In tema di misure interdittive, la flessibilità della disciplina relativa al termine di durata prevista dall’art. 308, comma secondo, cod. proc. pen. come novellato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, impone al giudice della cautela un onere di motivazione in merito al termine indicato nell’ordinanza, a maggior ragione là dove questo coincida con quello massimo legale. Cass. pen. sez. V 27 gennaio 2017, n. 4178
In tema di durata delle misure cautelari personali interdittive, la disposizione speciale contenuta nell’art. 308, comma secondo bis, c.p.p.secondo cui le stesse perdono efficacia decorsi sei mesi dall’inizio della loro esecuzione, si applica ai soli delitti contro la P.A. ivi indicati, e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate, in quanto il comma secondo bis non contiene alcun riferimento a queste ultime, e, quindi, per le stesse opera la regola generale prevista dal comma secondo del medesimo articolo, che fissa il più breve termine di due mesi. Cass. pen. sez. VI 11 marzo 2014, n. 11748
In tema di misure cautelari personali non sussiste l’interesse alla decisione dell’impugnazione proposta avverso il provvedimento applicativo di una misura interdittiva, quando questa abbia perso efficacia per il decorso del termine massimo (due mesi) di durata. A siffatta misura, invero, non si estende l’istituto della riparazione pecuniaria, che solo può giustificare la persistenza dell’interesse all’impugnazione quando la misura sia cessata. Cass. pen. sez. VI 29 agosto 1996, n. 1420
I termini di durata massima stabiliti dall’art. 303 c.p.p. si riferiscono alla custodia cautelare in generale, ossia ad una categoria più vasta della custodia cautelare in carcere che si pone rispetto alla prima in un rapporto di genere a specie. Conseguentemente anche agli arresti domiciliari si applicano i termini previsti da detta norma e non quelli di cui al successivo art. 308 c.p.p.atteso che il quinto comma dell’art. 284 c.p.p. equipara gli arresti domiciliari alla custodia cautelare. Cass. pen. sez. VI 25 agosto 1993, n. 1536
Il diniego del nulla osta al rilascio o alla restituzione del passaporto, in applicazione dell’art. 3, lett. c) della L. 21 novembre 1967, n. 1185 (da ritenersi tuttora operante, nonostante l’intervenuta abrogazione disposta dall’art. 215 del D.L.vo 28 luglio 1989, n. 271, nei processi che proseguono con l’osservanza delle norme del codice di rito previgente), è equiparabile ad un provvedimento di applicazione o di mantenimento della misura cautelare del divieto di espatrio prevista dall’art. 281 del codice vigente. Conseguentemente, pur in assenza di specifica previsione legislativa (e non potendosi accettare la prospettiva che, per gli imputati nei confronti dei quali sia tuttora applicabile la disciplina processuale previgente, a differenza di quelli per i quali è applicabile la disciplina attuale, il detto divieto non abbia alcun limite finale di durata), devono ritenersi operanti, anche nell’ipotesi anzidetta, i limiti di durata previsti dall’art. 308, comma 1 del vigente codice di procedura penale; limiti la cui decorrenza va fissata dalla data di entrata in vigore di detto codice quando, a tale data, anche in virtù di precedenti provvedimenti adottati nell’ambito del medesimo procedimento, il divieto di espatrio, di fatto, fosse già operante. Cass. pen. Sezioni Unite 3 agosto 1992
Il termine massimo di durata delle misure diverse dalla custodia cautelare (nella specie: divieto di dimora in un comune) deve essere rispettato per ogni fase processuale e, pertanto, il giudice che rilevi il superamento di quel termine, ha l’obbligo di procedere alla revoca ora per allora. Invero, allorché sia scaduto il termine previsto per una determinata fase processuale e la misura non sia stata revocata, diviene operante il principio dell’automaticità della revoca stessa, che impone al giudice l’adozione del provvedimento dovuto, anche se frattanto il titolo per il mantenimento della misura sia divenuto legittimo, per essere il procedimento passato alla fase successiva, in cui opera un altro termine. (Applicazione in tema di misura applicata prima dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p. e caducata per decorso del termine ai sensi dell’art. 251 cpv. disp. att. nuovo c.p.p.). Cass. pen. sez. I 20 dicembre 1990
Ai fini della caducazione automatica delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare, la loro durata va computata secondo il medesimo criterio di segmentazione processuale che presiede al calcolo della custodia cautelare, per ciascuna fase e grado del giudizio, con la conseguenza che il termine massimo di durata di esse non può eccedere, per ciascuna frazione processuale indicata nell’art. 303 c.p.p.i due anni e, complessivamente, gli otto anni. Cass. pen. sez. I 17 marzo 1990