiarazioni accusatorie e consentire un inequivocabile collegamento logico con i fatti del processo e la persona degli accusati. Per quanto riguarda poi la prova della appartenenza all’associazione mafiosa, la ricostruzione della rete dei rapporti personali, dei contatti, delle cointeressenze e delle frequentazioni assume rilevanza ai fini della dimostrazione della affectio societatis anche se non attinente alla condotta associativa delineata dalla norma e a maggior ragione se non ad uno dei reati scopo del sodalizio.

In tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l’aggravante prevista dall’art. 416 bis comma quarto, c.p., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi della organizzazione mafiosa denominata «Cosa nostra» può ritenersi che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5466 del 12 maggio 1995 (Cass. pen. n. 5466/1995)

In tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso l’indicazione generica di un soggetto quale «avvicinato» e l’indicazione del coinvolgimento in diversi omicidi proveniente da più collaboratori di giustizia, senza l’indicazione di nessun elemento di fatto che possa caratterizzare il concorso nel reato associativo, costituisce un indizio che, per la sua genericità, non può assumere il carattere di gravità richiesto per l’emissione di un provvedimento cautelare. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 1770 del 10 maggio 1995 (Cass. pen. n. 1770/1995)

Per quanto attiene al reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la presunzione di pericolosità sociale che, a norma dell’art. 275 comma terzo c.p.p., impone la misura della custodia cautelare in carcere, in quanto insita nella condotta partecipativa in questione, può essere vista solo a fronte di dimostrazione che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 755 del 22 aprile 1995 (Cass. pen. n. 755/1995)

Non è configurabile l’inserimento nell’associazione mafiosa (nella specie «Cosa nostra») di persone, estranee ad essa, ma stabilmente inserite nel circuito internazionale dei trafficanti di stupefacenti che, pur mantenendo una gestione autonoma dei propri affari, abbiano trovato conveniente collaborare, settorialmente e temporaneamente, con l’associazione medesima. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2167 del 3 marzo 1995 (Cass. pen. n. 2167/1995)

È configurabile il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. (Nell’affermare il principio di cui in massima, la Suprema Corte ha sottolineato la diversità di ruoli tra il partecipe all’associazione e il concorrente eventuale materiale, nel senso che il primo è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; è, insomma colui che agisce nella «fisiologia», nella vita corrente quotidiana dell’associazione, mentre il secondo è, per definizione, colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a «far parte», ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la «fisiologia» dell’associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase «patologica» che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno, insomma è il soggetto che occupa uno spazio proprio nei momenti di emergenza della vita associativa). Cassazione penale, Sez. Unite, sentenza n. 16 del 28 dicembre 1994 (Cass. pen. n. 16/1994)

Una volta dimostrata l’esistenza dell’associazione per delinquere di tipo mafioso, per la configurazione dell’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti — delitti che possono tra di loro concorrere, in quanto le relative norme incriminatrici tutelano interessi diversi — è sufficiente la prova che gli associati hanno, tra i loro scopi, anche la commissione di più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4094 del 16 dicembre 1994 (Cass. pen. n. 4094/1994)

In tema di criminalità organizzata di tipo mafioso, l’accertata esistenza di una regola interna al sodalizio, pur definita «indefettibile» e «inderogabile», in base alla quale sarebbe stato obbligatorio far conoscere ai «capi mandamento» in stato di detenzione gli argomenti sui quali avrebbe dovuto deliberare l’organo di vertice costituito dalla cosiddetta «commissione provinciale», non esime dalla necessità di verificare, ai fini della configurabilità, o meno, a carico dei suddetti capi mandamento, dei gravi indizi di colpevolezza (richiesti dall’art. 273, comma 1, c.p.p.), in ordine a singoli delitti decisi dalla medesima «commissione», se la detta regola sia stata, in concreto, osservata o no. In mancanza di siffatta verifica può quindi configurarsi vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità. (Principio affermato in relazione alla ritenuta sussistenza — da parte del giudice del riesame, la cui decisione è stata pertanto annullata con rinvio — di gravi indizi di colpevolezza a carico di un soggetto, qualificato come «capo mandamento della mafia palermitana», al quale, sulla sola base della «regola» anzidetta, si addebitava il concorso nella cosiddetta «strage di Capaci», in cui avevano trovato la morte il giudice Giovanni Falcone, una sua collega e gli uomini della scorta). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3584 del 14 settembre 1994 (Cass. pen. n. 3584/1994)

L’aggravante di cui all’art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, non può consistere nella circostanza dell’appartenenza dell’imputato ad un’associazione mafiosa; infatti sia il tenore letterale della norma — che la riferisce ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero alla finalità di agevolare le associazioni previste dal medesimo articolo — sia lo scopo perseguito dal legislatore nel prevederla (l’aggravamento delle pene per chi commette reati con «metodi» mafiosi o per agevolare tal tipo di associazioni criminose), escludono che essa sia applicabile a coloro che già fanno parte dell’associazione per delinquere di tipo mafioso e siano, pertanto, responsabili di tale reato. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3342 del 10 settembre 1994 (Cass. pen. n. 3342/1994)

