L’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall’impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile. L’inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire implica che questi ultimi sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o all’acquisto di beni. Cass. civ. sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560
Il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risulta dall’incipit dell’art. 230 bis c.c. mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto – parente entro il terzo grado o affine entro il secondo – che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area limitata quella del lavoro familiare gratuito. Di conseguenza, ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, il giudice di merito dovrà valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, escludendo comunque la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Cass. civ. sez. lav. 18 ottobre 2005, n. 20157
Ai fini del riconoscimento dell’istituto – residuale – della impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi). Cass. civ. sez. lav. 18 aprile 2002, n. 5603
La configurazione dell’impresa familiare – con la correlativa competenza del giudice del lavoro –, pur essendo “residuale” (nel senso che ricorre quando le parti non abbiano diversamente qualificato, neanche per facta concludentia, il loro rapporto), ha carattere imperativo e non può eludersene l’applicazione, senza che sia necessaria una formale dichiarazione negoziale al riguardo, quando difetti una diversa pattuizione regolatrice del rapporto. Cass. civ. sez. I, 23 febbraio 1995, n. 2060
L’istituto dell’impresa familiare ha carattere residuale, in quanto appresta una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari, ricondotti in passato ad una causa affectionis vel benevolentiae, o ad un contratto innominato di lavoro gratuito, con la conseguenza che l’istituto, e la correlativa competenza del giudice del lavoro, non è configurabile quando i rapporti intervenuti tra i componenti della famiglia, estrinsecantesi in un’attività economica produttiva, trovino il loro fondamento in un diverso rapporto contrattuale, quale quello di società. Cass. civ. sez. I, 29 novembre 1993, n. 11786
Nell’impresa familiare le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi sono adottate da tutti i familiari che partecipano all’impresa stessa, sicché da tanto è dato desumere che vi è una partecipazione paritetica di tutti i suoi componenti all’organizzazione ed all’esercizio della stessa. Cass. civ. sez. II, 16 ottobre 1999, n. 11689
Il potere di gestione ordinaria dell’impresa familiare spetta ex art. 230 bis esclusivamente al titolare della stessa e l’eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l’invalidità degli atti posti in essere ma unicamente l’obbligo di risarcire i danni provocati. Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 1995, n. 10412
Ai sensi dell’art. 230 bis c.c. lo svolgimento da parte del coniuge del titolare di impresa familiare del lavoro casalingo non è sufficiente, di per sé, a giustificare la partecipazione del coniuge stesso all’impresa familiare, in quanto ai fini del riconoscimento dell’istituto residuale della impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di una attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno ), sia dell’accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi ). (omissis). Cass. civ. sez. lav. 16 dicembre 2005, n. 27839
La continuità dell’apporto richiesto dall’art. 230 bis c.c. per la configurabilità della partecipazione all’impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell’apporto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito nella parte in cui essa aveva ritenuto accertata la sussistenza di un apporto continuativo idoneo a configurare la partecipazione all’impresa familiare alla stregua della redazione giornaliera della contabilità, della tenuta dei rapporti con i fornitori, dell’aiuto, anche se non continuativo, all’esercizio dell’attività aziendale ). Cass. civ. sez. lav. 23 settembre 2002, n. 13849
Nell’ipotesi in cui una farmacia sia gestita in regime di impresa familiare l’attività di studio del familiare (nella specie: coniuge) al fine di conseguire il diploma di laurea in farmacia integra il requisito della partecipazione all’impresa ai fini dell’art. 230 bis c.c. in quanto soltanto con il conseguimento della qualifica professionale di farmacista è possibile vendere i farmaci, sicché l’attività in argomento costituisce un investimento nella formazione professionale economicamente valutabile in quanto può escludere la necessità dell’oneroso ricorso dell’impresa familiare alla prestazione di dipendenti farmacisti. Né assume rilievo in contrario la circostanza che di fatto l’impresa non si sia avvantaggiata del suddetto investimento in quanto una tale evenienza, rientrante nel normale rischio di impresa, non esclude che esso sia stato finalizzato all’interesse aziendale. Cass. civ. sez. lav. 27 gennaio 2000, n. 901
L’art. 230 bis c.c. riconosce il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa al familiare che presti in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare. Consegue, che quando sia prevista una partecipazione agli utili dell’impresa per l’attività familiare, come contemplato dall’art. 230 bis c.c. deve ritenersi che tale attività sia considerata dalle parti non come semplice esplicazione dei doveri istituzionalmente connessi col matrimonio, ma con assunzione in via esclusiva e preponderante, dei compiti familiari, normalmente divisi col coniuge, il quale, sollevato da essi, è messo in condizioni di dedicarsi totalmente all’accrescimento della produttività d’impresa. Cass. civ. sez. lav. 3 novembre 1998, n. 11007
La mera collaborazione familiare tra coniugi, di per sè insufficiente ove coincida con l’attività oggetto di uno degli obblighi e doveri di cui agli artt. 143 e 147 c.c. ad integrare il requisito della partecipazione all’impresa familiare disciplinata dall’art. 230 bis c.c. può valere ad individuare nel soggetto la qualità di partecipe alla detta impresa qualora risulti strettamente correlata e finalizzata alla gestione della stessa, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell’ambito del consorzio domestico, in vista dell’attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni o servizi proprio dell’impresa familiare. Infatti a norma del menzionato art. 230 bis l’attività di lavoro prestata in modo continuativo nell’impresa familiare conferisce titolo per partecipare, in proporzione alla quantità e qualità della prestazione resa, agli utili e agli incrementi aziendali, sicché tale attività non può che esser determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dall’apporto del partecipante, restando peraltro escluso che nel caso di impresa familiare costituita in base a specifici accordi anziché per facta concludentia sorga a favore delle parti stipulanti una presunzione assoluta di fattiva collaborazione nell’impresa, insuscettibile di prova contraria. Cass. civ. sez. lav. 19 febbraio 1997, n. 1525
Ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ. la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa -, se, in mancanza di accordi convenzionali, non puridursi, nel caso del coniuge, all’adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l’attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione dei fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi.Infatti, se è vero che l’art. 230 bis cod. civ. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell’attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante. Cass. civ. Sezioni Unite, 4 gennaio 1995, n. 89
In tema di impresa familiare, il partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili ha l’onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali; sul familiare esercente l’impresa grava invece l’onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti “pro quota” a ciascun partecipante. Cass. civ. sez. lav. 31 ottobre 2018, n. 27966
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Cass. civ. sez. lav. 16 marzo 2016, n. 5224
La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis c.c. va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Cass. civ. sez. lav. 16 marzo 2016, n. 5224
Ai sensi dell’art. 230 bis c.c. gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (nella specie, la S.C. ha rilevato che la sentenza di merito aveva accertato, con adeguata istruttoria, che il mantenimento del partecipante e dell’intera famiglia era assicurato con redditi diversi da quelli provenienti dall’impresa familiare di rivendita di tabacchi e, in ispecie, dall’attività di idraulico svolta continuativamente e dai proventi di due immobili in comproprietà ). Cass. civ. sez. lav. 23 giugno 2008, n. 17057
Il diritto del partecipante all’impresa familiare di percepire la quota degli utili, nella misura pattuita per la distribuzione periodica, permane finchè sussiste la predetta impresa, la cui cessazione può derivare anche da una manifestazione di volontà contraria a quella che ne determinala costituzione. Cass. civ. sez. lav. 23 dicembre 2003, n. 19683
Nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione. Cass. civ. sez. lav. 20 giugno 2003, n. 9897
In tema di impresa familiare (art. 230 bis c.c. ), la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 576 del 1975 (integrativo dell’art. 5 del D.P.R. n. 597 del 1973 ) e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali ) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare ), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ) agli utili dell’impresa. Cass. civ. sez. lav. 17 giugno 2003, n. 9683
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230 bis c.c. è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 c.p.c. in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c. coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante. Cass. civ. sez. lav. 22 ottobre 1999, n. 11921
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis c.c. va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (?beni acquistati? con gli utili, ?incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento?) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare. Cass. civ. sez. lav. 9 ottobre 1999, n. 11332
Nell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione. Cass. civ. sez. lav. 6 marzo 1999, n. 1917
In tema di impresa familiare, è sufficiente, ai fini dell’operatività della prelazione di cui all’art. 230-bis, comma 5, c.c. una volta accertata la partecipazione all’attività, che vi sia stato un trasferimento d’azienda affinché il familiare partecipe possa essere messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto, risultando del tutto ininfluente che la cessione avvenga mediante conferimento in una società di persone, di cui il titolare dell’azienda stessa conservi un ruolo dominante quale socio illimitatamente responsabile ed amministratore, poiché la norma tutela il familiare estromesso e non colui che sia stato incluso nella vicenda traslativa, senza che rilevi il requisito dell’estraneità di cui all’art. 732 c.c. norma richiamata dall’art. 230-bis solo “in quanto compatibile”. Cass. civ. sez. lav. 21 aprile 2017, n. 10147
In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230 bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c. al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto. Cass. civ. sez. lav. 6 settembre 2016, n. 17639
In tema di lavoro familiare, l’art. 230 bis c.c. che richiama l’art. 732 c.c. «nei limiti in cui è compatibile » va interpretato coerentemente con le finalità dell’istituto, che è quella di predisporre una più intensa tutela del lavoro familiare ; ne consegue che la prelazione prevista dalla norma in favore del familiare, nel caso di alienazione dell’impresa familiare, è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente (fino al momento in cui sia liquidata la quota del partecipe ), senza che all’applicazione di tale istituto possa essere d’ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell’impresa familiare, avendo il legislatore inteso tutelare il lavoro piche la circolazione dei beni. Cass. civ. sez. lav. 19 novembre 2008, n. 27475
L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa non solo l’assenza nell’art. 230 bis cod. civ. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione, patrimoniale, ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, ponendosi altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Tale soluzione, inoltre, è coerente con una interpretazione teleologica della norma – introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali (art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151) – che, come si evince dall’”incipit” dell’art. 230 bis cod. civ. (“salvo sia configurabile un diverso rapporto”), prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile. Cass. civ. Sezioni Unite, 6 novembre 2014, n. 23676
A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a pipersone (artt. 2251 e ss. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 2284 c.c. che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l’impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell’asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell’impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull’azienda. Cass. civ. sez. lav. 15 aprile 2004, n. 7223
Il tema di impresa familiare, non è applicabile la disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale gestita da una società in nome collettivo di cui sia compartecipe il congiunto (o l’affine ) del lavoratore, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, non essendo configurabile nell’ambito della medesima compagine la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l’altro, fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità. Cass. civ. sez. lav. 6 agosto 2003, n. 11881
A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sè societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’affectio societatis, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230 bis, c.c. di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione – ad esempio – in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario. Cass. civ. sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520