Nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo, poiché l’ampiezza del relativo vincolo deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non fine compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. La valutazione circa la compatibilità del suddetto vincolo concernente l’attività con la necessità di non compromettere la possibilità di assicurarsi il riferito guadagno come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato. Cass. civ. sez. lav. 4 aprile 2006, n. 7835
La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Infatti la limitazione allo svolgimento della attività lavorativa deve essere contenuta – in base a quanto previsto dall’art. 1255 c.c. interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 della Carta costituzionale – entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo e compensate da un corrispettivo di natura altamente retributiva, con la conseguenza che è impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita. Cass. civ. sez. lav. 13 giugno 2003, n. 9491
Il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 c.c. può riguardare non soltanto i dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, ma anche tutti coloro che, pur essendo impiegati in compiti non intellettuali (sinanche di natura esecutiva), tuttavia operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio – in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale – della utilizzazione (sia in corso di rapporto che successivamente) da parte dei lavoratori medesimi della lunga esperienza e delle numerose conoscenze acquisite alle sue dipendenze. (Fattispecie relativa ad un commesso addetto alla vendita di capi di abbigliamento). Cass. civ. sez. lav. 19 aprile 2002, n. 5691
La clausola del contratto collettivo che, secondo l’accertamento e l’interpretazione insindacabilmente compiuti dai giudici del merito, in tema di trattamento di quiescenza e previdenza, in corrispettivo della pensione integrativa con esso istituita, comprensiva del compenso di cui all’art. 2125 c.c. e, nei limiti temporali ivi previsti, impone al dipendente di ente bancario cessato dal servizio di non esercitare attività in concorrenza con quella dell’ente o contraria agli interessi del medesimo, e consente a quest’ultimo, in caso di violazione del divieto e per la durata di essa, di non corrispondere detta pensione, salvi i maggiori diritti, non configura il patto di non concorrenza previsto e disciplinato dall’art. 2125 c.c. e non è quindi assoggettata ai requisiti di validità ivi indicati. Cass. civ. Sezioni Unite, 1 febbraio 1997