Art. 2087 – Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262 - Aggiornato alla legge 26 novembre 2021, n. 206)

Tutela delle condizioni di lavoro

Articolo 2087 - codice civile

L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (37 Cost.) (1).

Articolo 2087 - Codice Civile

L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (37 Cost.) (1).

Note

(1) Per la prevenzione degli infortuni, si veda il D.L.vo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Per la tutela della libertà e dignità dei lavoratori e della libertà sindacale si veda la L. 20 maggio 1970, n. 300, statuto dei lavoratori.

Massime

In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c.; fine consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I. (Fattispecie riguardante gli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani). Cass. civ. sez. lav. 21 giugno 2019, n. 16749

In tema di obbligo di sicurezza sui luoghi di lavoro, l’accertato rispetto delle norme antinfortunistiche di cui agli artt. 47 e 48 del d.l.vo n. 626 del 1994 e dell’allegato VI a tale decreto non è sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, gravando su quest’ultimo l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento, con particolare riguardo all’assetto organizzativo del lavoro, né la responsabilità del datore viene meno per il fatto che le funzioni di prevenzione e protezione siano state delegate ad un soggetto diverso. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva respinto la domanda risarcitoria del lavoratore infortunato sulla base del fatto che era stata dimostrata la consegna dei dispositivi di protezione ai dipendenti e che nessuna omissione di controllo potesse essere imputata al datore di lavoro, per avere quest’ultimo delegato tale attività ad un preposto). Cass. civ. sez. VI, 14 maggio 2019, n. 12753

La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all’attività lavorativa svolta, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili. (omissis) Cass. civ. sez. lav. 29 marzo 2019, n. 8911

In tema di responsabilità civile per la morte del lavoratore, il requisito soggettivo della colpa è integrato dalla violazione, da parte del datore di lavoro, delle regole cautelari di prevenzione evocate dall’art. 2087 c.c. strettamente correlate, in termini di ragionevole prevedibilità, alla verificazione dell’evento in quanto fondate, se non sulla certezza scientifica, sulla probabilità o possibilità – concreta e non ipotetica – che la condotta considerata determini l’evento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva condannato il Ministero della Difesa al risarcimento dei danni patiti dai familiari di un militare, morto in conseguenza della malattia contratta nel corso di una missione internazionale a causa dell’esposizione a radiazioni ionizzanti, sul presupposto che si trattava di un rischio ampiamente preventivabile in relazione all’impiego, nelle zone delle operazioni interessate, di armamenti idonei ad esporre le persone alle suddette radiazioni). Cass. civ. sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5813

In materia esercizio di attività pericolose ed esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto, la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicosica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e d’indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice di merito che – riconosciuto il nesso di causalità tra affezione ed esposizione alle polveri da absesto – aveva ritenuto la responsabilità del datore di lavoro sul presupposto che ad esso, Autorità portuale di Venezia, all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro – anni dal 1968 al 2000 – dovesse essere ben nota la pericolosità delle bre di amianto, materiale il cui uso è sottoposto a particolari cautele n dal principio del secolo scorso, indipendentemente dal grado di concentrazione di bre in relazione a periodi temporali di esposizione per attività lavorativa). Cass. civ. sez. L-, 13 ottobre 2017, n. 24217

In materia di obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. gravano sul datore di lavoro specifici obblighi di informazione del lavoratore, al fine di evitare il rischio specifico della lavorazione, insuscettibili di essere assolti mediante indicazioni generiche (quali, nella specie, di “svuotare la carriola con il badile, per renderla più leggera” o di “non sollevarla quando completamente piena” rispetto ad un danno verificatosi a causa del sollevamento manuale del carico), in quanto in tal modo la misura precauzionale non risulta adottata dal datore di lavoro ma l’individuazione dei suoi contenuti è inammissibilmente demandata al lavoratore; né l’obbligo di controllo può ritenersi esaurito nell’accertamento della prassi seguita in azienda, esigendosi, viceversa, una verifica riferita ai singoli lavoratori, attraverso specifici preposti e con riferimento ad ogni fase lavorativa rischiosa. Cass. civ. sez. lav. 6 ottobre 2016, n. 20051

In materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c. a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all’amianto, l’obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all’art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall’inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrani) di cui si è tenuti a conoscere l’esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell’esonero da responsabilità, l’affermazione dell’ignoranza della nocività dell’amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, “threshold limit value”) poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l’adozione delle misure di prevenzione prescritte. Cass. civ. sez. lav. 21 settembre 2016, n. 18503

Ai sensi dell’art. 2087 c.c. norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli e più sodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno. Cass. civ. sez. lav. 19 febbraio 2016, n. 3291

L’obbligo ex art. 2087 cod. civ. del datore di lavoro di apprestare una particolare protezione al fine di assicurare l’integrità sica e psichica del lavoratore integra, al contempo, fonte di responsabilità contrattuale e risarcitoria (nella specie, del danno morale), in quanto la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 cod. civ. Cass. civ. sez. L, 3 febbraio 2015, n. 1918

Ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è irrilevante l’assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l’ignoranza delle particolari condizioni in cui sono prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si presumono conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore. Cass. civ. sez. L, 8 maggio 2014, n. 9945