Nel reato permanente (nella specie associazione per delinquere di stampo mafioso) assume rilevanza giuridica ed è dalla legge incriminata la condotta dell’intero periodo consumativo, perché essa, fino a quando non venga volontariamente interrotta o fatta cessare, determina una continuativa e perdurante violazione della norma penale nella sua manifestazione tipica, e quindi realizza in ogni momento gli elementi costitutivi del reato. (Fattispecie relativa a ritenuta legittimità della revoca di più condoni elargiti sulla base di distinti decreti presidenziali di clemenza, estendendosi la condanna sopravvenuta per un lasso di tempo ricadente nell’ambito dei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore di ciascuno dei citati provvedimenti indulgenziali). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3319 del 9 settembre 1994 (Cass. pen. n. 3319/1994)

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, l’effetto di intimidazione ed il conseguente assoggettamento che ne deriva non è escluso dalla reattività dimostrata da alcune delle vittime dei fatti estorsivi commessi dai membri della societas sceleris prestando fattiva collaborazione con la polizia e sottraendosi comunque al regime omertoso imposto in una determinata zona.

Lo schema normativo di cui all’art. 416 bis c.p. è integrato anche quando l’effetto di intimidazione ed il conseguente assoggettamento che ne deriva concerna l’attività esercitata nei confronti di bande o di isolati delinquenti rivali. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9439 del 2 settembre 1994 (Cass. pen. n. 9439/1994)

Nei reati di associazione e, segnatamente, nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso non è configurabile responsabilità a titolo di cosiddetto «concorso esterno» giacché o il presunto concorrente esterno, nel porre in essere la condotta oggettivamente vantaggiosa per il sodalizio criminoso, è animato anche dal dolo specifico proprio di chi voglia consapevolmente contribuire a realizzare i fini per i quali il detto sodalizio è stato costituito ed opera, e allora egli non potrà in alcun modo distinguersi dal partecipante a pieno titolo; ovvero, mancando in lui quel dolo specifico, la condotta favoreggiatrice o agevolatrice da lui posta in essere dovrà essere necessariamente riguardata come strutturalmente e concettualmente distinta e separata dal reato associativo. (In motivazione la Corte, a sostegno del principio dianzi enunciato, ha anche rilevato come la concettuale impossibilità di configurazione del concorso esterno nell’associazione trovi conferma, oltre che nella esistenza del reato di «assistenza agli associati» previsto dall’art. 418 c.p., anche nella previsione, in diverse disposizioni normative — quali gli artt. 7 e 8 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazione dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, l’art. 12 quinquies, del D.L. 8 giugno 1992, n. 306 convertito con modificazione dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, il comma 3 bis dell’art. 51 c.p.p. — della eventualità che dei delitti siano commessi «al fine di agevolare» l’attività delle associazioni mafiose o assimilate; previsione, questa, che risulterebbe inutile ove fosse configurabile, ai sensi dell’art. 110 c.p., un concorso esterno in dette associazioni, finalizzato appunto ad agevolare la loro attività o quella di associati, senza che per questo il concorrente entrasse a far parte delle associazioni medesime). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2699 del 30 giugno 1994 (Cass. pen. n. 2699/1994)

Nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p. l’elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori — almeno in numero di tre — del reato allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell’associazione e per «tipo mafioso» la sussistenza degli elementi elencati nel comma 3 del citato articolo, qualificanti tal genere di organizzazione criminosa, mentre quello soggettivo è rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzarne il particolare programma e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad adoperare per l’attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2348 del 27 giugno 1994 (Cass. pen. n. 2348/1994)

Posto che, in linea di fatto, risulti accertata l’esistenza, in ambito di criminalità organizzata, di un organismo collettivo di vertice nelle cui competenze rientri, fra l’altro, anche l’autorizzare (quando non sia stata da esso direttamente disposta), l’esecuzione di omicidi di particolare importanza, deve ritenersi ragionevole che nell’ambito di detta competenza sia fatta rientrare anche l’autorizzazione alla soppressione di cosiddetti «collaboratori di giustizia» e dei relativi familiari, attesa la frequenza che il fenomeno della collaborazione ha assunto negli ultimi anni ed il grave pericolo che ciò comporta per le organizzazioni criminali. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha affermato la legittimità della ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine all’omicidio di un «collaboratore» a carico di soggetto che si affermava inserito, quale «capo mandamento», nella «commissione» che sovraintenderebbe alle attività mafiose in ogni Provincia della Sicilia). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2274 del 15 giugno 1994 (Cass. pen. n. 3392/1993)

