L’art. 2103 c.c. sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra l’altro, interventi di ristrutturazione aziendale, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile. Cass. civ. sez. L, 14 novembre 2019, n. 29626
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, l’attività prevalente ed assorbente svolta dal lavoratore deve rientrare tra quelle previste dalla categoria di appartenenza, ma il lavoratore, per motivate e contingenti esigenze aziendali, può essere adibito anche a compiti inferiori purché marginali rispetto a quelli propri del suo livello. Cass. civ. sez. L, 29 marzo 2019, n. 891
L’esercizio dello “ius variandi” datoriale, vigente l’art. 2103 c.c. nella formulazione anteriore alla novella operata con il d.l.vo n. 81 del 2015, trova il suo limite nella salvaguardia del livello professionale raggiunto dal prestatore, sicché – pur in presenza dell’accorpamento convenzionale delle mansioni in una medesima qualifica l’equivalenza deve essere valutata in concreto dal giudice di merito, al fine di verificare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale acquisita dal dipendente. Cass. civ. sez. lav. 6 novembre 2018, n. 28240
In tema di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, l’equivalenza alle “ultime effettivamente svolte”, di cui all’art. 2103 c.c. costituisce un parametro per valutare quali siano stati i compiti precedentemente adempiuti con sufficiente stabilità dal lavoratore, così da consentire un confronto con gli spostamenti disposti dal datore di lavoro, ma non costituisce titolo per una sostanziale inamovibilità di settore qualora le mansioni di nuova assegnazione siano coerenti con il bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 6 maggio 2015, n. 9119
In tema di esercizio dello “ius variandi”, il giudice di merito deve accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e fine garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, senza che assuma rilievo l’equivalenza formale fra le vecchie e le nuove mansioni. (Omissis). Cass. civ. sez. L, 3 febbraio 2015, n. 1916
In forza dell’art. 2103 cod. civ. il prestatore di lavoro (nella specie, dirigente responsabile del servizio di “call center”) deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, non rilevando in alcun modo che l’assegnazione a mansioni inferiori (nella specie, al servizio di cosiddetto “telesportello”, destinato a raccogliere informazioni e reclami degli utenti) sia temporanea, o effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva. Cass. civ. sez. lav. 21 agosto 2014, n. 18121
Il divieto per il datore di lavoro di variazione in “pejus” ex art. 2103 cod. civ. opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il trasferimento di un direttore delle Poste Italiane in un ufficio di minore importanza, per qualità e volume dell’attività svolta, rispetto all’ufficio di provenienza, fosse lesivo del principio della equivalenza delle funzioni, a nulla rilevando, in senso contrario, che la retribuzione e la qualifica fossero rimaste invariate). Cass. civ. sez. lav. 5 agosto 2014, n. 17624
Allorché si tratti di individuare, ai fini dell’accertamento di un eventuale demansionamento, la pertinenza delle mansioni svolte in concreto, rispetto ad una determinata posizione funzionale, il procedimento logico-giuridico non può prescindere da tre fasi successive, costituite dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, nonché dal raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda. Cass. civ. sez. L, 26 marzo 2014, n. 7123
Il rifiuto preventivo espresso dal lavoratore contro un eventuale trasferimento, pur in presenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive, che fine avrebbero giustificato l’adozione, non autorizza il datore di lavoro a privare il lavoratore medesimo delle sue mansioni, atteso che il demansionamento costituisce “extrema ratio”, lecita solo nel caso in cui, disposto il trasferimento, il lavoratore l’abbia ingiustificatamente rifiutato e, quindi, intimato il licenziamento (anche in via disciplinare) a fronte della mancata accettazione della misura, il prestatore abbia accettato il mutamento peggiorativo delle mansioni per evitare la cessazione del rapporto di lavoro. Cass. civ. sez. lav. 12 aprile 2012, n. 5780
In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello “ius variandi” introdotte dall’art. 2103 c.c. nel testo di cui all’art. 13 della legge n. 300 del 1970, sono dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui – secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato – il mutamento di mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un’esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l’abbia invece subita. Cass. civ. sez. lav. 8 agosto 2011, n. 17095
In tema di divieto di demansionamento, il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società appartenenti a un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell’autonomia delle singole società, dotate di personalità giuridica distinta e alle quali, quindi, continuano a far capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le diverse imprese. Pertanto, dall’esclusione della configurabilità di un unico centro d’imputazione di rapporti diverso dalle singole società, consegue che, nel caso di passaggio del lavoratore da una società ad altra del gruppo, non è appliccabile la garanzia prevista dall’art. 2103 c.c. ai sensi del quale il divieto di demansionamento opera esclusivamente all’interno di un rapporto di lavoro con un unico datore. Cass. civ. sez. lav. 24 settembre 2010, n. 20231
