La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali [o delle norme corporative]. (1)
La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali [o delle norme corporative]. (1)
La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali [o delle norme corporative]. (1)
(1) espressione «o delle norme corporative»abrogata dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721 e dal D.L.vo Lgt. 23 novembre 1944, n. 369.
Il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità. (Nella specie si è escluso che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante i quali, nel corso di un viaggio, l’autista di un autotreno, sprovvisto di cabina, lascia la guida al compagno, trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensì di semplice temporanea inattività). Cass. civ. sez. lav. 2 marzo 2009, n. 5023
Il principio di ragionevolezza, in base al quale l’orario di lavoro deve comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità – che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua – impedisce una limitazione dell’orario in via generale da parte del legislatore. La valutazione in ordine al superamento, in concreto, del suddetto limite, spetta al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione logica e sufficiente. (Nella specie, la S.C. nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto in contrasto con il principio di ragionevolezza la prestazione di un autista di autotreni, impegnato, con brevi intervalli di attesa tra un’ attività e l’altra, nel trasporto e nel carico e scarico della merce, con un orario di lavoro di 16 ore al giorno per quattro giorni alla settimana). Cass. civ. sez. lav. 14 agosto 2008, n. 21695
In mancanza di una previsione contrattuale che obblighi il lavoratore alla prestazione lavorativa di sabato, il comportamento, anche se protratto per lungo tempo, di mancata opposizione alla prestazione dell’attività lavorativa nella giornata di sabato (una volta ogni tre settimane) è espressione di un consenso ad accettare di svolgere la prestazione lavorativa non dovuta, manifestato di volta in volta, anche tacitamente, in occasione delle singole giornate lavorate, ma da ciò non può desumersi la volontà del lavoratore di obbligarsi anche per il futuro a svolgere tale prestazione. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 16 maggio 2006, n. 11432
L’elencazione dei tempi che non possono essere considerati di lavoro, contenuta nell’art. 5 R.D. n. 1955 del 1923, non è esaustiva, essendo la stessa limitata ai casi più frequenti, sicché dalla mancata indicazione della ipotesi del pernottamento sul veicolo durante i viaggi compiuti per conto e nell’interesse del datore di lavoro, e in genere dall’attività di sorveglianza, non può desumersi che il tempo così trascorso abbia natura di lavoro. Cass. civ. sez. lav. 9 aprile 2003, n. 5544
Salvo diverse previsioni contrattuali, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non può considerarsi come impiegato nell’esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo, e non si somma quindi al normale orario di lavoro, così da essere qualificato come lavoro straordinario, tanto piche l’indennità di trasferta è in parte diretta a compensare il disagio psicofisico e materiale dato dalla faticosità degli spostamenti suindicati. Cass. civ. sez. lav. 10 aprile 2001, n. 5359
Dalla lettura logico-sistemica della legislazione in materia di orario di lavoro si desume che, come regola generale, la settimana di calendario costituisce il parametro di riferimento dell’orario massimo normale sia in relazione alla singola giornata lavorativa sia in relazione all’intera settimana lavorativa (rispettivamente corrispondenti ad 8 e 48 ore di lavoro effettivo ex art. 1 R.D.L. n. 692 del 1923, convertito nella legge n. 473 del 1925, e quest’ultimo ridotto a 40 ore di lavoro effettivo dall’art. 14 della legge n. 196 del 1997). Peraltro, è consentito alla contrattazione collettiva sia derogare in melius ai suddetti limiti, sia parametrare l’orario così individuato nell’ambito di una settimana non coincidente con quella di calendario ma invece con quella corrente da un riposo ad un altro ovvero anche nell’ambito di un periodo più lungo (facoltà che è stata legislativamente riconosciuta in favore dell’autonomia collettiva solo con l’art. 14 della legge n. 196 del 1997 cit.). Tuttavia, la legittimità di tale contrattazione collettiva è subordinata ad alcune condizioni. Infatti, per la disciplina antecedente alla legge n. 196 del 1997, tale legittimità presupponeva il rispetto continuo e costante – e cioè in riferimento ad ogni singola giornata di esecuzione dell’attività lavorativa e ad ogni periodo di sette giorni lavorativi – dei limiti temporali (di 8 ore giornaliere e 48 settimanali) fissati dalla legislazione all’epoca vigente a garanzia della salute del lavoratore; in base all’art. 13 della legge n. 196 del 1997 cit. invece, l’ammissibilità della fissazione convenzionale dell’orario normale settimanale in termini ridotti rispetto al limite legale delle 40 ore (limite, la cui osservanza è consentita con il criterio della cosiddetta media multiperiodale e, cioè, in termini piessibili) è condizionata al rispetto del limite delle 8 ore giornaliere in quanto, ancorché la nuova normativa non contenga alcuna disposizione in merito all’orario normale massimo giornaliero, è da escludere che la contrattazione collettiva possa derogare al suddetto limite, in considerazione sia della rilevanza costituzionale della durata massima della giornata lavorativa sia dell’autonomia – e non alternatività – dell’orario giornaliero rispetto all’orario settimanale. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 4 dicembre 2000, n. 15419
La ratio che ispira la previsione legale dell’obbligo di esporre nei locali dell’azienda l’orario di lavoro (art. 12, R.D. 12 settembre 1923, n. 1955) è quella di assicurare che i lavoratori siano posti nella condizione di conoscere le disposizioni adottate dal datore di lavoro in materia di orario delle prestazioni lavorative nel rispetto delle prescrizioni normative e contrattuali, derivandone che, una volta che tale esigenza sia rimasta soddisfatta, non potendo sorgere incertezze circa l’orario da osservarsi, la mancanza, della forma scritta non può assumere rilievo alcuno ai fini della validità delle disposizioni impartite. Cass. civ. sez. lav. 1° agosto 2000, n. 10069
Poiché la legge definisce soltanto la durata massima della prestazione lavorativa, le parti del contratto di lavoro possono prevedere una convenzione caratterizzate da elasticità dell’orario, in ragione delle mutevoli esigenze del datore di lavoro, subordinatamente ad un minimo di programmazione o preavvertimento, senza che sia necessaria la forma scritta, che è richiesta ad substantiam solo per la configurabilità del contratto part-time (art. 5, L. n. 863 del 1984); anche in tal caso, peraltro, il datore di lavoro non può variare l’orario lavorativo a suo arbitrio senza alcuna preventiva concertazione ed è obbligato, pertanto, a corrispondere al dipendente la relativa retribuzione per i periodi di tempo in cui questi è rimasto a disposizione. Cass. civ. sez. lav. 7 luglio 2000, n. 9134
Il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa. Cass. civ. sez. lav. 23 febbraio 2000, n. 2033
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