La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.
La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.
La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.
In tema di concorrenza sleale, il carattere essenziale e tipico dell’azione inibitoria ex art. 2599 cod. civ. è quello di apprestare una tutela giurisdizionale preventiva rivolta verso il futuro. Fine consegue che la pronuncia di inibitoria implica non solo l’ordine di cessare una attività in atto, ma anche quello di astenersi in futuro dal compiere una certa attività, pur se nel frattempo cessata. Cass. civ. sez. I, 13 marzo 2013, n. 6226
In tema di concorrenza sleale, la funzione dell’azione inibitoria di cui all’art. 2599 c.c. mette capo ad una pronuncia che, sebbene non suscettibile di attuazione diretta nelle forme dell’esecuzione forzata, può costituire oggetto di giudicato, consentendo di «acquisire » ad un eventuale secondo giudizio di cognizione l’accertamento, compiuto nel primo giudizio, dell’illiceità dell’atto ex art. 2598 c.c. ; i principi sui limiti oggettivi di tale giudicato sono rispettati se fra i due comportamenti (quello considerato nella pronuncia inibitoria e quello successivamente realizzato ) sussista un’identità di genere e specie, all’interno della quale le eventuali variazioni meramente estrinseche e non caratterizzanti non possono fare escludere l’operatività della pronuncia medesima ; fine consegue che se oggetto della seconda azione non è l’accertamento dell’adempimento del giudicato formatosi sulla prima pronuncia inibitoria, bensì la verifica di nuovi comportamenti pubblicitari in funzione anticoncorrenziale, la predetta identità non sussiste, nè dunque può essere invocato alcun giudicato. (Omissis ). Cass. civ. sez. I, 21 maggio 2008, n. 13067
Il titolare d’impianto di trasmissioni televisive via etere in ambito locale, il quale, senza autorizzazione dell’amministrazione, utilizzi di fatto e con preuso un determinato canale o banda di frequenza, è portatore, nel rapporto con altro imprenditore privato che interferisca, sempre privo di autorizzazione, su detto canale o banda, di posizioni soggettive tutelabili non solo in sede possessoria, ma anche in sede petitoria, e, quindi, nel concorso dei requisiti fissati dall’art. 2598 c.c. può denunciare l’indicata interferenza come attività di concorrenza sleale, al fine della cessazione dell’attività stessa e dell’eventuale risarcimento del danno. Cass. civ. sez. I, 2 aprile 1987, n. 3179
In relazione a comportamenti antigiuridici atti a protrarsi nel tempo, l’esperibilità dell’azione inibitoria, rivolta cioè a conseguire una pronuncia del giudice che precluda la prosecuzione dei comportamenti medesimi, non configura espressione di un principio generale dell’ordinamento, e può essere riconosciuta soltanto nella materia in cui è specificamente contemplata dalla legge. Peraltro, nell’ambito di tali materie, deve ammettersi la possibilità di una applicazione analogica della norma che preveda l’inibitoria (art. 12 secondo comma disp. prel. c.c.), con riguardo a casi simili, per i quali non si giusticherebbe una deteriore tutela del soggetto a fronte del probabile ripetersi del fatto dannoso. Pertanto, nella ipotesi di comportamento lesivo della sfera patrimoniale dell’imprenditore, il quale, pur difettando dei requisiti per essere qualificato come atto di concorrenza sleale, integri un illecito aquiliano, deve ritenersi esperibile l’indicata azione, facendo applicazione per analogia dell’art. 2599 c.c. in tema di concorrenza sleale. Cass. civ. sez. I, 25 luglio 1986, n. 4755
L’inibizione della continuazione di atti di concorrenza sleale, prevista dall’art. 2599 c.c. non presuppone l’esistenza di danni attuali, ma richiede soltanto che l’attività del concorrente sia potenzialmente idonea a cagionarne. Cass. civ. sez. III, 23 aprile 1980, n. 2669
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