In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l’equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell’art. 2103 c.c. ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Cass. civ. sez. lav. 26 gennaio 2010, n. 1575
Il principio di tutela della professionalità acquisita, che resta impregiudicato pur in presenza di un accorpamento convenzionale delle mansioni, precludendo la disciplina legale di carattere inderogabile dell’art. 2103, primo comma, c.c. la previsione di una indiscriminata fungibilità delle mansioni per il solo fatto di tale accorpamento, impone al giudice di merito di accertare, alla stregua di tutte le circostanze ritualmente allegate e acquisite al processo, le esigenze di salvaguardia della professionalità raggiunta prospettate dal lavoratore, sulla base dei percorsi di accrescimento professionale dallo stesso evidenziati e, segnatamente, di individuare, alla luce della sua “storia professionale”, quali fossero le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’art. 2103 c.c. indipendentemente dall’obbligo assunto dal dipendente, al momento dell’avviamento al lavoro, di svolgere tutte le mansioni inerenti alla qualifica di inquadramento. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 10 dicembre 2009, n. 25897
Gli elementi della continuazione e del coordinamento, che caratterizzano il rapporto di lavoro cosiddetto parasubordinato (art. 409, primo comma, n. 3, c.p.c.) quale rapporto di durata, comportano uno svolgimento di prestazioni lavorative idoneo ad incrementare scienza ed esperienza del prestatore (ossia le sue capacità professionali), con la conseguenza che anche questi – al pari del lavoratore subordinato, in forza della disciplina, specifica del regime di subordinazione, di cui all’art. 2103 c.c. – può vantare, nei confronti del committente ed in base al titolo costitutivo del rapporto (legge, atto amministrativo o contratto), un diritto soggettivo alla effettiva esecuzione delle prestazioni, nonché, in caso di lesione, il diritto al risarcimento del danno da perdita o da mancato incremento di capacità di lavoro oppure da deterioramento dell’immagine professionale. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 17 settembre 2008, n. 23744
Agli effetti della tutela apprestata dall’art. 2103 c.c. che attribuisce al lavoratore utilizzato per un certo tempo dal datore di lavoro in compiti diversi e maggiormente qualificanti rispetto a quelli propri della categoria di appartenenza il diritto non solo al trattamento economico previsto per l’attività in concreto svolta, ma anche all’assegnazione definitiva a tale attività ed alla relativa qualifica, in mancanza di un principio generale di parità di trattamento in materia di lavoro, non assume alcun rilievo giuridico l’eventuale identità fra le mansioni svolte e quelle proprie di altri lavoratori della stessa azienda che abbiano già ottenuto la stessa qualifica, ma solo la riconducibilità delle mansioni svolte alla qualifica invocata. Cass. civ. sez. lav. 8 novembre 2007, n. 23273
In caso di ristrutturazioni o riconversioni produttive, si esprime con la massima ampiezza la libertà dell’imprenditore, tutelata dall’art. 41 Cost. che garantisce allo stesso, tra l’altro, un’autonoma scelta sulla collocazione territoriale delle strutture produttive della sua impresa, nonché sulla distribuzione del personale tra dette strutture, scelte che egli può liberamente effettuare senza subire alcun sindacato sulla loro «razionalità» e «adeguatezza economica». Cass. civ. sez. lav. 18 aprile 2007, n. 9263
La disposizione dell’art. 2103 c.c. sulla regolamentazione delle mansioni del lavoratore e sul divieto del declassamento di dette mansioni va interpretata – stante le statuizioni di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 25033 del 2006, ed in coerenza con la ratio sottesa ai numerosi interventi in materia del legislatore – alla stregua della regola del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l’esternalizzazione dei servizi o la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato codicistico, se essa rappresenti l’unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (principio affermato in fattispecie concernente dipendente postale). Cass. civ. sez. lav. 5 aprile 2007, n. 8596
La garanzia prevista dall’art. 2103 c.c. opera anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo l’indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell’accorpamento convenzionale; conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni – che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex art. 96 disp.att. c.c. nell’esercizio del suo potere conformativo delle iniziali mansioni alla qualifica –, non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorchè rientranti nella medesima qualifica contrattuale. (Omissis). Cass. civ. Sezioni Unite, 24 novembre 2006, n. 25033
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente. (Omissis). Cass. civ. Sezioni Unite, 24 novembre 2006, n. 25033
In tema di mansioni diverse da quelle dell’assunzione, la equivalenza fra le nuove mansioni e quelle precedenti – che legittima lo jus variandi del datore di lavoro, a norma della disciplina legale in materia (art. 2103 c.c. come sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300) – deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto. Cass. civ. sez. lav. 12 aprile 2005, n. 7453
