Non è applicabile l’aggravante di cui all’art. 595, comma quarto, cod. pen. (offesa recata ad un corpo giudiziario) nel caso in cui il soggetto attivo invii a diverse autorità un esposto-denuncia contenente espressioni offensive nei confronti di un magistrato, in quanto quand’anche l’offesa recata alla reputazione di un singolo magistrato, a causa dell’adempimento delle sue funzioni, possa riflettersi sull’intero ordine giudiziario, non vi è coincidenza tra la nozione di ‘corpo giudiziariò e quella ben più ampia di ordine giudiziario, richiamata dall’art. 290 cod. pen. con riguardo al reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate; inoltre, non potendosi attribuire al singolo magistrato la veste di soggetto legittimato ad esprimere l’istanza punitiva anche a nome dell’intero ordine giudiziario, mancherebbe, comunque, la necessaria condizione di procedibilità della querela che il detto ordine, a mezzo di soggetto idoneo ad assumerne la rappresentanza avrebbe dovuto proporre. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 16284 del 26 aprile 2010 (Cass. pen. n. 16284/2010)
È manifestamente infondata — in relazione all’art. 21 della Costituzione — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 290 del c.p. sotto il profilo che il predetto articolo punendo il vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate impedirebbe la libera manifestazione del pensiero. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 10173 del 29 novembre 1979 (Cass. pen. n. 10173/1979)
L’art. 290 c.p. non è stato abrogato dall’art. 49 Cost. né è viziato da incostituzionalità per contrasto con la stessa norma, poiché il diritto di riunirsi in partiti politici per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale, deve esercitarsi nel rispetto del prestigio delle istituzioni protette dalla suddetta norma penale, prestigio che rientra tra i beni costituzionalmente garantiti, onde si pone come limite ad altri diritti protetti dalla Carta. In un regime democratico, quale è quello instaurato dalla Costituzione repubblicana, sono ammesse critiche, anche severe, alle istituzioni vigenti, onde assicurarne l’adeguamento ai mutamenti della coscienza sociale. Quando, tuttavia la manifestazione di pensiero sia diretta a negare ogni rispetto o fiducia all’istituzione, inducendo i destinatari al disprezzo o alla disobbedienza, non può parlarsi di mera critica bensì di condotta vilipendiosa. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 7386 del 10 giugno 1978 (Cass. pen. n. 7386/1978)
Il diritto di critica e di libera manifestazione del pensiero supera il suo limite giuridico costituito dal rispetto del prestigio delle istituzioni repubblicane e decanta, quindi, nell’abuso del diritto e cioè nel fatto-reato costituente il delitto di vilipendio, allorché la critica trascenda nel gratuito oltraggio, fine a sé stesso. L’elemento soggettivo del reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate, consiste nella coscienza e volontà di esprimere offensivi ed aggressivi giudizi nei confronti delle istituzioni tutelate con l’intenzione di produrre l’evento costituito dalla pubblica manifestazione di disprezzo delle stesse. (Fattispecie in cui la Cassazione ha ritenuto che l’agente non poteva non rendersi conto del carattere grossolano dell’offesa — pronunciata senza alcuna necessità e senza alcuna relazione con una obiettiva critica — e del significato vilipendioso della stessa). Integra l’elemento materiale del reato di vilipendio ogni espressione dal significato offensivo univoco esprimente disprezzo verso l’istituzione tutelata. Il corpo delle guardie di pubblica sicurezza fa parte delle Forze armate dello Stato e rientra, quindi, nel novero delle istituzioni il cui prestigio è tutelato dall’art. 290 del c.p. Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 5864 del 19 maggio 1978 (Cass. pen. n. 5864/1978)