In materia di tutela delle condizioni di lavoro, di cui all’art. 2087 cod. civ. è configurabile una responsabilità del datore di lavoro in relazione ad infortunio che sia riconducibile ad un comportamento colpevole del datore, alla violazione di uno specifico obbligo di sicurezza da parte dello stesso o al mancato apprestamento di misure idonee alla prevenzione di ragioni di danno per i lavoratori dipendenti, mentre non può esigersi dal datore di lavoro la predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause d’infortunio del tutto imprevedibili. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che potesse essere addebitato al datore di lavoro l’infortunio subito da un conducente di autoarticolato, il cui sistema frenante era in condizioni inferiori ai limiti previsti per la revisione – pari al 68 per cento complessivo – tanto piche era stata la scelta del percorso da parte del lavoratore e la sua condotta di guida a determinare un eccessivo carico sul sistema frenante). Cass. civ. sez. L, 22 gennaio 2014, n. 1312

In tema di responsabilità datoriale per infortunio sul lavoro, l’art. 2087 cod. civ. impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, le quali rappresentano lo “standard” minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre cautele richieste in concreto dalla specificità del rischio, sicché, ove il lavoratore proponga domanda risarcitoria sulla base delle norme indicate, non è comunque ravvisabile l’introduzione nel processo di un “petitum” diverso e più ampio, oppure di una “causa petendi” basata su situazioni giuridiche non prospettate in precedenza o su un differente fatto costitutivo, allorché si individui l’inosservanza dell’indicato “standard” minimale in circostanze comunque emerse dagli atti di causa. Cass. civ. sez. L, 8 maggio 2013, n. 10819

La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Cass. civ. sez. lav. 7 agosto 2012, n. 14192

In tema di malattia professionale ed infortuni sul lavoro, va esclusa la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. ove la normativa specifica sulla pericolosità ambientale delle attività inerenti la prestazione lavorativa (nella specie, per aver fatto bruciare, come combustibile, in una stufa all’interno del locale di lavorazione delle traversine ferroviarie impregnate con una miscela di olio di catrame e pentaclorofenolo) sia stata introdotta solo in epoca successiva ai fatti che hanno dato causa all’infermità, dovendosi escludere, in tale eventualità, la colpa dell’azienda, mentre resta fermo, in ogni caso, il diritto dell’interessato a vedersi riconosciuto, a tutela del danno subito, un equo indennizzo, la cui attribuzione prescinde da ogni profilo di colpa. Cass. civ. sez. lav. 25 giugno 2009, n. 14946

In tema di tutela antinfortunistica nelle esternalizzazioni delle fasi del processo produttivo, ove lavoratori dipendenti da più imprese siano presenti sul medesimo teatro lavorativo, i cui rischi interferiscano con l’opera o con il risultato dell’opera di altri soggetti (lavoratori dipendenti o autonomi), tali rischi concorrono a configurare l’ambiente di lavoro ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.P.R. n. 547 del 1955, sicché ciascun datore di lavoro è obbligato, ex art. 2087 cod. civ. ad informarsi sui rischi derivanti dall’opera o dal risultato dell’opera degli altri attori sul medesimo teatro lavorativo e a dare le conseguenti informazioni ed istruzioni ai propri dipendenti, atteso che tale obbligo – non derogabile in virtù della notorietà dell’impresa presso la quale vengono inviati i dipendenti medesimi si pone in sintonia con la normativa vigente in tema di organizzazione del lavoro delle odierne realtà produttive complesse (v. d.P.R. cit. n. 547 del 1955 ed art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994). Cass. civ. sez. lav. 7 gennaio 2009, n. 45

L’art. 2087 c.c. il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità del dipendente, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria. Tuttavia è pur sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all’integrità sica patito dal dipendente. Pertanto, quando l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l’integrità sica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni afdategli. Cass. civ. sez. lav. 7 novembre 2007, n. 23162

L’adempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità sica del lavoratore imposto dall’art. 2087 c.c. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d’attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all’impiego d’attrezzi e macchinari quanto all’ambiente di lavoro, e deve essere verificato, nel caso di malattia derivante dall’attività lavorativa svolta, esaminando le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per prevenire l’insorgere della patologia. Cass. civ. sez. lav. 8 febbraio 2005, n. 2444

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.; deve ritenersi pertanto legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare, e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art. 2087 cit. di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità sica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali. Cass. civ. sez. lav. 18 aprile 2000, n. 5049

E’ configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato entrambi gli elementi, individuabili, il primo, nello svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice e, il secondo, nell’atteggiamento afflittivo del datore di lavoro, all’interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda). Cass. civ. sez. L, 21 maggio 2018, n. 12437

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore. Cass. civ. sez. L-, 10 novembre 2017, n. 26684

Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entità – al dipendente medesimo. Cass. civ. sez. lav. 7 agosto 2013, n. 18836

Integra la nozione di “mobbing” la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o sica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 25 luglio 2013, n. 18093

Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio siopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a ) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio ; b ) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente ; c ) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-sica del lavoratore ; d ) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. Cass. civ. sez. lav. 17 febbraio 2009, n. 3785

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