L’esercizio dello ius variandi rientra nella discrezionalità del datore di lavoro, che non è di per sé sottratta – in linea generale – all’osservanza dei doveri di correttezza e buona fede e, per il caso di violazione, al rimedio del risarcimento dei danni. Tuttavia, le clausole generali di correttezza e buona fede non introducono nei rapporti giuridici diritti e obblighi diversi da quelli legislativamente o contrattualmente previsti, ma sono destinate ad operare all’interno dei rapporti medesimi, in funzione integrativa di altre fonti; esse, pertanto, rilevano soltanto come modalità di comportamento delle parti, al fine della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritto o di obbligo e, in quanto attengono alle modalità comportamentali ed esecutive del contratto, quale esso è stato stipulato dalle parti, si pongono nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente assunta o legislativamente imposta, così concorrendo alla relativa conformazione in senso (eventualmente) ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente e consentendo al giudice di verificarne la coerenza con i valori espressi dal rapporto, garantendo in tal modo l’apertura del sistema giuridico a un rapporto dialettico costante con il contesto socio-economico e culturale di riferimento. Fine consegue che dalle clausole generali di correttezza e buona fede non può derivare per il datore di lavoro l’obbligo, non previsto dalla legge o da altra fonte, di giustificare e motivare il concreto esercizio dello ius variandi, ma se tale esercizio dà luogo a una discriminazione o a una vessazione o comunque ad un arbitrio nei confronti del lavoratore, egli è tenuto a risarcire i danni che fine derivano. Cass. civ. sez. lav. 10 maggio 2002, n. 6763
L’art. 2103 c.c. pone il divieto al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni non equivalenti, in quanto proprie di un livello di inquadramento inferiore, rispetto alle ultime effettivamente svolte, ma solo equivalenti o superiori. Peraltro, non rientra in tale divieto la successiva equiparazione, in termini di inquadramento, di mansioni professionalmente inferiori a mansioni superiori. Cass. civ. sez. lav. 19 aprile 2001, n. 5761
La contrattazione collettiva, muovendosi nell’ambito, e nel rispetto, della prescrizione posta dal primo comma dell’art. 2103 c.c. – che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale ed essendo riconducibili alla matrice comune che connota la declaratoria contrattuale – è autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra le mansioni per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza incorrere nella sanzione della nullità comminata dal secondo comma del citato art. 2103 c.c. Cass. civ. sez. lav. 15 marzo 2007, n. 6043
Ai fini dell’applicazione dell’art. 2103 c.c. spetta all’autonomia collettiva fissare la gerarchia delle mansioni e delle relative qualifiche allo scopo di stabilire la «categoria superiore» e le «mansioni superiori»; peraltro, per appurare l’effettiva unicità di inquadramento nell’ambito di una determinata area lavorativa, in base alla contrattazione collettiva, non sono sufficienti mere affermazioni di principio, anche se più volte ribadite, qualora la stessa contrattazione stabilisca, nell’ambito della medesima area e per mansioni diverse, retribuzioni differenti, identificando in tal modo mansioni e qualifiche differenziate, nell’ambito delle quali operano i principi affermati dal suddetto art. 2103 c.c. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 9 novembre 2000, n. 14546
In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l’inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Fine consegue che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2103 cod. civ. e dell’art. 52, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico. (Omissis). Cass. civ. sez. L, 30 marzo 2015, n. 6367
L’assegnazione del dirigente comunale ad un diverso ufficio, pure dirigenziale, esula dalla problematica del demansionamento, trattandosi, ove vi sia stata manifestazione di volontà punitiva e ritorsiva del datore di lavoro, di “assegnazione del lavoratore ad ufficio diverso per ritorsione” vietata anche nel pubblico impiego. Cass. civ. sez. L, 8 gennaio 2015, n. 56
In tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione, non potendosi aver riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 cod. civ. Cass. civ. sez. L, 26 marzo 2014, n. 7106
Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell’art. 109 del d.l.vo n. 267 del 2000), nell’escludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorchè corrispondenti all’incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta “privatizzazione”), conferma peraltro il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non consente perciò- anche in difetto dell’espressa previsione di cui all’art. 19 del d.l.vo n. 165 del 2001 stabilita per le amministrazioni statali – di ritenere applicabile l’art. 2103 c.c. risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche. Cass. civ. sez. lav. 15 febbraio 2010, n. 3451
In materia di pubblico impiego privatizzato, non è configurabile un diritto del lavoratore subordinato a pretendere che il datore di lavoro non conferisca talune mansioni a dipendenti di qualifica inferiore, attesa l’assenza di un obbligo, in capo al datore, di farle svolgere in via esclusiva ai dipendenti in possesso di determinate professionalità, potendosi realizzare una lesione di interessi tutelati solo ove la concreta operatività del sistema abbia incidenza negativa, anche indiretta, su rilevanti aspetti quantitativi o qualitativi della prestazione di lavoro del dipendente di qualifica superiore ovvero sui pregressi livelli retributivi. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 21 agosto 2009, n. 18602
