La natura giuridica del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio implica che la sua violazione non sia sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva, sempre che la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale. Cass. civ. sez. III, 7 marzo 2019, n. 6598
Poichè durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo comma, c.c. a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio. Cass. civ. sez. VI-I, 7 maggio 2018, n. 10927
Il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge – poichè, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner – configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’art.143 c.c. che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale. Tale volontario comportamento sfugge, pertanto, ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificato come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l’addebitamento della separazione, in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato. Cass. civ. sez. I, 23 marzo 2005, n. 6276
Nel caso in cui un coniuge consegni all’altro una somma di denaro e quest’ultimo la utilizzi per opere di miglioramento della casa coniugale, di sua proprietà, deve presumersi, in mancanza di prova contraria, che la consegna sia stata effettuata in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. Tuttavia, essendo stata la somma impiegata in modo da comportare anche l’arricchimento esclusivo del coniuge accipiente, questi è tenuto ad indennizzare l’altro del vantaggio conseguito. (Nella specie, la corte di merito aveva attribuito un’indennità ex art. 1150 c.c.). Cass. civ. sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866