L’attività di amministratore, svolta da soggetto indagato del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, non è sufficiente di per sé a far ritenere che i beni oggetto dell’amministrazione siano stati provento di delitto ovvero finanziati con provento di delitti, ben potendo l’attività delittuosa attribuita all’indagato essere separata da quella lecitamente svolta. Ai fini della confiscabilità dei beni in questione occorre che sia positivamente dimostrata una qualsivoglia correlazione (come, ad esempio, la contitolarità delle quote societarie, la comproprietà dei beni, l’assunzione da parte di terzi delle indicate qualità per conto dell’indagato) tra i beni medesimi e l’attività illecita attribuita all’indagato del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3392 del 23 settembre 1993 (Cass. pen. n. 3392/1993)

In relazione ad addebito di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, non può escludersi il valore indiziario, eventualmente confirmatorio di altre risultanze, attribuibile ai precedenti penali e giudiziari del soggetto, ed anche ad eventuali provvedimenti di prevenzione, ma deve pur sempre trattarsi, per utile fruibilità, di precedenti o di pendenze relativi a fatti o a reati che, per titolo, per modalità di esecuzione, per l’oggetto, per concorso di persone con note particolari o per altre circostanze significative, permettono l’aggancio, secondo ragionevole probabilità, a presupposti o a finalità denotanti un retroterra di criminalità organizzata di tipo mafioso, di cui i singoli episodi possono essere riguardati come manifestazioni esteriori. Non sono sufficienti, dunque, precedenti genericamente contrari a regole di ordine pubblico, anche di natura penale. (Fattispecie relativa ad annullamento di ordinanza reiettiva di richiesta di riesame, di provvedimento applicativo di custodia cautelare in carcere). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2260 del 10 luglio 1993 (Cass. pen. n. 2260/1993)

La circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con modif. in L. 12 luglio 1991, n. 203, per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo che siano stati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo è configurabile anche nel caso di delitto rimasto allo stadio del tentativo. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2109 del 13 ottobre 1992 (Cass. pen. n. 2109/1992)

Il comune può essere considerato danneggiato dal delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, in quanto tale reato certamente cagiona un pregiudizio, di carattere patrimoniale e non, almeno all’immagine della città ed allo sviluppo del turismo e delle attività produttive di essa, con conseguente lesione di interessi propri, giuridicamente tutelati, dell’ente che della collettività danneggiata ha la rappresentanza. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 8381 del 24 luglio 1992 (Cass. pen. n. 8381/1992)

La condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire alla associazione che si sia già formata, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo, che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa. Nel caso dell’associazione di tipo mafioso, differenziandosi questa dalla comune associazione per delinquere per la sua peculiare forza di intimidazione, derivante dai metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati (ai quali si richiede di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano a trovarsi in contatto con l’associazione e che ad essa eventualmente resistano), il detto contributo può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale presti la sua disponibilità ad agire come «uomo d’onore», ai fini anzidetti. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 8064 del 16 luglio 1992 (Cass. pen. n. 8064/1992)

Il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. si distingue da quello di associazione per delinquere di cui all’art. 416 stesso codice per l’eterogeneità degli scopi che l’associazione mira a realizzare e per il ricorso alla forza di intimidazione per il conseguimento dei fini propri della medesima associazione.
 Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5426 del 9 maggio 1992 (Cass. pen. n. 5426/1992)

L’esercizio di attività di interesse della mafia non può essere considerato elemento di prova dell’appartenenza all’associazione mafiosa. (Nella specie si è anche chiarito che il solo esercizio di case da gioco, non costituendo delitto, non può integrare il programma dell’associazione criminosa e che gli eventuali delitti previsti per attuare il metodo tipico della mafia, e perciò strumentali, non possono sostituire i delitti-fine che costituiscono l’elemento tipico del programma dell’associazione criminosa). Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 4039 del 3 aprile 1992 (Cass. pen. n. 2690/1992)

La prova degli elementi caratterizzanti dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 416 bis c.p. può essere desunta anche con metodo logico induttivo in base ai rilievi (nella specie desunti dal contenuto di lettere sequestrate) che il clan presenti tutti gli indici rivelatori del fenomeno mafioso: segretezza del vincolo; rapporto di comparaggio o comparatico fra gli adepti; uso di un rituale particolare per l’iniziazione dei nuovi soci o per la promozione di quelli che già ne facciano parte; rispetto assoluto del vincolo gerarchico; uso di un linguaggio criptico; accollo delle spese di giustizia da parte della cosca; diffuso clima di omertà, conseguenza ed indice rivelatore dell’assoggettamento della popolazione alla consorteria; assassini con stile mafioso di presunti componenti della stessa. Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 2690 del 14 marzo 1992 (Cass. pen. n. 2690/1992)

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