Ai dirigenti statali e, nella specie, ai dirigenti sanitari, alla stregua del combinato disposto degli artt. 2 e 19 del d.lgs. n. 29 del 1993 (anche nella sua originaria formulazione) non è applicabile l’art. 2103 c.c. valendo il principio di turnazione degli incarichi che, previsto nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato, e non avente riscontro nel rapporto di lavoro subordinato, costituisce fondamento dell’assegnazione delle mansioni dirigenziali, rappresentando, il passaggio ad incarichi diversi, il mutamento di mansioni giacché l’incarico identifica la funzione dirigenziale e, quindi, le attività concrete assegnate al dirigente che fondano l’immedesimazione organica con l’amministrazione. La rilevanza del principio della rotazione degli incarichi dirigenziali con cui il legislatore ha inteso perseguire, nel preminente interesse generale al raggiungimento degli obiettivi fissati all’organizzazione dei pubblici uffici dall’art. 97 Cost. il fine di evitare la cristallizzazione degli incarichi anzidetti e, nel contempo, di arricchire le doti culturali e professionali dei dirigenti interessati mediante lo scambio di esperienze e attività – comprova l’incompatibilità, nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico privatizzato, del sistema improntato al cennato principio con quello caratterizzato dal principio, ex art. 2103 c.c. di equivalenza delle mansioni. Cass. civ. sez. lav. 19 dicembre 2008, n. 29817
In materia di pubblico impiego privatizzato, la sottoutilizzazione professionale di un dirigente a seguito di trasferimento ad un organismo amministrativo di nuova formazione (nella specie, all’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) della Lombardia) non integra i presupposti del demansionamento, quale fatto duraturo e foriero di perdita di professionalità, ove la destinazione abbia carattere meramente temporaneo e provvisorio e sia conseguente all’immediato avvio della nuova struttura operativa, semprechè sia seguita dalla pronta assegnazione di mansioni equivalenti a quelle di provenienza. Cass. civ. sez. lav. 7 ottobre 2008, n. 24738
La violazione, da parte delle Amministrazioni datrici di lavoro, dell’obbligo di adibire il prestatore di lavoro alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti (art. 52, comma primo, D.L.vo n. 165 del 2001), va accertata, in concreto, con riferimento alle modificazioni dei contenuti professionali delle attribuzioni della qualifica, non essendo sufficiente il riscontro dell’alterazione dei precedenti assetti organizzativi, ancorché non conformi a legge. Cass. civ. sez. lav. 9 maggio 2006, n. 10628
In tema di mansioni, il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c. ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa. A tal fine, il giudice deve tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. Cass. civ. sez. VI, 18 maggio 2012, n. 7963
Ove il datore di lavoro abbia, unilateralmente e ingiustificatamente, rifiutato la prestazione del lavoratore non adibendolo ad alcuna attività, con conseguente sua dequalificazione professionale, la successiva sospensione del rapporto per il collocamento in cassa integrazione guadagni straordinaria non determina qualora sia stata accertata l’illegittimità della misura la cessazione della permanenza dell’illecito, lasciando inalterato l’inadempimento del datore di lavoro dell’obbligo di attivarsi per consentire l’esecuzione della prestazione medesima Cass. civ. sez. lav. 7 maggio 2008, n. 11142
Il lavoratore – cui l’art. 2103 c.c. (nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300), con norma applicabile anche ai dirigenti, riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte – ha “a fortiori” il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del lavoratore di lavoro confessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost. ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c. l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. (Omissis). Cass. sez. I, 2 agosto 2006, n. 17564
Il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall’art. 2103 c.c. deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti, cioè, alla professiofinalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati. Cass. civ. sez. lav. 6 dicembre 2017, n. 29247
Il principio della irriducibilità della retribuzione, che si può desumere dagli articoli 2103 c.c. e 36 Cost. ossia dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato, si estende alle indennità compensative di particolari e gravosi modi di svolgimento del lavoro, nel senso che quella voce retributiva può esser soppressa ove vengano meno quei modi di svolgimento della prestazione, ma deve essere conservata in caso contrario. Fine consegue che l’impegno, assunto con accordo collettivo, di rivedere l’ammontare della speciale voce retributiva entro un certo termine, comporta che alla scadenza di questo, non seguita dall’abolizione di quella prestazione, la indennità deve essere conservata, eventualmente nel suo ammontare attuale, ex art. 36 Cost. qualora il datore abbia disdettato l’accordo. (Fattispecie relativa all’indennità di “agente unico” corrisposta dalla s.p.a. Poste Italiane). Cass. civ. sez. lav. 23 luglio 2008, n. 20310